Quelle
strane coincidenze
tra Eloisa e Andrea Cappellano
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Alla prima categoria
appartengono espressioni come «immoderato amore», usata nelle Lettere
e che richiama la celebre definizione del De amore: «Amor est
passio [...] procedens [...] ex
immoderata cogitatione ». L'idea che l'amore sia una passio capace di
sconvolgere la mente e rende quasi folli si trova nell'Historia
calamitatum (la lunga epistola del filosofo che costituisce una vera e
propria autobiografia), che definisce l'amore di Abelardo una passio, una
vera e propria infermità dell'animo: «Animi [ ... ] perturbationem». Un
"turbamento" che ricorda quanto afferma Andrea: «Ex amore [...]
turbantur humores, et inde [...] aegritudinis infinitae nascuntur»
(l'amore sconvolge gli umori e ne nascono innumerevoli infermità). Per
questo l'uomo diviene, come dice Andrea, «amens et furiosus», schiavo di
Venere, «miser et insanus». Con lo stesso spirito Eloisa
definisce il suo amore insania. Essa è infatti totalmente in preda
alle sue ansie («animi mel cogitationes»), soffre cioè di quella
«nimia diei et noctis cogitatio, quam universi habent amantes» (troppa
agitazione di giorno e di notte che hanno tutti gli amanti), causa
fondamentale secondo Andrea della passio amorosa.
La terminologia comune tra il De amore e l'epistolario testimonia una
stessa concezione dell'amore. Non meraviglierà quindi che vi possano
essere affermazioni simili nello spirito e nella lettera come le seguenti:
Quae exercuimus [ ... ] nec a memoria labi possint [...] Nec
etiam dormienti suis illusionibus parcunt [ ... ] ut turpitudinis illis
magis quam orationis vacem. Nec solum quae egimus, sed loca pariter et
tempora ita ut [ ... ] nec dormiens etiam ab his quiescam.
(Ciò che abbiamo conosciuto non si può cancellare dalla memoria. Anche quando
dormo le loro immagini ingannevoli mi perseguitano e non riesco neppure a
pregare. Ho davanti agli occhi non solo quel che abbiamo fatto, ma anche i
luoghi e le occasioni, tanto che non trovo la quiete neppure nel sonno.)
[Ep.,
4, p. 174]
[
... ] amor [ ... ] res timenda videtur [ ... ] Nobis igitur expedire
videtur ab amore vacare [ ... ] Amantes enim non solum inter ipsas
vigilias variis poenarum languoribus fatigantur sed etiam dormiendo.
(L'amore appare cosa temibile. Ci sembra infatti che la mancanza d'amore
ci renda in qualche modo liberi. Gli amanti infatti sono preda di penosi
tormenti non solo durante il giorno, ma anche quando dormono.) [De
amore, 1, 18, pp. 142-144]
Loca
etiam, tempora et personas [ ... ]
et occasiones libidinis [ ... ] evitare memento.
(Ricordatì di evitare il
luoghi, le persone e le occasioni di piacere.) [De
amore, 3, 33, p. 306]
Se così forti sono i tormenti d'amore, ancor più forti dovranno essere i rimedi per guarirne. E quale miglior rimedio c'è che la presenza stessa dell'amato, fonte del male e fonte di salvezza?
Qua
maior est dolendi causa, maiora sunt consolationis adhibenda remedia non
utique ab alio sed a teìpso ut qui solus es in causa dolendi solus sis
gratia consolandi.
(Quanto maggiore è la causa dei mio dolore, tanto più efficaci devono
essere anche i rimedi, e devi essere tu a porgermeli e non altri, perché
tu solo, che sei la causa del mio dolore, sia motivo di consolazione.)
[Ep.,
2, p. 130]
[Vulnus] pro magna potentia sui grandia me postulare cogit et instantis
doloris remedia cogitare. Vos
quidem estis mei causa doloris et mortali poene remedium.
(La piaga per la sua grande potenza mi
costringe a pretendere molto e a meditare rimedi al dolore che mi opprime.
Voi siete causa del mio dolore e suo rimedio.) [De
amore, 1, 12, p. 361
Se non si pone rimedio al tormento d'amore questo tormento è una morte peggiore della morte stessa, un morire mille volte:
[ ... ] quod mortem praevenit ipsa morte gravius sit.
