Fichte: realismo e idealismo

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Fichte: realismo e idealismo

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Fichte

Giuseppe Bailone

Nel linguaggio corrente, realismo e idealismo sono due diversi atteggiamenti nei confronti della realtà, che possono anche convivere nella stessa persona, magari in tempi e in situazioni diverse.

Per Fichte sono due filosofie nettamente alternative.

In realtà, per lui, solo l’idealismo merita il nome di filosofia, perché il realismo resta prigioniero della coscienza empirica, caratterizzata da un atteggiamento totalmente passivo nei confronti dei dati forniti dall’esperienza.

Questa passività blocca qualsiasi accesso al punto di vista della filosofia, che esige l’attenzione del filosofo a se stesso, alla propria attività libera.

Per questo, Fichte identifica il realismo col dogmatismo.

Fichte interpreta, in termini molto originali, il motto delfico, “conosci te stesso”. È il motto che Socrate ha messo al centro della sua filosofia, ma Fichte ne rovescia il significato: se per Socrate esso porta alla coscienza della propria ignoranza, per Fichte conduce, come già in Agostino e un po’ in tutte le filosofie dell’interiorità, al principio sul quale si può finalmente costruire il vero sistema del sapere.

È questo il punto sul quale, come abbiamo visto, avviene lo scontro con Kant.

In apertura della Prima introduzione alla dottrina della scienza, Fichte scrive:

“Presta attenzione a te stesso: distogli il tuo sguardo da tutto ciò che ti circonda, e volgilo dentro di te; questa è la prima richiesta che la filosofia rivolge a chi incomincia a dedicarsi a lei. Non si parla di niente che sia fuori di te, ma soltanto di te stesso”.

Mentre il realista, dogmatico, resta prigioniero dei dati offerti dall’esperienza, la filosofia esige che si rivolga l’attenzione alla propria attività.

“Basta – continua Fichte – anche la più sommaria osservazione di sé per cogliere una significativa differenza tra le diverse determinazioni immediate della propria coscienza, che noi possiamo denominare anche rappresentazioni. Alcune di esse, infatti, ci appaiono come totalmente dipendenti dalla nostra libertà, ma ci è impossibile credere che ad esse corrisponda qualcosa fuori di noi, se non ve lo poniamo noi stessi. La nostra fantasia, la nostra volontà ci appaiono libere. Altre rappresentazioni sono da noi riferite, come al loro modello, a una verità che deve essere stabilita indipendentemente da noi; e sotto la condizione che esse debbano coincidere con questa verità, noi, nel determinare queste rappresentazioni, ci sentiamo vincolati. Nella conoscenza, e per ciò che riguarda il contenuto di essa, noi non ci sentiamo liberi. In sintesi, possiamo dire: alcune delle nostre rappresentazioni sono accompagnate dal sentimento della libertà, altre da quello della necessità”.

Le prime rappresentazioni nascono dall’intuizione interna o “libera immaginazione”, o, ancora, “intuizione intellettuale”, che Fichte distingue nettamente dall’esperienza dei propri stati d’animo. Le seconde derivano dall’esperienza esterna e interna, e sono dei dati, cioè elementi di realtà, che la nostra sensibilità registra passivamente.

A differenza dell’intuizione interiore ma sensibile, che coglie i dati del nostro stato d’animo, l’intuizione intellettuale coglie atti liberi, non determinati e necessari come si presentano i dati sensibili.

Perché le prime rappresentazioni sono libere e le altre necessarie?

“Non si può ragionevolmente formulare una domanda in questi termini: perché le rappresentazioni dipendenti dalla libertà sono determinate in quel modo e non altrimenti; una volta, infatti, che esse siano poste come dipendenti dalla libertà, è esclusa ogni applicazione del principio di ragion sufficiente, esse sono così perché le ho determinate in quel modo, e se le avessi determinate altrimenti esse sarebbero diverse.

