MARX: IL CAPITALE - Macchinario e grande industria 2

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


MACCHINARIO E GRANDE INDUSTRIA (cap. XIV)

I - II - III

Anche in questo cap. è evidente la visione limitata di Marx nei confronti delle società precapitalistiche. Egli infatti da un lato condanna il capitalismo perché basato sullo sfruttamento sistematico del lavoro altrui; dall'altro però afferma, a più riprese, che sotto il capitalismo è avvenuta la "socializzazione del lavoro", la "cooperazione dell'operaio complessivo" ecc.

Per Marx è stato un grande progresso dell'umanità la socializzazione aziendale imposta dal capitale ai lavoratori; non solo perché quest'ultimi sono stati costretti a "stare uniti", a lottare insieme per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro (il lato politico della socializzazione), ma anche perché è proprio "con il carattere cooperativo del processo di lavoro [sottinteso: capitalistico] che si estende per forza di cose il concetto del lavoro produttivo e del suo strumento, del lavoratore produttivo"(p. 665, che è appunto il lato economico della socializzazione).

Tutte le rivoluzioni precomuniste sono fallite -sembra dire Marx- perché gli uomini erano anzitutto disuniti nell'ambito del lavoro. Dice infatti a p. 664: "appropriandosi individualmente gli oggetti di natura per le esigenze della sua vita, egli [il lavoratore] controlla se stesso. In seguito egli viene controllato".

Il che in sostanza significa che l'uomo preborghese controllava sì se stesso, ma in maniera individualistica; era "libero" (relativamente parlando) ma "isolato". Sotto il capitalismo invece è sì "schiavo", in quanto "controllato", ma è "associato".

Marx non ha mai accettato l'idea di una società preborghese (anzitutto "primitiva") composta da uomini e donne "liberi e associati". Tutto ciò che è "precapitalistico" è necessariamente "individualistico". Qui il lavoro intellettuale e manuale -dice Marx- era unito e non in contrapposizione, ma il loro prodotto era quello "immediato del singolo produttore" e non quello "comune di un operaio complessivo, cioè di più persone che lavorano in combinazione"(pp. 664-5).

Egli vede l'operaio sociale del capitalismo in antitesi non solo al servo della gleba (considerato un semi-schiavo) ma anche a un operaio individualista che non è mai esistito. Il fatto che le corporazioni feudali non potessero avere più di un certo numero di operai non stava affatto a significare ch'essi facessero un lavoro individualistico, cioè se anche il lavoro in sé poteva apparire individualistico, non lo era però il contesto in cui si svolgeva. E in ogni caso il lavoro dell'operaio moderno industrializzato è sempre stato molto più parcellizzato (e quindi alienante) di quello del garzone. Il moderno operaio è semplicemente l'ingranaggio di una macchina che non vede mai il suo prodotto finito nell'insieme.

Marx equipara chiaramente la vita rurale della Germania tardo-feudale della sua epoca con la vita industrializzata della classe operaia inglese, e preferisce senza riserve quest'ultima. Egli non ha mai smesso di paragonare il capitalismo col feudalesimo del basso Medioevo, cioè un capitalismo in atto con uno in potenza, e facendo questo ha sempre avuto buon gioco nel sostenere che l'uno era migliore dell'altro sotto tutti i punti di vista.

Egli non ha mai ipotizzato l'idea che la cooperazione sarebbe potuta nascere anche a prescindere dal capitalismo. Marx parla continuamente dei vantaggi della cooperazione dimenticandosi di precisare a quale prezzo essi sono stati raggiunti. Parla della cooperazione come se essa fosse separabile dal capitalismo. Teoricamente potrebbe infatti esserlo, ma storicamente non lo è stata, almeno nell'ambito della manifattura.

