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INTRODUZIONE(Contro le tesi di Cyril Mango) Scrive Cyril Mango, nell’opera già citata: arte bizantina significa “predominio dell’ornamento, graduale perdita della tridimensionalità, frontalità delle figure umane, negligenza per i rapporti di scala”(p. 295). Ora, perché considerare questi aspetti come una sorta di “provincializzazione dell’arte greco-romana”(ib.)? Perché lasciarsi così tanto condizionare, nella valutazione di un’opera d’arte, dai soli aspetti stilistici e formali? Da quando in qua le raffinatezze, l’accuratezza, la precisione nell’esecuzione di un’opera artistica sono elementi sicuri dell’indice di “civiltà” di una data formazione storico-sociale? E chi ci dice che per esprimere sentimenti umani occorra necessariamente una perfezione delle forme? Com'è possibile non avere una grande padronanza del mestiere quando si vogliono esprimere emozioni forti con pochi e semplici mezzi "artigianali"? Forse che col concetto di “civiltà” noi dobbiamo considerare esclusivamente la realizzazione di opere ingegneristiche, lo sviluppo delle grandi città, dei commerci, della tecnologia produttiva, delle reti stradali, e quindi la produzione di un’espressione artistica corrispondente a questi livelli di progresso, e non anche e soprattutto la qualità dei rapporti umani, l’applicazione della giustizia sociale, il rispetto della natura, la coerenza tra principi teorici e forme di esistenza pratica? Per caso, non è che quando giudichiamo il passato, specie quello classico del mondo greco-romano, andiamo a cercare delle conferme al nostro presente, suggestionati come siamo dalle nostre conquiste tecnico-scientifiche? Qual è il criterio che può aiutarci a capire quando una civiltà è davvero “civile” e quando lo è solo di nome? Perché dobbiamo essere così ingenui da permettere che una valutazione delle forme possa influenzare pesantemente la valutazione della sostanza? L’arte bizantina non è nata perché non si sapeva più fare arte nella maniera tradizionale, ma perché quel modo di fare arte cominciò, sin dal I secolo, ad essere considerato non rispondente alle esigenze umane di verità, di liberazione, di giustizia. Tanto che oggi i critici ritengono che “arte proto-bizantina” e “arte paleo-cristiana” siano in sostanza la stessa cosa. L’avvenimento di Gesù Cristo, per quanto tradito sia stato sin dagli inizi della comunità apostolica, lasciò comunque un segno indelebile nella tradizionale percezione (ebraica e pagana) della realtà. E’ impossibile interpretare un’arte profondamente religiosa senza tener conto di questo. Come oggi sarebbe quanto meno limitato parlare di “umanesimo laico” senza parlare nel contempo di “socialismo democratico”. Ad un certo punto un determinato modo di fare arte venne considerato del “passato” e quindi destinato ad essere sostituito da qualcosa di nuovo, di profondamente diverso. Nella consapevolezza degli iconografi la loro arte voleva essere un “di più” dell’arte greca classica, che tutto il mondo guardava con occhi spalancati. In tal senso l’arte bizantina non va considerata come una forma di ripiego dovuta a inesperienza o a una scarsità di mezzi o di formazione professionale, ma va piuttosto considerata come la ricerca consapevole di un’alternativa convincente e praticabile. Il compito era arduo e di difficile soluzione, in quanto si doveva superare un modello esteticamente perfetto anche se eticamente falso, in quanto non rispondente alla realtà. Si doveva accuratamente evitare una rappresentazione mitologica della realtà, sostituendola con una simbolica ed evocativa, che facesse ricordare qualcosa di comune (anamnesi) e riflettere su di sé (ascesi). Una transizione del genere, in campo artistico, non poteva essere garantita da una mera padronanza tecnica dei ferri del mestiere. Occorreva una trasformazione dello stile di vita. Un processo quindi lungo e faticoso, in cui la protagonista