È peraltro una domanda senza dubbio meritevole di riflessione quella che si può così formulare: qual è il principio del sistema delle rappresentazioni accompagnate dal sentimento di necessità, e di questo stesso sentimento di necessità? Rispondere a questa domanda è compito della filosofia. E, a mio avviso, la filosofia non è altro che la scienza che risolve questo compito. Il sistema delle rappresentazioni accompagnate dal sentimento di necessità è denominato anche esperienza, sia interna che esterna. Alla filosofia – per dirla con altre parole – spetta dunque di indicare il principio di tutta l’esperienza”.1

Per arrivare a quel principio, però, il filosofo deve sollevarsi dalla coscienza empirica all’intuizione intellettuale. Il principio di tutta l’esperienza, per Fichte, non si trova nell’esperienza. Non lo trova un “ente razionale finito”, quello cui gli illuministi e anche Kant affidavano il compito della conoscenza. Ci vuole il filosofo che astrae dalle cose, dai contenuti empirici dell’esperienza, e si ritrova come “una intelligenza in sé”, “l’Io in sé”. Ci vuole il filosofo idealista.

“L’ente razionale finito non ha altro se non l’esperienza: è questa che contiene l’intera materia del suo pensiero. Il filosofo è sottoposto inevitabilmente alle stesse condizioni: sembra pertanto incomprensibile come egli possa elevarsi sopra l’esperienza.

Ma egli può astrarre, il che significa che, con la libertà del pensiero, può separare ciò che nell’esperienza è congiunto. Nell’esperienza sono indissolubilmente congiunte la cosa, ciò che dovrebbe essere determinato indipendentemente dalla nostra libertà, e verso cui dovrebbe volgersi la nostra conoscenza, e l’intelligenza, cui spetterebbe di conoscere. Il filosofo può astrarre da uno di questi termini, e ha quindi fatto astrazione dall’esperienza, elevandosi sopra di essa. Se astrae dalla cosa, gli rimane un’intelligenza in sé, il che significa che egli astrae dal rapporto che essa ha con l’esperienza; se astrae dall’intelligenza, gli rimane, quale principio di spiegazione dell’esperienza, una cosa in sé; il che significa ch’egli astrae dal fatto che questa si presenti nell’esperienza. Il primo procedimento si chiama idealismo, il secondo dogmatismo.

Proprio da ciò che stiamo esponendo risulta che sono possibili soltanto questi due sistemi filosofici. Secondo il primo sistema, le rappresentazioni accompagnate dal sentimento di necessità sono prodotti dell’intelligenza che, nella loro spiegazione, va loro presupposta; per il secondo, tali rappresentazioni sono prodotti di una cosa in sé, che va loro presupposta”.2

Per capire, occorre sempre tener presente che per Fichte l’intelligenza è attività libera, assoluta, le cui rappresentazioni non dipendono primariamente dall’azione della cosa in sé sul soggetto, ma dall’azione libera dell’io che le configura pensandole.

L’alternativa è inconciliabile.

“Nessuno di questi due sistemi può confutare direttamente quello opposto – in quanto il loro conflitto è un conflitto sul primo principio, il quale non è deducibile da altro; ognuno dei due confuta il principio dell’altro soltanto se il suo principio vien dato per ammesso; ciascuno contesta tutto al sistema opposto, ed essi non hanno in comune alcun punto muovendo dal quale possano trovare un accordo tra loro, e riconciliarsi. Se anche sembrano concordare sulle parole di una proposizione, ciascuno le intende in un senso diverso dall’altro. […]