Non è solo questione che con la manifattura si aumentano gli operai da impiegare contemporaneamente. La macchina non è più uno strumento di lavoro in cui una parte del tempo viene sottratta in maniera coercitiva dal proprietario della terra; ora è uno strumento completo per il profitto capitalistico, al pari della stessa forza-lavoro. Il capitalismo non nasce utilizzando semplicemente in maniera diversa i tradizionali mezzi produttivi (perché improvvisamente arrivò a capire che con la cooperazione si poteva fare di più e di meglio), ma sin dall'inizio è volto a trasformare questi mezzi in strumenti sempre più efficienti per realizzare profitti che in sostanza sono fini a se stessi. Questa rivoluzione culturale Marx non l'ha mai esaminata a fondo.

D'altra parte a Marx non interessa sapere se nel mondo contadino esisteva la cooperazione. La cooperazione, per lui, è strettamente legata al macchinismo.

Marx non ha fatto altro che proiettare nel lontano passato la vita dei contadini tedeschi, che nonostante l'adesione alla riforma protestante rimasero sostanzialmente estranei allo sviluppo dei processi democratici del tempo (come d'altra parte la stessa borghesia tedesca),

Occorrerà il contatto col populismo russo prima che Marx riveda i suoi pregiudizi nei confronti del mondo contadino.

* * *

Del capitalismo Marx non avrebbe mai detto ch'esso poteva porsi solo come una delle possibili alternative storiche al declino del feudalesimo. Era troppo forte l'idea del capitale di connettere "lavoro" a "produttività" perché si potesse pensare a una transizione non altrettanto "esigente". Eppure proprio il capitalismo ha trasformato il lavoro altrui in un'occasione di rendita, esattamente come faceva, con molto meno calcolo, il feudalesimo nei confronti del servaggio.

La stessa equiparazione borghese di "lavoro" e "produttività" possiede dei connotati antiumanistici, poiché la misurazione del proprio lavoro in un rendiconto di tipo economico viola il principio etico secondo cui il lavoro è mezzo e non fine o comunque strumento di vita e non di profitto. Concepire il profitto come cosa fine a se stessa significa vedere gli uomini solo come strumenti di lavoro.

L'uomo deve lavorare per il bene della comunità e quindi per il suo stesso bene, ma la comunità non può sottoporre il suo lavoro a un valore di tipo matematico. Da un punto di vista sociale e non meramente economico, ciò che più conta è che, potendolo fare, l'uomo lavori e non se ne stia a oziare a spese della comunità.

Se vale il principio socialista: "Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo bisogno", non può esistere il concetto di "lavoro produttivo", in quanto ogni lavoro lo è e tutti in misura uguale. Quanto, nella realizzazione di tale principio, occorra la presenza di comunità autogestite, è facile capirlo.

* * *

Marx ha spiegato solo in maniera fenomenica il passaggio dalla produzione di plusvalore assoluto (che è caratteristica di ogni formazione sociale antagonistica) alla produzione di plusvalore relativo (che è tipica del capitalismo): non l'ha spiegato in maniera ontologica o culturale.

Egli ha connesso la nascita del capitalismo con il "culto dell'uomo astratto" elaborato dal cristianesimo, ma non ha mai svolto un'analisi sistematica di tale connessione, e chi ha preteso di farla -p.es. Weber o Sombart- l'ha fatto in maniera borghese.

Occorre riesaminare tutta la teologia cattolica, a partire dalla riscoperta medievale dell'aristotelismo, per giungere sino allo sviluppo del calvinismo, che è la quintessenza culturale del capitalismo. Se non si fa questo lavoro di ricerca si finisce col cadere in tautologie, da ritenersi ormai classiche nel marxismo, come la seguente: "la produzione di plusvalore assoluto costituisce il fondamento universale del sistema capitalistico e il punto di partenza per la produzione del plusvalore relativo"(p. 666).

Se così fosse, non ci si potrebbe spiegare il motivo per cui lo stesso "fondamento universale" delle altre formazioni antagonistiche non s'è mai posto come punto di partenza per la produzione del plusvalore relativo.

Marx, che si rendeva ben conto del circolo vizioso, spesso -non avendo affrontato la questione in maniera culturale- era costretto a dare delle risposte equivoche, contraddittorie, come per es. la seguente: "Il fatto che in una società sia predominante questa forma di sfruttamento [il capitale usuraio o il capitale commerciale] impedisce il modo di produzione capitalistico [che presuppone la libera vendita della forza lavoro], che tuttavia può trovare in essa una forma di transizione: fu il caso del tardo Medioevo"(p. 667).

