L'ARTE BIZANTINA E RUSSA

PER UN'ALTERNATIVA UMANISTICA


INTRODUZIONE

(Contro le tesi di Cyril Mango)

I - II - III

Giovanni Battista

Dal 650 circa all’850 circa la storia dell’arte bizantina ha dovuto fronteggiare un periodo molto difficile, in cui la sua stessa sopravvivenza è stata in forse.

Non si trattò semplicemente di influenze ebraico-islamiche nei luoghi del potere istituzionale, ma del tentativo, da parte del potere imperiale, di porre sotto controllo le dinamiche sociali, all’interno delle quali la chiesa ortodossa giocava un ruolo di primo piano. Fu in sostanza un tentativo di “cesaropapismo”. Invece che puntare su riforma sociali in senso democratico, per riconquistare il consenso perduto, il potere politico giocò l'arma della svolta autoritaria nei confronti del popolo, preceduta da patteggiamenti segreti con le forze rivali che ne minavano l'autorità.

Un tentativo che partiva indubbiamente da esigenze ateistiche legittime, volte a debellare la superstizione popolare e lo sfruttamento clericale della credulità. Un tentativo tuttavia sbagliato sul piano sia politico che culturale. Politico perché si volle imporre a colpi di decreti imperiali, rinunciando ai legittimi dibattiti pubblici, un principio laico-umanistico, senza tener conto della realtà concreta. Culturale perché non si seppe di fatto laicizzare adeguatamente l’argomento che la chiesa usava a favore della simbolizzazione dei contenuti religiosi.

L’iconoclastia in sostanza non capì che la superstizione non si può rimuovere con la forza, né che l’ideologia cristiana possa essere sconfitta con una variante di questa medesima religione.

La conclusione conciliare della vicenda fu altamente teologica (grazie ai contributi di Giovanni Damasceno, Teodoro Studita e di Niceforo di Costantinopoli), a testimonianza che l’iconografia non era affatto, come molti critici han detto, una “teologia per i poveri e gli analfabeti”, ma una teologia di alto livello, cui non si sarebbe rinunciato senza rinunciare, nel contempo, all’ideologia religiosa in quanto tale.

Al secondo concilio di Nicea (787), in meno di un mese si trovò la formula canonica per stabilire quanto fino a quel momento si era sempre creduto, e cioè che “l’immagine era diversa dal suo archetipo per quanto riguardava l’”essenza” o la “sostanza” (ousia), ma era identica quale “persona” (hypostasis)”(Mango, op.cit., p. 303).

Il testo dice letteralmente:

“In poche parole, noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che orali. Una di queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini, che giova senz'altro a confermare la vera e non fantastica incarnazione del Verbo di Dio, e ha una simile utilità per noi, infatti le cose che hanno fra loro un rapporto di somiglianza, hanno anche senza dubbio un rapporto scambievole di significato”.
“Infatti, quanto più continuamente essi [Cristo, Maria, i santi, gli angeli, gli uomini pii] vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di latria, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l'offerta di incenso e di lumi, com'era uso presso gli antichi. L'onore reso all'immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta; e chi adora l'immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto”.

Dunque niente feticismo, niente idolatria, ma semplice devozione: l’oggetto non è magico ma evocativo, il suo senso non sta in sé ma in ciò che viene rappresentato.

Certo è che a un ateo di oggi può far sorridere che per i teologi bizantini fosse “paganesimo” pregare davanti a una statua e “cristianesimo” baciare un’icona. La differenza tra le due forme di superstizione è sottile come un capello e non varrà a renderla più consistente la motivazione secondo cui i cristiani venerano persone realmente esistite.

E’ fuor di dubbio tuttavia che la sottile distinzione, basata, se vogliamo, sul “buon senso”, tra “adorare” e “venerare”, se laicizzata nei termini, può risultare utile ancora oggi, specie quando si vogliono evitare forme di partecipazione politica estremamente ideologizzata o forme di psicopatologia individuale o di massa.

L’icona era considerata una specie di ritratto riflesso in uno specchio d'acqua, in cui l’identità del soggetto è riconoscibile soltanto dallo spirito che l’anima. Quindi le fattezze fisiche, esteriori non andavano considerate come perfettamente identiche a quelle reali, anche perché questa pretesa uguaglianza era non solo tecnicamente ma anche umanamente impossibile.

Per i bizantini l’essenza completa delle cose sfugge sempre e nessuno è in grado di riprodurla adeguatamente: ci si può avvicinare solo per approssimazione. Ecco perché quest’arte non è mai stata interessata a produrre una “reale ritrattistica”(cit., p. 303). Non perché ne fosse incapace (Bisanzio si pone anzitutto come “erede” della classicità greco-romana e orientale), ma semplicemente perché riteneva l’inadeguatezza rappresentativa un valore fondamentale per garantire l’assoluta alterità dell’identità umana (e, per inciso, “umana”, non solo “divina”). L'inadeguatezza rappresentativa non era considerata soltanto un limite strutturale all’esserci, ma una forma di garanzia per tutelare l'irriducibile diversità.

Ecco perché il pittore bizantino doveva tener conto delle “fattezze universalmente riconosciute di questo o di quel santo”(ib.). Se l’essenza dell’identità umana non può essere totalmente rappresentata, meno ancora può esserlo dalla propria abilità o dal proprio genio individuale. L’artista doveva attenersi scrupolosamente a una tradizione condivisa, doveva fare costante riferimento a un sentire comune. L'iconografo non era esattamente un uomo come gli altri, ma, nel mentre dipingeva, svolgeva un’azione dall’alto contenuto sociale, civile, culturale e persino politico.