Per il dogmatico tutto ciò che compare nella nostra coscienza è prodotto di una cosa in sé, e pertanto anche le nostre pretese determinazioni effettuate con libertà, nonché la stessa opinione che noi siamo liberi. Questa opinione viene prodotta in noi dall’azione della cosa, e nello stesso modo vengono prodotte le determinazioni che noi deriviamo dalla nostra libertà, ed è per questo che le attribuiamo non a una causa, ma alla libertà. Ogni dogmatico coerente è necessariamente fatalista, egli non nega il fatto di coscienza, che noi ci riteniamo liberi, perché ciò sarebbe contraddittorio, dimostra però, muovendo dal suo principio, la falsità di questa affermazione. Contesta senza riserve l’indipendenza dell’io, che l’idealista prende come fondamento, e fa dell’io un prodotto delle cose, un accidente del mondo; il dogmatico coerente è, necessariamente, anche materialista. Potrebbe essere confutato soltanto muovendo dal postulato della libertà e dell’indipendenza dell’io; ma è proprio ciò che egli nega.

Né il dogmatico può confutare l’idealista.

Il principio dogmatico, la cosa in sé, è nulla, e, come è costretto ad ammettere anche il sostenitore di esso, non ha altra realtà se non quella che deve ricevere per il fatto che soltanto ponendo lei si può spiegare l’esperienza. L’idealista demolisce questa prova spiegando l’esperienza in un altro modo, e contestando proprio ciò su cui il dogmatico basa la sua costruzione. La cosa in sé diventa una totale chimera, e non si vede più alcun motivo per cui si debba ammetterne una; e con essa crolla l’intero edificio dogmatico. […]

Il conflitto fra idealista e dogmatico è, propriamente parlando, la scelta tra il sacrificare all’indipendenza dell’io l’indipendenza della cosa, ovvero, al contrario, l’indipendenza dell’io a quella della cosa. Cos’è, dunque, che spinge un uomo razionale a pronunziarsi per una delle due alternative?

C’è una prospettiva, da noi già indicata, nella quale il filosofo è tenuto a collocarsi, se vuol essere considerato filosofo, e nella quale, per i progressi del pensiero, l’uomo prima o poi finirà per trovarsi, anche senza essersela consapevolmente proposta: essa non esprime altro se non che l’uomo è tenuto a rappresentarsi di essere libero, e che fuori esistono cose determinate. Per l’uomo è impossibile fermarsi a questo pensiero; il pensiero della mera rappresentazione è soltanto un mezzo pensiero, un pezzo troncato di un pensiero; deve essergli aggiunto col pensiero qualcosa che corrisponde alla rappresentazione indipendentemente dal rappresentare. In altre parole: la rappresentazione non può sussistere da sola, da sola non è niente, ed è qualcosa soltanto in collegamento con un altro. Questa necessità del pensare è proprio ciò che, da quella prospettiva, fa sorgere il problema: qual è il principio delle rappresentazioni, ovvero – che è lo stesso – cos’è ciò che loro corrisponde?”.3

La nostra cultura nasce dalla confluenza della cultura ebraico-cristiana in quella greca e romana, due culture radicalmente diverse, con un atteggiamento mentale opposto nei confronti della realtà.

Per un greco, ma anche per un romano, nel rapporto soggetto-oggetto il primato è dell’oggetto, della cosa, di ciò che è. La prima filosofia greca va in cerca dell’archè, del principio di ogni cosa inteso come ciò che veramente è, come Cosa, con la maiuscola. Non a caso la prima grande metafisica greca, quella di Parmenide è incardinata sull’essere, su ciò che è necessariamente.4 Non solo la soggettività umana, ma anche quella divina deve adattarsi alla realtà oggettiva. Gli dei greci e romani non hanno creato il mondo e non lo governano. Al massimo possono fare qualche intervento portentoso, ma non sono onnipotenti.