Altrove però egli dirà che senza il "capitale commerciale" difficilmente può sorgere quello "capitalistico".

In realtà -ed è la storia che lo dimostra- fino a quando esiste un primato dell'agricoltura, la cultura che sorregge lo sfruttamento del lavoro difficilmente può favorire una transizione al capitalismo: cosa invece possibilissima se quel primato viene intaccato dallo sviluppo del capitale commerciale, cui ovviamente deve corrispondere, sul piano sovrastrutturale, una cultura opposta alla precedente.

La diretta e completa subordinazione del lavoro al capitale deve essere in qualche modo anticipata sul piano culturale, anche se qui gli strumenti teorici che si usano e lo stesso oggetto delle argomentazioni può risultare del tutto estraneo agli sviluppi sociali futuri. E' difficile sostenere che la nascita culturale del capitalismo tragga le sue origini dalla riscoperta medievale dell'aristotelismo, eppure le sue radici sono lì.

L'analisi culturale deve essere approfondita, anche per evitare di dire delle sciocchezze, come p.es. là dove Marx pretende di aver trovato una "base naturale" del plusvalore: "nessun ostacolo naturale assoluto può impedire a una persona di esimersi dal provvedere al lavoro necessario per il proprio sostentamento addossandolo sulle spalle di un altro"(p. 669).

Se l'uomo è per definizione un "essere sociale", questa sua qualità non è un prodotto solo culturale ma anche naturale, che implica delle regole la cui verità dipende dalla libera accettazione. Anche se una cultura può farlo sembrare tale, lo sfruttamento non può mai essere considerato "naturale".

L'ostacolo naturale assoluto allo sfruttamento è dato proprio dalla naturale socializzazione della vita umana, che può arrivare ad accettare le discriminazioni solo se interviene, artificiosamente, una cultura che si contrappone alla "tradizionale natura delle cose", una cultura fittizia, non popolare ma intellettualistica, che pretende di mettere in discussione quella consolidata da secoli di vita sociale, e che trova un terreno fertile in quelle realtà non sufficientemente consapevoli del valore delle cose.

La "spontanea produttività di plusvalore" è tipica delle società antagonistiche, ma era del tutto sconosciuta alle comunità primitive, che pur sono esistite per milioni di anni.

Per Marx le comunità primitive erano così arretrate da risultare assai simili alla socializzazione degli animali. Egli cita, in nota, "gli indiani selvaggi d'America" e nel testo parla di "cannibalismo".

Il fatto che fra gli indiani quasi tutto appartenesse alla comunità viene considerato possibile da Marx appunto perché "le forze produttive erano assai piccole; anche le esigenze..."(p. 669). Quindi in sostanza mancava lo sfruttamento a causa dell'arretratezza sociale della tribù!

"I rapporti secondo i quali il pluslavoro di una persona diviene condizione di esistenza di un'altra sorgono solamente quando gli uomini sono usciti tramite il lavoro dalla loro animalità, vale a dire solo quando il loro stesso lavoro è arrivato a un determinato grado di socialità"(p. 669). Dunque, il lavoro o meglio la forza-lavoro è tanto più fonte di valore quanto più si pone come unico mezzo in grado di far uscire una comunità primitiva dalla propria "animalità"!

Cos'è questo se non un modo ideologico di applicare al passato uno stile di vita moderno? In assenza di un'analisi culturale approfondita Marx è costretto ad affermare che l'uomo diventa tanto più facilmente "umano" quanto prima inizia lo "sfruttamento"! L'umanizzazione trova le sue fondamenta in ciò che la contraddice.

Di qui il rifiuto di considerare possibile l'idea che non tanto il lavoro sia fonte del valore, quanto piuttosto che sia il valore condiviso da una collettività a dare senso al lavoro.