Scrive Cyril Mango: “non troviamo nella decorazione ecclesiastica bizantina alcuna allegoria di vizi e di virtù né segni zodiacali né le fatiche dei mesi o le arti liberali o le scene dei commerci e dei mestieri. Ciò che i bizantini chiamavano ‘conoscenza esteriore’ rimane fuori. Persino l’Antico Testamento resta escluso, se non per le figure dei profeti la cui funzione è annunciare l’Incarnazione”(cit., p. 306).

Per l’iconografo il concetto di “essenza” o di “sostanza” era così importante che, nella raffigurazione delle fattezze umane, egli si guardava bene dal distrarre l’attenzione dell'osservatore aggiungendo elementi di paesaggio o di architettura (che generalmente venivano sostituiti da uno sfondo uniforme e dorato). Questo perché il soggetto rappresentato doveva essere percepito come una persona posta di fronte a un'altra persona. Ecco perché risultano del tutto irrilevanti, anzi fuorvianti, rispetto all’esigenza di rappresentare “l’essenzialità”, l’uso della prospettiva, del chiaroscuro, della tridimensionalità…

L’iconografo era un artista emotivo e misurato, idealista e scrupoloso, fanciullo nel sogno e concentrato sul lavoro, pronto a carpire l'illuminazione ma lento nel rielaborarla, proprio perché sapeva di dover sempre bilanciare gli aspetti soggettivi e oggettivi della sua attività.

Quando si dice che “la dimensione delle figure nella composizione dipende più dalla loro importanza gerarchica che dalla loro posizione nello spazio”(cit., p. 307), si deve sapere che questa era una scelta consapevole, motivata da una precisa teologia, organica al fare arte, non era un limite strutturale oltre il quale quell’iconografia non sarebbe mai potuta andare.

La prospettiva anzi andava, ontologicamente, “rovesciata”: il “minore” sul piano spirituale è sempre più “piccolo”, anche se sta in primo piano. “Le distanze non vengono più indicate da gradazioni cromatiche, né la fonte di illuminazione è uniforme. Le figure non hanno ombra”(cit., p. 308). L’iconografia bizantina infatti vuole essere per definizione “anti-illusionistica”, priva di coerenza geometrica e razionale. Tant'è che - e lo dice lo stesso Mango - “tutte le figure bibliche mantengono il loro abito antico, con la tunica e la chlamys: non si usavano vesti bizantine contemporanee”(cit., p. 308).

Non è forse stupefacente questo alto senso della storicità abbinato a un'assoluta mancanza di naturalismo delle forme (almeno così come lo intendiamo oggi)? Come si può definire un'arte in cui gli aspetti “naturali” sono in realtà “simbolici” e quelli “simbolici” presumono d’essere “reali”? Qui non solo non si è in presenza di un realismo naturalistico ma neppure di un simbolismo banale, manierato, convenzionale; più che simbolica sembra un’arte stilizzata ma capace di suscitare empatia.

E’ il concetto di “realtà” che è diverso. Per la cultura occidentale è “reale” ciò che è “razionale” e viceversa: le cose, per esistere, devono essere misurabili, categorizzabili, percepibili coi sensi esteriori, riproducibili il più fedelmente possibile, sperimentabili in qualche laboratorio…, salvo poi vivere la vita nelle più svariate forme irrazionali dettate dalla logica del profitto.

Per i bizantini invece il “reale” è l’idea oggettiva (per loro teologica) che viene interiorizzata, è l’esperienza socio-personale del valore umano positivo, concepito in chiave religiosa. Il reale è la fusione dell’umano col divino: la divinizzazione dell'umano (théosis).

Il reale non ha bisogno di essere tridimensionale per essere meglio percepito. Infatti la spiritualità, per manifestarsi, può farlo semplicemente in maniera bidimensionale. La cultura bizantina non è mai caduta nell’illusione di credere che la profondità spirituale potesse essere aiutata dalla tridimensionalità spaziale. La profondità dei sentimenti va ricavata dal pathos interiore non dalle linee geometriche, dall’intensità dello sguardo non dal rapporto tra le masse e i volumi, dalla postura maestosa, serena e insieme severa, impassibile dei soggetti, non dalle loro espressioni dolorifiche, esagitate, violente.

Si dovrebbe guardare con grande rispetto un’arte che separava nettamente ciò che riteneva essenziale dall’accessorio. Non è forse vero che la stragrande maggioranza dell’arte moderna e contemporanea occidentale non ha fatto altro che usare l’accessorio per qualificare l’essenziale? E perché guardare con sospetto l’arte bizantina quando a partire da Picasso s’è imposta in occidente un’arte del tutto indipendente dalle esigenze della prospettiva, del chiaroscuro, dell’armonia delle parti…, un’arte che, a differenza di quella bizantina, s’è andata imponendo facendo completamente a pezzi il figurativo?

E’ difficile pensare che nei confronti di un’arte così esigente siano possibili soluzioni di compromesso: o la si accetta com’è o la si nega. Ecco perché Giotto rifiutò le soluzioni di compromesso del suo maestro Cimabue; solo che invece di creare una vera alternativa umanistica, ne creò una borghese, a un livello spirituale molto più basso.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia Medievale - Sezione Arte
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Aggiornamento: 11/09/2017