assoluta sarebbe stata non tanto l’abilità dell’artista, ma l'eticità della sua vita quotidiana, sicuramente molto più prosaica di qualche eroe greco. L’eroe non poteva più essere un elemento irraggiungibile della realtà, da guardare meravigliati, ma doveva essere l’uomo comune diventato santo, asceta, teologo o un militare distintosi nel difendere la cristianità… E anche quando si rappresentavano i grandi personaggi della tradizione ebraico-cristiana o i potenti della terra, il credente doveva essere messo in grado di osservarli con rispetto e fiducia, sapendo che appartenevano alla sua stessa esperienza religiosa, seppur su piani diversi. La mitologia greco-romana era stata per molti secoli una falsificazione della realtà trasmessa con grande perizia e dovizia di mezzi: era stata il trionfo dell’effimero, dell’illusione sapientemente usata dai poteri dominanti. Non sarebbe stato possibile superarla senza dimostrare che l’autenticità era un’altra cosa. Oggi viviamo in un’epoca in cui il fallimento del cristianesimo è sotto gli occhi di tutti e non ci sarà modo di tornare a questa utopia; tuttavia, quando l’arte bizantina nacque, esso costituiva una speranza di riscatto agli occhi della stragrande maggioranza della popolazione dell’impero. Non si può non tener conto di questo. Va detto peraltro che fino a Giustiniano l’arte bizantina non riuscì a liberarsi completamente dei condizionamenti dell’arte precedente, che era servile nei confronti delle esigenze del potere politico. E’ solo sotto Giustiniano che si ha una svolta: l’arte non è più soltanto di corte, ma comincia a diventare di popolo. All’inizio la differenza la si nota più nell’architettura che nella pittura, anche perché questa non è altro che musiva e comunque di figurativo ha assai poco. Lo stile bizantino emerge nel VI secolo, quando il mosaico, ch’era stato usato in alternativa alla scultura, comincia ad essere sostituito dalle icone. Scrive Mango: “Ai loro occhi un’icona era un ritratto reale che era in tutto e per tutto il portatore dell’aspetto fisico del santo personaggio ivi rappresentato”(cit., p. 299). Mango considera i bizantini dei “primitivi”, in quanto – a suo parere – non riuscivano a distinguere la maniera “iconica” da quella “naturalistica”. Curioso dire questo di un’arte che è anti-naturalistica per vocazione e che vuol vedere la natura, inclusa quella umana, soltanto nella sua rappresentazione “iconica”, cioè simbolica. Mango non riesce assolutamente a comprendere (e di questo suo limite verrebbe criticato anche da tutta l’arte contemporanea a partire dal Futurismo) che l’identità umana può essere meglio rappresentata solo se si è in grado di coglierne l’interiorità. Se la riproduzione fedele della realtà fosse la maniera più indicata per percepire l’essenza delle cose, ivi inclusa la specificità umana, noi dovremmo considerare la fotografia superiore a qualunque pittura, ovvero la pittura che si avvicina di più alla fotografia come la migliore possibile (ammesso e non concesso che la stessa fotografia sia una riproduzione fedele della realtà o che possa esistere qualcosa in grado di riprodurre esattamente la realtà). Se vogliamo, non solo nell’iconografia bizantina il naturalismo viene totalmente assorbito dal simbolismo concreto, ma in questo simbolismo fortemente evocativo viene riprodotto soltanto il meglio della natura umana, avendo l’arte uno scopo eminentemente pedagogico, quello dell’edificazione spirituale. “Il canone 82 del concilio Quinisesto (692), biasimando l’antica consuetudine di rappresentare Cristo quale agnello e raccomandando di dipingerlo invece in forma umana, oppone il simbolo (typos) all’immagine. Il simbolo, sostiene, era adeguato all’Antica Legge, quando la verità poteva mostrarsi solo per tenui segni e ombre; la Nuova Legge invece non ha bisogno di simboli, la verità e la grazia c’erano perché tutti le vedessero nella forma umana di Cristo“, così