Il dio biblico e cristiano, invece, è creatore onnipotente dal nulla di tutte le cose. Di fronte a sé non ha l’essere necessario di Parmenide, bensì il nulla. E le cose che hanno consistenza di cose non sono originarie, bensì suoi prodotti. Il mondo è per la cultura ebraico-cristiana il creato. Creato dal nulla. Non semplicemente modellato, come nel Timeo platonico, in base a modelli ideali oggettivi, quali sono le idee platoniche, e non su progetto originale e soggettivo. La soggettività divina biblica è il principio di spiegazione di tutto ciò che è. E la soggettività umana, per quanto non onnipotente, assomiglia ad essa e le cose sono oggetto e teatro della sua attività. La fede, per un cristiano, muove le montagne.

Per un greco ciò che è ha il primato sul soggetto. Per un ebreo e per un cristiano dei primi tempi il primato è del soggetto. Poi, la confluenza delle due diverse culture ha mescolato le cose. Ci sono, però, dei filosofi che esprimono in modo puro l’una o l’altra cultura. Ad esempio Spinoza, per quanto di origine ebraica, diventa, grazie al suo entusiasmo per la lettura scientifica e geometrizzante della realtà, e del suo radicale rifiuto di ogni antropomorfizzazione di Dio, espressione di una posizione parmenidea. Invece, Cartesio è così radicalmente cristiano da ridurre addirittura le verità eterne, anche quelle matematiche, a decreto dell’onnipotente volontà divina.

Fichte, stabilendo il primato dell’Io, si colloca in posizione diametralmente opposta a quella di Spinoza. Di greco e del suo fondamentale senso del limite (si pensi alle colonne d’Ercole) non c’è più nulla nella sua filosofia: i limiti ci sono, limitano i diversi io empirici, ma sono posti dall’Io per essere superati. L’ostacolo non è un limite invalicabile, è occasione di successo.

Le due culture non sono compatibili e noi, figli della loro confluenza conflittuale, viviamo quel conflitto e ci dividiamo tra coloro nei quali prevale l’una o l’altra. Fichte vede questa divisione, ma non la riconduce alle nostre remote radici culturali, bensì a differenze umane e morali personali, aprendo nella sua filosofia, così rigorosamente sistematica, una prospettiva di sapore esistenzialistico.

Non solo: il suo rigido monismo, espressione filosofica del monoteismo, lo porta a escludere una pluralità di principi di spiegazione della realtà. Per lui c’è un solo principio primo.

“Non ci sono dubbi che si può avere la rappresentazione dell’indipendenza dell’io, e di quella della cosa, ma non l’indipendenza di entrambi, l’una accanto all’altra. Primo, iniziale, indipendente può essere uno solo; e quello che è secondo diventa necessariamente, per il fatto che è secondo, dipendente dal primo, col quale esso va collegato.

Ma quale dei due deve essere messo al primo posto? Non è possibile che il motivo della decisione venga ricavato dalla ragione; qui non si tratta infatti dell’inserimento di un membro nella serie argomentativa, per il quale sono sufficienti le motivazioni razionali, ma dell’inizio dell’intera serie, che, essendo un atto assolutamente primo, dipende dalla libertà del pensiero.”

Spinoza respingerebbe senza dubbio quest’ultima tesi.

Ma continuiamo a seguire il ragionamento di Fichte.

“Tale atto vien determinato dall’arbitrio; e dato che la determinazione dell’arbitrio deve pure avere un motivo, vien determinato dall’inclinazione e dall’interesse. Il motivo ultimo della differenza tra l’idealista e il dogmatico è quindi la diversità del loro interesse.

