TEORICI
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CONTRO L'ESSERE DI PARMENIDE Si fa fatica a comprendere perché Parmenide avesse impostato la sua ontologia sulla base del principio di non contraddizione (secondo cui A non è non-A), se non si parte dal presupposto ch'egli era un politico aristocratico, rappresentante di una ristretta minoranza che voleva comandare quasi per diritto divino. Questo senza nulla togliere al fatto ch'egli non ha mai equiparato esplicitamente il suo "essere" a dio, anche se lo descrive in maniera così assoluta e sulla base di un sogno tutt'altro che "laico", che il passo, dopo di lui, sarà molto breve. Parmenide non era uno che amasse essere contraddetto: i più li riteneva del tutto ignoranti della vera verità, non avvezzi a usare la ragione, schiavi dei loro sensi e di mere opinioni. Al massimo era disposto ad accettare la verosimiglianza. Ma in genere riteneva che l'essere s'imponesse da sé, cioè che la verità fosse un'evidenza e che solo per l'ostinata ignoranza degli uomini ciò non potesse avvenire. Quando descrive l'essere nel suo sogno, vi sono aspetti inquietanti: anzitutto lo trova rinchiuso nell'etere, in un luogo sigillato da una portone che solo la Giustizia ("che molto punisce") può aprire. Una necessità inflessibile tiene l'essere, che è perfetto come una sfera, vincolato a unicità, indivisibilità e immobilità. Non è mai libero di non-essere, proprio perché non esiste il movimento, e la libertà è data da una stretta necessità. Parmenide arrivò a dire che, non esistendo movimento, non ha senso parlare di nascita e di morte, sicché persino i cadaveri continuano a sentire qualcosa. Forse s'era ispirato a lui l'autore di quel racconto evangelico della resurrezione di Lazzaro, quando, dopo aver fatto aprire la tomba, Cristo gridò: "Lazzaro vieni fuori!". La sua teoria (esclusivista, élitaria) dell'essere pose le basi di quella metafisica che è stata una delle più grandi disgrazie del pensiero filosofico euroccidentale. Almeno fino a Hegel, che finalmente riscoprì la grande importanza della contraddizione ai fini dello sviluppo dell'identità, e nel far questo non a caso recuperò la trappola mortale per Parmenide, cioè Eraclito, il filosofo, per eccellenza, del divenire, quello per cui gli opposti si attraggono e si respingono necessariamente, salvaguardando la loro specifica diversità nell'unità. Invece di chiedersi come applicare questa teoria agli antagonismi sociali irriducibili, Parmenide eliminò il non-essere d'emblée! Per lui non contava nulla pensare come le cose potessero diventare: l'importante era giustificare lo status quo. Come se nel momento in cui chiedeva ai suoi sudditi di obbedire con giuramento alle sue leggi, quelli non potessero fare una cosa e pensarne un'altra! Riteneva che la verità dimostrata logicamente avesse una forza tale da apparire assolutamente necessaria, quando da sempre è opinione comune che se c'è una cosa che non può mai imporsi da sé, questa è proprio la verità. Nessuna affermazione, in nessun campo dello scibile umano, può mai pretendere un'interpretazione assolutamente univoca. Persino in matematica ci sono sempre più strade per arrivare a uno stesso risultato. Persino i meteorologi, quando danno le previsioni atmosferiche, facendo coincidere il sole col bel tempo, potrebbero tranquillamente essere contestati da quegli agricoltori che invece hanno bisogno che piova. Non c'è cosa che non possa essere usata per più funzioni. E questo lo si deve non all'essere (che fa nascere una cosa per una data funzione) ma proprio al non-essere, che rappresenta l'alterità eterna e infinita, cioè la condizione che impedisce di dare all'essere una definizione unilaterale. L'essere è solo un aspetto mutevole del non-essere, che è garanzia di autenticità di quello. Perché tutto quello che non-è è da scoprire. Il radicalismo di Zenone Il discepolo che, con più