(Ciò che previene la morte è cosa più grave della morte stessa.)
[Ep.,
4, p. 164]
... erit mihi vita
poena, quod gravius
est quam subito incorrere morte.
(La mia vita sarà un tormento, il che è più grave di una morte
improvvisa.) [De
amore, 1, 12, p. 36)
Di fronte
a questo breve riscontro il lettore avrà comunque potuto pensare che i
passi esaminati hanno molti precedenti illustri. In effetti, la patologia
dell'amore è un cavallo di battaglia dei poetì latini e della medicina
antica e medievale, e i fenomeni cui alludono l'epistolario e il De
amore sono noti attraverso varie fonti, al punto da divenire
proverbiali. Che gli amantes siano anche amentes è opinione
comune nell'antichità e nel Medioevo. Che perdano il sonno e la salute
per colpa dell'oggetto d'amore è un leit motív della poesia
erotica classica.
Tali tormenti sono la condizione
naturale dell'amante: se qualcuno vuole evitarli, ricorra ai remedia
amoris suggeriti da Ovidio, tra i quali c'è il consiglio di evitare i
loca che ricordano la passione; quel luoghi che tanto torturavano
Eloisa: « Et loca saepe nocent; fùgíto loca » (anche i luoghi spesso
fanno male, fuggili dunque). D'altro canto, ì poeti suggerivano che
l'amore non conosce freni ed è vano sperare di moderarsi: «Verus amor
nullum novit habere modum » (il vero amore non conosce moderazione),
afferma Properzio.
Più in generale Ovidio dice che
il desiderio è smodato: "immoderata res cupido". Da cupido a
Cupido il passo è breve: chi è colpito dalle sue frecce non può che
amare senza misura!
Il fenomeno del "mal d'amore" era del resto ben noto anche alla
medicina: le trattazioni sul morbus melancholicus antiche dedicano
un certo spazio al "malato d'amore" e gli autori medievali
riprendono e amplificano queste suggestioni. In essi troviamo molte delle
idee professate da Andrea Cappellano, che cita esplicitamente le opere di
Johannitius (Hunain ibn Ishaq), autore canonico della Scuola medica
salternitana. La fonte principale di Andrea è poi Costantino Africano,
autore di un De melancholia e del De morborum curatione, opere
nelle quali ritornano molti motivi ripresi nel De amore. Da questa
stessa tradizione Andrea ricava l'idea che la degenerazione dell'amore sia
la melancholia: «Narn [...] quisque [ ... ] incipit [ ...] multis
cogitationibus cruciarì [ ... ] ornnis eum alacritas derelinquit. Qua
quidem cessante illico melanconia ex adverso consurgit». (Chiunque si
lasci tormentare da mille pensieri, subito ogni allegria lo abbandona. E
subito viene travolto dalla malinconia.)
Niente di nuovo parrebbe dunque trovarsi nelle pagine di Andrea e di
conseguenza nei brani in comune con l'epistolario di Abelardo. Ma le cose
non stanno così. Anche se singolarmente prese le teorie professate
dipendono da tradizioni preesistenti, l'"insieme" è qualcosa di
più che la somma delle parti. Il lettore cercherebbe infatti vanamente in
Ovidio la parola cogitatio. E
vi cercherebbe invano anche una dottrina della melancholia. D'altra parte, altrettanto vana
sarebbe la ricerca negli austeri trattati medici delle sottili analisi che
i poeti dedicano al tormenti d'amore e dei sentimenti conflittuali e
ambivalenti che agitano l'animo dell'amante. La parola desiderium, che pure ricorre in Costantino
Africano, indica solo il desiderio sessuale, non quel complesso viluppo di
pulsioni che Ovidio chiama cupido e
Properzio amor. Le
diverse fonti si integrano tra loro, ma non sono complementari in modo
automatico. E' necessario cucire con fili sottili gli insegnamenti della
poesia erotica latina con quelli della medicina medievale per creare la
veste ricca di tonalità con cui gli amanti del XII secolo debbono
rivestire la loro passione.
Per il mistero delle lettere la
soluzione è ancora lontana.
