Il sistema dell’idealismo fichtiano

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Il sistema dell’idealismo fichtiano

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Fichte

Giuseppe Bailone

“Noi – scrive Fichte in un manoscritto del 1794 per i suoi uditori delle lezioni private a Jena – dobbiamo ricercare il principio più assoluto e assolutamente incondizionato di tutto il sapere umano”.1

Questo è l’inizio del Fondamento dell’intera dottrina della scienza, un’opera il cui titolo segnala due aspetti fondamentali del pensiero fichtiano: la centralità del problema del fondamento e l’idea che il sapere filosofico debba essere così rigorosamente scientifico da potersi definire “dottrina della scienza”.

La “dottrina della scienza” deve presentarsi come un “sistema” incardinato su un solo “principio” assoluto.

“Sistema” e “principio” sono due parole fondamentali nella filosofia fichtiana.

“Sistema” significa una concatenazione dimostrativa, completa ed esaustiva. L’esposizione filosofica, cioè, deve essere rigorosamente centrata sul nesso logico di premessa e conseguenza e avere un termine. Il discorso filosofico, come già aveva detto Cartesio, non può essere una riflessione infinita né avere delle lacune: solo il rigore logico dei suoi passaggi interni e la completezza del sistema filosofico possono vincere il dubbio e l’incertezza.

Questo è fondamentale, ma non basta: il “sistema”, e su questo Fichte insiste molto, deve avere un “principio” primo e incondizionato, tale da recare in se stesso la certezza della propria verità. Un principio, che, essendo il primo e fondamentale anello della catena dimostrativa, non può essere evidentemente dimostrato, non può, cioè, ricevere la propria validità dagli anelli precedenti (se così fosse, infatti, non sarebbe né primo né assoluto), ma deve mostrarsi da sé in tutta la sua evidenza.

Solo quest’autoevidenza dissipa ogni dubbio e rende possibile la costruzione del sistema filosofico.

Kant ha nell’imperativo categorico la stella polare dell’esistenza umana e l’alimento della fede razionale nella libertà. Il dovere è per Kant l’assoluto presente in noi e alimenta la fede nella libertà umana: “Se devo, posso”. Fichte, come abbiamo visto, apprezza molto questo cuore della filosofia kantiana, ma a lui la sola fede, sia pure razionale, nella libertà umana non basta. Ne vuole la certezza assoluta, tale da farne il fondamento, il primo principio assoluto del suo sistema. Se per Kant l’assoluto che è in noi è il dovere, per Fichte esso conduce all’intuizione intellettuale della libertà, dell’attività libera, assoluta. La matrice del dovere, dell’imperativo categorico, infatti, non può che essere un’attività assolutamente libera.

A Fichte l’assolutezza del dovere non basta, vuole quella della libertà che è all’origine del dovere morale. Se Kant si ferma a quel fatto della ragione che è l’imperativo categorico, Fichte vuole portare a compimento la rivoluzione kantiana, riflettendo sulla matrice di quel fatto. È convinto di aver trovato in essa il fondamento del suo sistema filosofico, il primo principio assoluto.

Questo principio è assolutamente primo: ha, infatti, caratteri completamente diversi da quelli degli oggetti di ogni nostra coscienza empirica, che è sempre coscienza di un dato, di un fatto, cioè di qualcosa di esterno alla coscienza stessa. Questo primo principio, invece, riguarda ciò che viene prima della coscienza, ciò che non è un fatto, bensì ciò che è in azione, ciò che è atto in atto, prima di fissarsi nella compiutezza e di diventare un dato, un fatto, una cosa.

“Esso – scrive, infatti, Fichte, continuando il passo citato in apertura – deve esprimere quell’atto che non compare, né può comparire, fra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma sta piuttosto a fondamento di ogni coscienza e solo la rende possibile”.

Con queste precisazioni, Fichte, intende chiarire che il primo principio assoluto di cui ha bisogno la dottrina della scienza per incardinarsi non va cercato in una “cosa in sé”, neppure in un soggetto, inteso come sostanza, ma nell’agire del soggetto stesso. Il soggetto che interessa a Fichte, infatti, egli non lo considera per com’è fatto, per la sua natura, come cosa-soggetto, ma in quanto si esprime nell’agire, come attività-soggetto.

Fichte è il filosofo che con più radicalità afferma il primato dell’attività sul fatto: il fatto, ciò che è, rimanda al fare che lo pone in essere, così come il creato rimanda all’attività creativa del creatore. Per Fichte, non ci si può fermare a un dato e considerarlo primo principio assoluto. Per lui si tratterebbe di dogmatismo. Un dato, per definizione, non può essere assolutamente primo, essendo un participio passato, un qualcosa che rimanda all’azione che l’ha determinato. Può sì essere un primo “dato”, ma farne il primo principio di un sistema significa, per Fichte, essere dogmatici.