scrive Mango (ib.). Stessa cosa si dirà nel Synodicon dell’ortodossia (843). L’arte religiosa bizantina non era dunque propriamente simbolica, ma, al contrario, “cercava di essere esplicita, letterale, realistica persino”(ib.). In realtà le disposizioni sinodali invitavano gli artisti a non essere “timidi”, a non temere di rappresentare il “divino incarnato” per timore di offenderlo. Era un invito esplicito a cercare il “divino” nell’”umano” e non solo nei simboli religiosi. Ma sarebbe sciocco pensare che con questo suggerimento la chiesa intendesse dire che il realismo andava cercato nelle “forme artistiche”. In nessun momento di tutta la sua storia l’arte bizantina ha mai pensato che le forme, in sé, potessero offrire maggiore realismo di quanto lo potesse fare una rappresentazione simbolica dell’interiorità umana. Il realismo dell’arte iconografica cristiana era semplicemente rivolto a quell’essenza di umanità presente nella persona di fede. Se non si chiarisce questo, si finisce col far passare i bizantini per degli artisti stravaganti, almeno rispetto ai canoni della pittura occidentale moderna. Chi mai vorrebbe sostenere che l’interiorità possa essere rappresentata in maniera “fotografica”? Noi ci commuoviamo davanti a un’intensa recitazione teatrale o cinematografica, ma lo faremmo lo stesso se in quel momento ci venisse in mente che gli attori sono pagati per fingere? Gli artisti bizantini sapevano benissimo che l’interiorità poteva essere colta solo in maniera simbolica: il suo vero realismo non stava affatto nella perfetta riproduzione delle fattezze esteriori, quanto piuttosto nella capacità di imprimere agli sguardi le profondità dei sentimenti, che per la cultura bizantina non potevano certo prescindere dalla concezione religiosa della vita. Un critico d’arte non ha bisogno di vivere un’esperienza religiosa per comprendere la specificità di quest’arte straordinaria, anche perché sarebbe assurdo sostenere che la sensibilità umana possa essere adeguatamente rappresentata solo in chiave religiosa. Se l’iconografia bizantina non avesse avuto una straordinaria carica emotiva, ovvero l’ambizione a rappresentare simbolicamente l’essenza della sensibilità umana, rinunciando a fare dell’arte un mero strumento di esaltazione dei poteri forti, difficilmente riusciremmo a spiegarci i motivi per cui questi poteri, dell’oriente e dell’occidente, abbiano a più riprese tentato di eliminarla. In Itali (soprattutto nel Mezzogiorno) vi è stata molta più "iconoclastia" quando, dopo la rottura scismatica del 1054 e con l'arrivo dei Normanni, la chiesa romana impose una sostituzione d'ufficio del culto greco con quello latino. Forse qui non è neppure il caso di ricordare che un secolo dopo la distruzione italiana dell'iconografia bizantina, con la svolta di Giotto, in Russia Rublev produceva i suoi grandissimi capolavori. L’iconoclasmo, in tal senso, non è stato semplicemente il tentativo di dimostrare che il divino doveva restare irrapresentabile (cosa peraltro che l’arte bizantina non ha mai messo in discussione, in quanto una qualunque immagine di dio era vietata), ma anche il tentativo di sostenere che la volontà del divino poteva essere interpretata adeguatamente solo dai poteri forti. L’iconoclasmo, se vogliamo, non si è presentato soltanto come una forma di intellettualismo ateistico (analogo, in un certo senso, al realismo giottesco), ma anche come una forma di dittatura contro la libertà di coscienza e di religione (analoga alla svolta teocratica di papa Gregorio VII). Con l’iconoclasmo i poteri forti volevano togliere al popolo il diritto di darsi una propria rappresentazione della divinoumanità, volevano togliere al popolo il diritto di usare la fede religiosa come forma di critica dell’autoritarismo. Non era un ateismo democratico, ma un ateismo intollerante, e quindi intellettualistico, astratto, ideologico, incapace di tener conto delle dinamiche sociali. |