Le “giustizie” dal XVII al XIX secolo
Nel frattempo i papi continuavano ad eseguire sentenze capitali che dalla fine del Seicento vengono dettagliate, come si è detto, nel diario del Ghezzi. Esso ci permette di notare che pur prevalendo le condanne per reati comuni non mancano quelle per reati politici, come l'impiccagione già ricordata del giornalista Bernardino Scatolari ad opera di Innocenzo XI (1685), o per offese alla religione (come il furto di due pissidi...).
Complessivamente, nei 65 anni (1674-1739) annotati dal Ghezzi vi furono a Roma 210 “giustizie” (poco più di 3 all’anno), di cui circa il 40% per reati che non arrivavano all'omicidio (falsificazione di denaro, furti, rapine, reati politici o religiosi) e furono una trentina gli squartati. Nei 68 anni in cui fu carnefice Mastro Titta, invece, ossia fra il 1796 e il 1864, le “giustizie” furono 514, un record ineguagliato, cui vanno aggiunte le 13 del suo successore Balducci dal 1864 al 1870. Si tratta però di esecuzioni effettuate non solo a Roma ma in tutto lo stato pontificio e da cui vanno tolte quelle eseguite nei 4 anni in cui lo stato pontificio fu annesso alla Francia napoleonica (1810-1813), la quale, con 56 esecuzioni (13 l’anno!), diede una ben trista immagine di sé. Da notare che circa il 22% dei giustiziati dallo stato pontificio non erano omicidi o, in una decina di casi, avevano commesso reati politici.
Quanto al tipo di supplizi sono notevoli le informazioni tratte dagli 8 volumi dei Voyages (1730) di padre Labat e riprodotte in francese dall’Ademollo (193). Labat testimonia che ancora ai primi del Settecento erano in uso nello stato pontificio soprattutto due tipi di tortura, entrambi molto dolorosi, della veglia e della corda, mentre le pene continuavano a essere quelle che si è detto sopra: decapitazione (da un certo punto in avanti con la mannaia), per nobili ed ecclesiastici; per i non nobili invece forca e mazzolatura semplice o con squarto. Quest’ultima, precisa ancora Ademollo, fu soppressa durante il pontificato di Benedetto XIII (1724-30) ma ripristinata dal suo successore Clemente XII.
Invariate restavano anche le opinioni della Chiesa in materia di pena di morte, come si vede da ciò che insegnava il maggiore teologo del Settecento Alfonso Maria de’ Liguori, nel 1767: “solamente per tre cause è lecito uccidere un altro uomo: per l'autorità pubblica, per la propria difesa, e per la guerra giusta. Per l'autorità pubblica è ben lecito, anzi è obbligo de' principi e de' giudici di condannare i rei alla morte che si meritano, ed è obbligo de' carnefici di eseguire la condanna. Dio stesso vuole che siano puniti i malfattori” (194).
Merita di essere sottolineato come queste parole fossero pronunciate tre anni dopo che era uscito in Europa il celebre saggio di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, che rifiutava la tortura e la pena di morte, e fu messo all'indice dalla Chiesa. Così come va notato che la pena di morte e la tortura erano in vigore nello stato pontificio mentre Federico il Grande vietava la tortura in Prussia e tortura e pena di morte furono vietate, benché per poco tempo, in Toscana.
Nello stato della Chiesa si dovette anzi aspettare l'arrivo della rivoluzione francese perché fosse introdotto un unico sistema di esecuzione, la ghigliottina, per nobili e plebei. Ma col ritorno del papa tornarono la forca (usata l’ultima volta nel 1829) e la mazzolatura semplice (ultima volta nel 1816) o con squarto (ultima volta nel 1826). Poi si impose per tutti la ghigliottina, in qualche caso la fucilazione. Mastro Titta, dunque, ebbe modo di cimentarsi con “ogni genere di supplizio” e in tutti, “mazzola, squarto, forca, ghigliottina, mostrò sempre eguale abilità” (195). Merito non da poco, se si pensa che in quei secoli furono numerosi i casi in cui il giustiziato tribolava perfino a morire per l’inesperienza dei carnefici, spesso improvvisati.
L’ultima “giustizia” fu eseguita il 9 luglio 1870. Due mesi dopo il potere temporale cessava di esistere. Nel frattempo, naturalmente, almeno fino a quasi tutto il Settecento, erano continuate in parallelo anche le altre morti, ancora più lente e dolorose, come rileva Ademollo, degli eretici arsi a fuoco lento o murati vivi e uccisi a poco a poco come due donne di cui racconta Rucellai nello Zibaldone quaresimale, murate in due pilastri di una chiesa, “solo con una buca dove si porge loro il mangiare” (196).
Naturalmente va sottolineato, come dimostra l'esempio dei quattro anni di governo napoleonico a Roma, che lo stato della Chiesa non era il più feroce in Europa o quello dove il ricorso alla pena di morte fosse il più frequente. Ma era lo stato che, in quanto “della Chiesa”, dava un esempio a tutti i paesi cattolici del continente, cui forniva anche una giustificazione dottrinale, proprio mentre i pensatori non cattolici più avanzati contestavano tortura e omicidio di stato.
193) A.
Ademollo, Le annotazioni etc., cit., pp. 20-36
194) A. M.
de’ Liguori, Istruzione al popolo. Del quinto precetto. Del sesto precetto,
www.intratext.com/bai/
195) A.
Ademollo, Le annotazioni etc., cit., p. 37
196) ibid.,
p. 18