accanimento, cercò di difendere le tesi parmenidee dagli attacchi di chi le ridicolizzava, fu Zenone di Elea, il quale, pur di negare il movimento, e quindi il tempo, ricorse allo stratagemma di dividere lo spazio in tanti segmenti sempre più piccoli, che avrebbero impedito alla freccia di raggiungere il bersaglio e ad Achille di superare la tartaruga. La metà della metà all'infinito era il suo motto preferito, sicché qualcuno arrivò a dire che se Parmenide aveva eliminato tutto il non-essere, Zenone arrivò a negare persino l'essere. Queste forme di massimalismo ricordano quelle che in politica abbiamo vissuto negli anni Venti, quando molti di quelli che si dicevano socialisti divennero fascisti. La nostalgia di Severino Oggi, in Italia, chi va predicando un ritorno al monismo parmenideo è il filosofo Emanuele Severino, che, così facendo, pensa di poter ovviare al nichilismo della scienza onnipotente, quella che, forte dell'idea di divenire, fa continuamente coincidere essere e nulla, distruggendo e ricostruendo le cose con la stessa disinvoltura, nella convinzione, illusoria, di poterlo fare per omnia saecula saeculorum. In pratica è come se dicesse: la democrazia borghese s'è rivelata un fallimento su tutti i fronti, torniamo alla dittatura. Come se l'arroganza della scienza contemporanea non fosse figlia della supponenza metafisica dell'essere, sia esso in veste laica o religiosa. Non sarebbe meglio chiedersi come rendere adeguatamente concreto il concetto di democrazia? *** Parmenide, se davvero avesse voluto essere coerente con se stesso, cioè con l'idea che dell'essere si può dire soltanto che è, poiché ogni altro predicato implicherebbe il non essere, avrebbe dovuto ammettere che anche l'affermazione l'essere è può costituire una negazione. Infatti la copula è potrebbe essere considerata un predicato, e poiché ogni predicato ne nega almeno un altro, sarebbe stato meglio non dire nulla, o almeno nulla che avesse pretese logiche. L'essere non può essere "dimostrato", poiché qualunque definizione non si sottrae né alla necessità di una predicazione né alla necessità di una negazione. Non si può dir nulla senza predicare qualcosa, e nulla senza che non lo si possa negare. A rigor di logica, per contraddirsi il meno possibile, bisognerebbe dire che, l'essere è e, nel contempo, non è. Il che non vuol dire che, p. es. l'essere è saggio e stolto, ma semplicemente che ogni affermazione che si può fare nei suoi confronti può essere immediatamente smentita, proprio perché l'essere va al di là di qualunque definizione, e nei suoi confronti sarebbe meglio tacere. L'essere si mostra, non si dimostra, e chi pretende di dimostrarlo, dicendo l'essere è, eo ipso lo nega, lo viola nella sua identità, nella sua essenza, che, per sua natura, resta indicibile. Ma se questo vale per l'essere, che è categoria metafisica, e quindi astratta, a maggior ragione vale per l'essere umano, che è concreto e tangibile. Dare una definizione dell'essere umano è impossibile. Al massimo ci si può riferire ai suoi predicati, che però non possono riguardare il singolo essere umano, che in sé è un'astrazione al pari dell'essere. I predicati devono riguardare le tipologie di rapporti che il soggetto vive coi propri simili. Dunque, avevano ragione i sofisti quando dicevano che l'essere non è conoscibile? In teoria si; in pratica però essi si servivano di questa certezza per adottare una posizione scettica circa la verità e la giustizia. Per non essere scettici bisognerebbe invece dire che l'essere è libertà, che è attrazione e repulsione di contrari, e finché c'è anche un solo individuo che non si sente libero, l'essere, per lui, non è. E avrà tutti i diritti di utilizzare questo "non essere" per contestare l'essere che altri gli vogliono imporre. La nozione di
relatività nella trattazione della nozione di tempo nel
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