Si potrebbe dire che per lui, all’inizio, prima ancora della prima creatura, anzi, prima ancora di Dio come sostanza, c’è la sua attività creativa infinita che spiega ogni cosa. All’inizio, per usare le espressioni del vangelo di Giovanni e riscriverle nello spirito della filosofia di Fichte, c’era non già il verbo, che è già un fatto, un dato, ma l’attività che crea il verbo, il parlare e non la parola.

Per aiutare se stesso e chi lo voglia seguire ad arrivare a vedere, ad intuire intellettualmente, questo primo principio, Fichte sceglie di partire dal principio di identità della logica tradizionale: A = A.

Questa identità non è quindi il primo principio, ma il punto di partenza di un percorso razionale che porta a scoprire il primo principio, a mostrarlo in tutta la sua evidenza. Questo, scrive, infatti, Fichte, “non è possibile dimostrarlo oppure determinarlo se dev’essere il principio più assoluto”.2

È necessaria una riflessione che promuova l’intuizione intellettuale del primo principio assoluto.

“Sulla via della riflessione da compiere noi dovremmo partire da una qualche proposizione che ognuno ci conceda senza obiezioni. Di simili proposizioni potrebbero essercene più d’una. La riflessione è libera e non ha importanza da quale punto parte. Noi scegliamo quella da cui la strada al nostro scopo è più breve”.3

Assunto il suo punto di partenza, il suo punto d’appoggio per la ricerca del primo principio, Fichte fa osservare che esso stabilisce sì un’identità indiscutibile, ma che questa è puramente ipotetica: infatti, essa non dice se A sia o no reale, se esista o meno; dice solo che se A esiste essa è uguale ad A. Il tradizionale principio logico dell’identità (A=A), generalmente accettato come primo e indiscutibile, vale solo per la logica formale: non è primo, per la filosofia, ma rimanda a un principio superiore e più alto, veramente assoluto.

Fichte usa qui l’argomento di cui Kant si serve per distinguere la logica formale dalla sua logica trascendentale, ma anche, come abbiamo visto, per prendere le distanze dall’idealismo di Fichte stesso.

Kant pensa che ci sia un dato, la cosa in sé, che dobbiamo riconoscere, anche se non lo possiamo conoscere. Essa segnala il nostro limite.

Fichte non riconosce questo limite. Vuole una filosofia capace di andare oltre. E pensa che questo si possa fare, così come si può andare oltre l’identità ipotetica di A, affrontando il problema del pensiero della sua l’esistenza.

Perché si pensi l’esistenza di A, si deve, infatti, pensarla posta in essere da un soggetto. Quindi, dice Fichte, il principio d’identità rinvia all’Io che pone e riconosce A e, quindi, afferma l’identità di A con A.

Secondo Fichte, con questa riflessione, stiamo approdando all’intuizione intellettuale, che Kant ritiene non possibile per l’uomo, del primo principio assoluto, dell’Io in atto.

Ma, che cos’è questo Io, che Fichte scrive con la maiuscola?

Non è, almeno in questa prima fase del pensiero fichtiano, Dio. Non è un ente superiore agli uomini. Non è neppure l’individuo umano considerato nei suoi limiti. È un principio razionale attivo e infinito, presente in tutti gli individui (un po’ come la creatività artistica infinita si esprime nell’attività artistica di ogni artista, in misura più o meno grande, ma mai tale da essere tutta l’attività artistica infinita; un altro esempio potrebbe essere la vita: essa è presente, come vita infinita, nei limiti di ogni essere vivente, nessuno dei quali, per vitale che sia, può però essere considerato la vita stessa). Come in ogni artista agisce l’arte infinita, così in ogni soggetto in attività agisce la soggettività infinita, l’Io, che non è una sostanza data, definita, ma attività soggettiva che, in quanto tale, si pone come soggetto.

L’Io quindi non è un dato, non è posto da altro. È solo soggetto.

L’attività dell’Io non è la funzione di una sostanza che si chiama Io, al pari del camminare che è una funzione delle gambe, ma è l’attività dell’Io che fa l’Io.

All’intuizione intellettuale, così come la propone Fichte, l’Io si svela non come una sostanza che agisce, bensì come un agire.

L’Io pone se stesso. Cioè, Io esisto in quanto mi penso e agisco come Io.

