IL VINO E LA ROMAGNA
dai greci ad oggi


Storia DEL VINO IN ROMAGNA

Bacco, di Caravaggio 1593 (Uffizi, Firenze)

Le vigne amano le aperte colline

Virgilio

EPOCA ANTICA

Nelle terre della bassa valle Padana la viticoltura deve essere stata introdotta dai greci, via mare. A Ravenna la vitis spionia, molto produttiva e prosperante nelle nebbie, era ben nota, e a Piceno, come in tutta la pianura che dal Po va ai piedi delle Alpi, si produceva del gran vino, come testimonia Polibio.

Tuttavia, la prova più antica della viticoltura in Romagna è data da una frase latina scritta su una lapide dedicata a metà del III sec. d. C. al console Quinto Erinnio Etrusco, figlio dell'imperatore Decio: "Itemq. negotiantes vini supernat et Arimin." ("Parimenti anche Rimini eccelle per i negozianti di vino"). Quest'ultimi dovevano essere piuttosto numerosi e abbienti, al punto che vengono associati, nell'iscrizione, ai banchieri e ai notai. D'altra parte a quel tempo Rimini era il porto più importante dell'alto Adriatico: ad esso faceva capo il commercio anche del vino.

Il primo che ci ha fatto pervenire notizie precise sulla produttività, giudicata molto alta e di qualità pregiata, dei vigneti romagnoli è stato Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), che nel suo De Rustica afferma che "il popolo etrusco, sceso nella pianura romagnola, costruì i centri di Faenza, Forlì e Imola, scolò i vastissimi acquitrini dei territori di Adria e Spina, dove sorsero i centri di Argenta e Ferrara, e bonificò, con una vasta rete di fiumi e di canali, la valle padana, dove piantò alberi e viti, provenienti dall'Italia centrale, come l'olmo, il frassino, l'albana, il trebbiano, la canina e la pergola".

Con l'arrivo di questi vitigni, la vitis vinifera prese il sopravvento sulla selvatica vitis labrusca, citata da Virgilio nelle Bucoliche, che cresceva spontaneamente nella bassa pianura romagnola e da cui ha avuto origine il lambrusco.

Varrone cita anche le rese delle viti dell'agro di Faenza e di Rimini, sostenendo che le campagne romagnole erano le più produttive di vino di tutta la penisola, e questo prima ancora dell'assegnazione delle terre migliori ai legionari di Cesare e della centuriazione. Dettagliata è anche la descrizione delle operazioni di vendemmia e di pigiatura dell'uva. Non solo Varrone ha trattato della viticoltura, ma anche Catone (De agricoltura), Plinio il Vecchio (Naturalis historia) Virgilio (Georgiche), Columella, Palladio Rutilio. (1)

Fondo di coppa vitrea dorata cristiana, con interno di osteria.

Molto probabilmente sono stati i romani a decidere, definitivamente, la scelta dei vitigni (il Trebbiano, p.es., veniva chiamato "il vino dei legionari"), nonché le tecniche di lavorazione (a loro si deve il passaggio dalla pigiatura fatta coi piedi a quella col torchio, minuziosamente descritto da Catone). Sarà solo verso la fine del II a.C. che i romani cominceranno a distinguere i vigneti e i loro vini. Prima di allora ci si limitava a una sola qualità e l'annata veniva ricordata in base al nome del console in carica (famosa quella sotto il console Lucio Opinio, del 121 a.C.).

E' altresì noto che se alcuni dei più autorevoli scrittori del tempo, quali Plinio e Columella, si pronunciavano a favore di una enologia non manipolata con aggiunte estranee al genuino succo dell'uva, spesso invece venivano compiute diverse correzioni, tanto sui mosti quanto sui vini, specie quelli più raffinati (p.es. l'aggiunta di miele al mosto per aumentare il grado zuccherino e lasciare al vino un sapore dolce; vino, questo, che i romani usavano come aperitivo, rispettando la consuetudine che il vino migliore andava servito per primo).

Plinio il giovane chiamava "mecenatiani" i vini romagnoli, perché Mecenate si compiaceva enormemente del vino prodotto in Romagna e a Cesena in particolare. Tra gli 80 vigneti e le 135 qualità dei vini più famosi dell'epoca romana vi era infatti il Cesenate (sangiovese).

Una pratica enologica, presa dai Greci e dagli Egizi, era quella della cottura dei mosti, al fine di aumentarne il contenuto zuccherino e la corposità. Principio, questo, usato, con varie modifiche, ancora oggi.

Le cantine romane, almeno in un primo momento, venivano costruite sotto terra, o al pian terreno; vi erano contenuti i vasi per la fermentazione e per la conservazione del vino, di solito più o meno interrati.

In seguito, raffinandosi la tecnica, cominciarono ad essere usate per la conservazione e l'invecchiamento dei vini di pregio, stanze non interrate o ai piani superiori, in cui si collocavano anfore e recipienti più piccoli.

Per il trasporto del vino venivano usati vasi di terracotta oppure otri di pelle o anche, nelle spedizioni militari, otri di legno (secondo una consuetudine germanica).

In un epigramma di Marziale si fa cenno alle "cauponae" di Ravenna, cioè alle osterie e rivendite di vino.

Il vino romagnolo non era molto conosciuto a Roma, ove in genere si beveva quello dell'Italia centro-meridionale, ch'era più denso, dolciastro e molto alcolico, per cui era sentita la necessità di diluirlo con acqua. Il vino puro invece veniva riservato ai sacrifici religiosi.