L’interesse supremo, fondamento di ogni altro interesse, è quello per noi stessi. Così è per il filosofo. Non perdere il proprio se stesso in un vuoto argomentare, ma mantenerlo e affermarlo – questo è l’interesse che dirige, anche se non avvertito, tutto il suo essere. Ora ci sono due livelli di umanità; e, nel progredire del genere umano, prima che l’ultimo livello sia stato raggiunto da tutti, ci sono due tipi fondamentali di uomo. Alcuni, che non si sono ancora innalzati al pieno sentimento della loro libertà, e della loro assoluta indipendenza, trovano se stessi soltanto nella rappresentazione delle cose; essi hanno soltanto quell’autocoscienza dispersa, fisa agli oggetti, che va messa insieme dalla molteplicità di essi. La sua immagine vien loro rimandata dalle cose come attraverso uno specchio; se le cose vengono loro sottratte, ecco che il loro se stesso va perduto; è in funzione di loro stessi che essi non possono abbandonare la loro fede nell’indipendenza delle cose: perché soltanto insieme a queste essi sussistono. Sono effettivamente diventati ciò che essi sono in grazia del mondo esterno. E chi di fatto è soltanto un prodotto delle cose non potrà vedere se stesso in altro modo; e ha anche ragione, purché parli soltanto di sé e dei suoi simili. Il principio dei dogmatici è la fede nelle cose, in funzione di loro stessi: da cui deriva, per mediazione, la fede nel proprio sé, disperso, e sorretto soltanto dagli oggetti.

Chi, invece, è consapevole della propria autonomia, e della propria indipendenza da tutto ciò che è fuori di lui – e lo si diventa soltanto perché, per opera propria e indipendentemente da tutto il resto, ci si è resi qualcosa – costui non ha bisogno delle cose come sostegni del suo sé, e non può averne bisogno, perché esse sopprimono l’autonomia di cui s’è detto, e la trasformano in una vuota apparenza. L’io, che egli possiede, e che lo interessa, toglie quella fede nelle cose; egli crede nella sua autonomia per inclinazione, la abbraccia con passione. La sua fede in se stesso è immediata. […]

Da quanto si è detto risulta che la scelta della filosofia dipende da che uomo si sia: un sistema filosofico, infatti, non è un’inerte suppellettile, che si possa abbandonare o accettare a proprio piacimento: al contrario, esso è animato dall’anima dell’uomo che lo ha fatto proprio. Un carattere fiacco per natura, o infiacchito e deformato da schiavitù spirituale, pompa accademica e vanità, non potrà mai elevarsi all’idealismo”.5

Ci sono, quindi, uomini che, per i loro limiti morali, non hanno ancora accesso alla vera filosofia e restano fermi al realismo e al dogmatismo. Fichte, però, non dispera. È un idealista e crede nel progresso dell’umanità. Col miglioramento dell’umanità il dogmatismo è destinato a deperire, ma è inutile fare opera di proselitismo diretto: molto più efficace può essere l’impegno a promuovere il progresso umano, soprattutto con i giovani, proprio come lui fa con impegno costante e profondo.

“È ben possibile – continua – far vedere al dogmatico l’insufficienza e l’incoerenza del suo sistema: lo si può mettere in imbarazzo e inquietarlo con le più diverse obiezioni, ma non si può convincerlo, perché egli non è in grado di ascoltare e di esaminare, con calma e con freddezza, una dottrina che egli non può assolutamente sopportare. Per essere filosofo – ammesso che l’idealismo si confermi come l’unica vera filosofia – per essere filosofo bisogna esservi nati, e bisogna esservi educati, ed educarvisi: ma non si può esser resi tali da nessuna arte umana. Per cui anche questa scienza non spera di trovare molti proseliti tra gli uomini fatti; ammesso che possa sperare, si aspetta di più dai giovani, la cui forza congenita non è stata ancora rovinata dalla fiacchezza del tempo”.

Torino 8 dicembre 2015

Note

1 Fichte, Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, a cura di Claudio Cesa, ed. Laterza, 1999, pp. 7-8.

2 Ib., pp. 10-11.

3 Ib., pp. 14-17.

4 Anche le idee di Platone non esistono perché sono pensate, ma possono essere pensate perché esistono come forme ideali oggettive. Per questo la parola “idealismo” ha, riferita a Platone, un significato radicalmente diverso da quello assunto a partire da Cartesio e presente in questo testo di Fichte.

5 Ib., pp. 17-20.

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 09-02-2016