Ciò il cui essere (essenza) consiste unicamente nel fatto che pone sé come ciò che è è l’Io in quanto soggetto assoluto. In quanto si pone, è; e in quanto è, si pone”.4

Pensato così l’Io, però, non si spiega affatto la comune e banale esperienza del mondo esterno, di quella realtà che ciascuno di noi si trova davanti in tutta la sua positività: le cose, infatti, s’impongono alla nostra coscienza empirica e questo sembra non aver nulla a che fare con quella pura soggettività dell’Io che pone se stesso. Quando inciampo in un ostacolo, la mia soggettività è coscienza puramente passiva, io subisco la presenza della cosa, non affermo affatto liberamente la mia soggettività. Divento oggetto dell’imporsi a me della cosa. Anche quando ammiro un paesaggio che mi piace molto, è il paesaggio che s’impone alla mia attenzione ammirata: la mia soggettività vedente non spiega affatto né la realtà del paesaggio né la mia passività davanti ad essa. È questo tipo di esperienza conoscitiva che alimenta il realismo tanto diffuso e che ha spinto Kant ad ammettere l’esistenza della cosa in sé: sono le cose che condizionano la mia soggettività conoscente e non è la mia soggettività a determinare le cose.

Fichte riconosce questa dipendenza del soggetto dalle cose, ma solo per la soggettività teoretica. Riconosce cioè, come comunemente si pensa, che le cose esistono indipendentemente dal mio pensarle e che le penso perché esistono. Se, poi, voglio spiegare la loro esistenza, la cultura biblica e cristiana indica nella creazione divina la loro origine e ragion d’essere. Mi dice, cioè, che le cose esistono perché una soggettività infinita, alla quale la mia soggettività limitata assomiglia, le ha poste in essere. Fichte non si accontenta di questa spiegazione: per lui anche nell’uomo c’è, come dimostra la presenza dell’imperativo categorico, l’assoluto, non solo in Dio. E dal suo cilindro filosofico dell’Io trae un secondo principio, sempre interno all’Io che, secondo lui, spiega questa dipendenza.

L’Io non è solo attività conoscitiva, come prova l’esperienza morale.

Secondo Fichte, dall’intuizione originaria di sé come pura attività scaturisce un secondo principio: l’Io, nel porre se stesso, pone il Non-Io.

Poiché questo Non-Io è tutto ciò che non è Io, che gli è esterno e gli si oppone, Fichte ha trovato nella soggettività la radice di ogni oggettività.

Se per il realismo è l’oggettività delle cose a spiegare la soggettività conoscitiva dell’io, per l’idealismo di Fichte è, invece, l’attività soggettiva dell’Io a spiegare l’oggettività delle cose e la loro azione sull’io. L’idealismo di Fichte non nega il realismo dell’uomo comune, ma lo spiega: è reale l’azione delle cose sull’io; essa promuove la loro conoscenza empirica: le cose che vedo, le vedo perché ci sono e la loro esistenza s’impone ai miei occhi; ma, la riflessione sulla mia esperienza morale mi consente di non fermarmi a questa certezza, né alla spiegazione religiosa biblica e cristiana.

Chi vede un ostacolo, sa che esso si presenta alla sua coscienza conoscitiva perché c’è (realismo evidente e alla portata di tutti), ma chi lo supera, magari con grande sforzo (come avviene quando si cerca di realizzare l’imperativo categorico, vincendo la forza delle passioni, degli interessi, della tradizione, ecc.), trae dall’esperienza di quel superamento la spinta a considerare diversamente quell’ostacolo: esso può apparire messo lì per promuovere lo sforzo del soggetto a superarlo. Fichte va oltre e vede l’ostacolo come Non-Io, come una cosa diversa dall’Io, che l’Io si è posta in opposizione alla sua soggettività per stimolarla. Fichte pensa che la cosa-oggetto-ostacolo sia posta in essere dall’Io, altrimenti la sua estraneità all’Io sarebbe radicale, definitiva, e l’Io non riuscirebbe mai a superarla. Essa avrebbe la stessa funzione che le colonne d’Ercole avevano per un greco della classicità. Sarebbe un limite insuperabile e l’Io non sarebbe libero.

Forse, quando un alpinista come Messner scala certe vette, può immaginare che l’energia, che gli permette di compiere quelle imprese quasi impossibili, sia la stessa che ha creato quelle montagne proprio per poterle scalare. Fichte, che, partito dalla guardia alle oche in un misero villaggio, è diventato con grandi sacrifici uno degli uomini più importanti della cultura europea del suo tempo, si è convinto di qualcosa di simile e cerca di dimostrarlo con un percorso razionale il più rigoroso possibile. Vuole assolutamente dimostrare che l’oggetto, per quanto imponga la sua oggettività al soggetto, è, in realtà, fatto dal soggetto stesso per promuoverne la soggettività stessa. Vuole dimostrare che l’Io è assolutamente libero e può, quindi, superare ogni ostacolo, perché questo è, in ultima analisi, un suo prodotto: l’Io che c’è in Messner, come in ogni uomo, può scalare ogni vetta, perché quelle vette se l’è poste l’Io stesso, e se l’è poste per superarle, dopo averle studiate bene nella loro oggettività.