Marx ha voluto usare categorie borghesi per ritorcercele contro la stessa borghesia: infatti se il lavoro è fonte del valore, la borghesia è una classe inutile perché vive sullo sfruttamento del lavoro altrui. Tuttavia, non è questo il modo di costruire un'alternativa globale al capitalismo.

E l'alternativa va cercata proprio nell'esperienza della comunità primitiva. Gli storici hanno sostenuto che Marx non ebbe idee chiare sullo sviluppo del comunismo primitivo perché allora gli studi critici erano molto scarsi, ma non si tratta solo di questo.

Prendiamo ad es. questa affermazione: "in quel periodo primordiale la parte della società che vive del lavoro di altri è nei confronti della massa dei produttori diretti proporzionalmente esigua, quasi insensibile"(p. 669).

Come se lo "scarso sfruttamento" del lavoro altrui fosse un difetto della comunità! Come se uno sfruttamento, seppur esiguo, debba per forza essere presente in ogni comunità primordiale! Come se il non-lavoro da parte di alcuni dovesse necessariamente coincidere con lo sfruttamento nei confronti di altri!

Chiunque può facilmente notare che non si tratta soltanto di mancanza di conoscenze. Tant'è che alla fine della sua argomentazione Marx, rendendosi conto di non aver saputo trovare una risposta convincente al problema della nascita del capitalismo, è costretto a concludere con un'affermazione generica: "Il rapporto capitalistico sorge su un terreno economico che è prodotto di un lungo processo di sviluppo... non è dono di natura, ma di una storia che comprende migliaia di secoli"(pp. 669-70).

Il processo evoluzionistico della storia qui viene chiamato in causa per giustificare un fenomeno di cui non s'è ben capita la genesi storico-culturale.

D'altra parte ancora più assurda è la risposta, di tipo "geografico" (alla Montesquieu), ch'egli qui dà a questo problema: "Non è il clima tropicale con la ricca vegetazione la madrepatria del capitale, bensì la zona temperata"(pp. 671-2).

Eppure poco prima egli aveva detto: "Quanto minore è il numero dei bisogni naturali da soddisfare in assoluto, e quanto più grande è la fertilità naturale della terra e la mitezza del clima, tanto più corto è il tempo di lavoro necessario per il mantenimento e per la riproduzione del produttore"(p. 670).

Col che si potrebbe pensare che la comunità primitiva avesse meno bisogno di praticare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Invece secondo Marx è proprio il contrario: "tanto maggiore può quindi essere l'eccedenza del suo lavoro per altri..."(p. 670).

Ma allora -ci si può chiedere- perché il capitalismo non è per esempio nato nell'Egitto dei faraoni, che certo conosceva e praticava lo sfruttamento dell'uomo? Marx in sostanza sostiene che il capitalismo poteva nascere solo in una zona geografica la cui ricchezza naturale non fosse troppo rigogliosa, ma dipendesse dalla capacità dell'uomo di dominare la natura.

E riporta vari esempi, soprattutto in riferimento all'irrigazione dei suoli: antico Egitto, Lombardia, Olanda, India, Persia, Spagna, Sicilia...

Eppure proprio questa capacità lavorativa, riscontrabile in epoche e luoghi diversi, non spiega affatto il motivo per cui la nascita del capitalismo si sia verificata proprio in Europa occidentale, né la ragione per cui in molti dei luoghi citati da Marx il capitalismo si sia affermato solo in seguito al colonialismo europeo, cioè come una forzatura imposta da un agente esterno.

Insomma, quando Marx afferma che "la prosperità delle condizioni naturali favorisce sempre solamente la possibilità, mai la realtà del pluslavoro..."(p. 673), non si rende conto che se avesse approfondito la ricerca culturale avrebbe trovato indimostrabile questa teoria climatica anche solo per il concetto di "possibilità del pluslavoro".

Che il passaggio dalla possibilità alla realtà dipenda da fattori extranaturali, o che esso venga ritenuto impossibile semplicemente a motivo di determinati fattori naturali, bisogna in ogni caso trovare i fattori umani che hanno generato la transizione, altrimenti un qualunque nesso di clima e pluslavoro rischia di diventare una sciocchezza colossale.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015