Di tale
processo, tuttavia, non c'è traccia nell'epistolario di Abelardo ed
Eloisa, che presenta le teorie nell'amore come se fossero opinioni
largamente condivise da tutti, mentre ciò non era affatto vero all'epoca
della storia d'amore tra i due personaggi. Ciò che ne consegue può
essere chiarito da un esempio.
Immaginiamo di trovare un testo
di data incerta in cui uno scrittore descriva una storia d'amore usando
con perizia di psicanalista parole come "nevrosi", "libido" e "complesso d'Edipo". Senza dubbio noi possiamo
avanzare l'ipotesi accademica che questo scrittore abbia composto il testo
prima di Freud e lo abbia genialmente "anticipato". In fondo la
tragedia di Sofocle sulle vicende del re tebano parricida e poi sposo
della madre era ben nota; il termine "nevrosi" era stato usato
nel 1777 dal medico scozzese Willam Cullen nel suo
Lines of Practice of Physics; e il
termine "libido", che aveva tormentato sant'Agostino, compare
nel 1898 nel titolo di un libro di A. Moll, Untersuchungen
iiber die Libido Sexualis, prima di
essere usato pubblicamente da Freud.
Ma c'è una sola persona
ragionevole disposta a credere che l'ipotetico testo dell'ipotetico
lettore abbia mirabilmente precorso Freud, usando le stesse fonti, e non
piuttosto che Freud abbia elaborato prima la sua dottrina amalgamando
insieme fonti disparate?
Tornando ad Abelardo ed Eloisa, mi domando quanto sia credibile che nella
loro corrispondenza venga anticipata la concezione dell'amore-malattia che
troviamo in Andrea con gli stessi termini, le stesse frasi, e tuttavia
senza una traccia del processo teorico che ha portato a formulare tale
teoria e senza una spiegazione, sia pure incidentale, del valore assegnato
a certi vocaboli.
Agli occhi del lettore moderno
sembra ovvio che dottrine divenute universalmente diffuse nel XIII secolo,
con una terminologia ricorrente, siano state sempre presenti alla cultura
medievale. In realtà non è così. Esse sono state "scoperte"
in un certo momento, grazie a traduzioni dall'arabo o sono state
"riscoperte" grazie a una rilettura delle fonti antiche con
nuovi occhi.
Tale è il
caso per esempio dell'espressione phantasma per definire le immagini prodotte
dalla mente che imprigionano l'anima usato da Eloisa nella Quarta lettera
(«obscena [ ... ] voluptatum phantasmata [ ... ] captivant anima»).
L'espressione non può essere spiegata col lessico corrente all'epoca di
Eloisa, perché gli scrittori del tempo seguivano la tradizione
agostiniana che distingue il phantasma, cioè la chimera che non ha
fondamento che si chiama reale, dall'illusione che nasce dalla realtà, phantasia.
Non a caso san Bernardo usa «cogitationum phantasiae», Adelmanno
di Liegi impiega «carnalibus phantasiae»,
e Giuliano di Vézélay «turpitudinis phantasiae». Eloisa,
insomma, avrebbe dovuto dire « voluptatum phantasiae
» come dicevano i suoi
contemporanei giacché è solo con la riscoperta di Aristotele e il suo
uso sistematico che phantasma diviene
sinonimo di immagine reale, desunta da un'esperienza dei sensi,
sostituendo phantasia.
In sostanza,
si ha l'impressione che i passi in comune tra Andrea Cappellano e
l'epistolario
dimostrino la posterità dell'epistolario stesso: o quanto meno che parti
dell'epistolario sono state interpolate e "aggiornate" a partire
da nuovi sviluppi del pensiero, quando il linguaggio del De
amore era divenuto comune. Si tratta
naturalmente di ipotesi che vengono presentate con tutta la cautela che il
caso richiede. Nonostante l'impazienza dei lettori lo scandalo
dell'epistolario dei più grandi amanti del Medioevo è ancora aperto.
Fabio Troncarelli (Gli amanti senza pace, Storia e Dossier n. 80/94)
L'epistolario di Abelardo ed Eloisa è citato dall'edizione curata da C. Vasoli, Torino 1974; il De amore di Andrea Cappellano dall'edizione curata da G. Ruffini, Milano 1980. Le traduzioni tra parentesi tonde sono di Gianluca Formichi. Per le lettere si veda Pietro Abelardo, Storia delle mie disgrazie, Garzanti, Milano 1983.