C’è in questo pensiero il massimo di antropocentrismo e di antropomorfismo: l’uomo è il centro, la ragion d’essere di tutta la realtà. Non è affatto, come pensa, ad esempio, Leopardi, una minuscola e insignificante cosa in un mondo infinito che gli è in gran parte estraneo e anche ostile. È la ragion d’essere di tutte le cose, proprio come ha creduto di essere per tanto tempo dell’era cristiana, fino a quando Colombo, Copernico e Galileo non hanno messo in crisi questa rassicurante certezza e aperto l’età moderna. Fichte, da questo punto di vista, è la risposta oltremodo rassicurante a questa crisi: l’uomo non è gettato in un mondo estraneo; in lui agisce la libertà divina che è all’origine del mondo; il mondo è fatto dalla sua soggettività più profonda e per lui. Tutto ciò che è è Io o Non-Io, dove il “non” non significa alterità, estraneità, l’essere assolutamente un’altra cosa, ma l’essere ciò che si oppone all’Io per esserne superato. Il mondo, si potrebbe dire, è la grande palestra dell’attività morale, libera, dell’uomo. Tutto ciò che è, anche ciò che sembra più estraneo all’uomo, è Non-Io, cosa posta in essere per promuovere l’attività dell’Io, ostacolo creato dall’Io per promuovere la sua attività libera; proprio come sarebbe il mondo di un atleta che si costruisse, di notte, in sogno e inconsapevolmente, la palestra e gli attrezzi per il suo allenamento e per le sue prestazioni sportive diurne.

La produzione del Non-Io non è, infatti, un’attività consapevole. Non è la realizzazione di un progetto qual è, ad esempio, la creazione divina del mondo di cui parla la Bibbia. Se così fosse, l’io non ne avvertirebbe l’estraneità, come invece avviene. Fichte, infatti, dice che la posizione del Non-Io è attività inconsapevole, dovuta all’immaginazione produttiva, una facoltà di cui aveva parlato Kant, a proposito della sua teoria dello schematismo trascendentale. Una facoltà che Kant definisce “misteriosa”, intermedia tra l’intelletto e l’immaginazione.5 In Fichte l’immaginazione produttiva resta un’attività oscura e inconsapevole, ma creatrice del mondo.

La natura inconscia dell’immaginazione produttiva, cioè la nascita dall’inconscio del mondo, delle cose, può allora spiegare sia la coscienza empirica che il fatto che l’attività morale sia sempre sforzo.

Infatti, nella coscienza empirica, l’Io si trova di fronte delle cose che non riconosce immediatamente come suoi prodotti, come, invece avviene nella creazione biblica, dove Dio riconosce e valuta “buono” ciò che crea e, infine, si riposa. L’Io di Fichte, invece, non si riposa, non arresta la sua attività infinita, e, per alimentarla, ha bisogno dell’inconscio che gli presenta come altro ciò che è un suo prodotto, spingendolo a superarlo nell’azione morale.

Fichte riscrive radicalmente la metafisica occidentale cristiana.

Il mondo diventa sempre più umano, sempre più frutto della cultura, grazie alla natura morale dell’uomo che lo aiuta a portare a coscienza ciò che nasce dalla sua attività inconscia. La cultura viene così a occupare, nel sistema di Fichte, il ruolo primario, il posto fino allora occupato dalla religione; e il dotto, il filosofo, viene investito della missione di promuovere cultura e guidare l’umanità alla realizzazione di un mondo sempre più umano.

Fichte non solo insiste su questa importante missione del dotto, ma si vive, soprattutto durante l’occupazione napoleonica della Germania e dell’Europa, come guida filosofico-profetica del suo popolo, convinto della vocazione tedesca a essere guida dell’intera umanità.

Filosofo-profeta di un popolo-guida, egemone.

Torino 15 dicembre 2015

Note

1 Fichte, Scritti sulla dottrina della scienza, a cura di Mauro Sacchetto, UTET 1999, p. 151.

2 Ib. p. 151.

3 Ib. p. 152.

4 Ib. p. 156.

5 Ne parlo nel Quaderno n° 10, Viaggio nella filosofia, Rousseau e Kant, Università Popolare Editore 2015, p. 123.

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

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Aggiornamento: 09-02-2016