Nota

(1) "... lo scrive Catone nel suo libro Le origini: si dice gallicoromano il terreno che di qua da Rimini fu distribuito ai singoli proprietari oltre quel del Piceno; e in cotesto terreno per ciascun jugero si ricavano anche 18 otri di vino. E la stessa cosa capita in quel di Faenza, tanto è vero che si chiamano tricenarie le viti, perché in un solo jugero danno 30 anfore. E nel dire questo sto sulle mie". Terenzio Varrone De re rustica, I, cap. II

EPOCA MEDIEVALE

Nell'alto Medioevo la situazione in Romagna è drammatica come nel resto della penisola: vaste sono le terre incolte, i latifondi, i boschi, i pascoli e forte è l'abbandono delle terre.

Tuttavia una certa ripresa si verifica già durante il regno gotico di Teodorico (che termina nel 552), grazie anche all'opera dei monaci. E' nota la leggenda di Galla Placidia che, riferendosi al vino Albana, disse che meritava d'esser bevuto in un calice d'oro ("berti-in-oro", donde il nome della città Bertinoro).

La ripresa della viticoltura prosegue, con alterne vicende, sotto il regno bizantino (che termina nel 728). Fu introdotta la Cagnina dalle terre del Carso e dell'Istria, e il simbolo della vite risulta ben presente nell'iconografia ravennate.

Nel basso Medioevo la Romagna è di nuovo una regione molto fertile. Gli Statuti dei Comuni romagnoli sono molto ricchi di norme riguardanti la viticoltura e il commercio dei vini. In questo periodo tuttavia è Venezia che detiene il monopolio di quasi tutti i commerci dell'Adriatico.

Il testo più importante e più letto nell'Europa medievale, per l'apprendimento della viticoltura, è il Trattato sulla agricoltura di Pietro dei Crescenzi, il Novum Magister dell'agricoltura moderna.

Egli infatti riuscì a collegare le fonti classiche latine con le pratiche agrarie del suo tempo e la ricca esperienza acquisita nei suoi viaggi e nella vita di campagna.

Il manoscritto latino, pubblicato nel 1304, fu tradotto in varie lingue ed ebbe un numero elevato di edizioni (circa 60 soltanto dal 1471, primo anno in cui fu dato alle stampe, al 1602).

E' proprio in questo Trattato che per la prima volta troviamo descritto il vitigno dell'Albana, che "in tota Romaniola in veneratione hebentur". L'Albana era particolarmente apprezzata anche dai giureconsulti bolognesi del '300.

A proposito di Bologna, pare, stando agli Annales della comunità goliardica tedesca della città, che il vino preferito dagli studenti fosse il Trebbiano della Romagna.

I vini erano tenuti in grande considerazione negli Statuti e nei Bandi comunali. Si cercava soprattutto di difendere dai ladri i proprietari delle vigne. Molto dettagliate erano le sanzioni per chi vendemmiava prima del tempo, per chi non recintava il vigneto impedendovi l'accesso ai ladri e ai cani, per chi vendeva uve acerbe, per chi non usava misure perfettamente giuste e bollate, per chi faceva il vino con uve comprate (che quasi sempre erano rubate), e così via.

Tecnicamente le viti venivano "allevate" (era assente la piantata) in recinti specializzati posti solitamente nelle vicinanze delle abitazioni o anche in mezzo ai campi: questi vigneti recintati si addensavano particolarmente nei pressi delle città.

Si tendeva soprattutto a produrre vini bianchi, secondo la tradizione romana.

Particolarmente importante era il consumo di vino a Ravenna, che non disponeva di pozzi d'acqua dolce affidabili e non poteva far conto sull'antico acquedotto romano.

DAL RINASCIMENTO ALL'UNITA' D'ITALIA

Durante il Rinascimento i dazi e i pedaggi sul vino, già esistenti nel Medioevo per quello venduto al minuto, aumentano a dismisura. E si continua con le politiche protezionistiche, molto efficaci in un paese diviso in piccoli staterelli (spesso proprio la coltivazione della vite segnava i confini territoriali).

Presso le corti signorili il vino rappresenta quasi l'unica bevanda dell'epoca. Quello assolutamente più apprezzato della Romagna resta l'Albana, l'"Uva d'oro" della zona tra Cesena e Forlì, specie di Bertinoro.

Un medico e naturalista bresciano, Andrea Bacci, nel suo De naturali vinorum historia de vinis Italiae, descrive molto bene il motivo dell'ottima qualità dei vini romagnoli:

"Muovendosi dalla città di Fano lungo la frequentatissima via Flaminia (che è motivo non piccolo della grandezza di Roma) troviamo Pesaro e quelle città che seguono uno dopo l'altra: Rimini, Cesena, Forlì, Faenza, Imola, fino a Bologna: in conseguenza del notevole traffico che si svolge sulla via [Emilia] e per la distesa ampia di terra assai pianeggiante e per la generale laboriosità degli abitanti, generalmente non mancano di ottimo vino, soprattutto a sinistra, dove le colline si prolungano sino all'Appennino, ma anche nella stessa vastissima piana che, esposta uniformemente al sole, senza essere ostacolata da alcuna, se pur piccola, valle, riceve complemento dall'aria del mare e dai venti sempre salutari, in conseguenza dei quali le vigne se non crescono con abbondanza e generosità [come sulle colline], tuttavia vengono curate e sono encomiabili per la giusta gradazione e per la purezza dei vini".

A partire dalla metà del sec. XVIII si comincia ad avvertire il problema della navigabilità per mare dei vini, approfittando della maggiore libertà dei commerci. Nel 1777 il papato sancisce nel proprio Stato l'abolizione dei dazi.

Tuttavia, la scienza agronomica non fa alcun progresso in Romagna, manca una vera specializzazione delle colture, cui non possono essere interessati dei contadini che ancora vivono come servi della gleba e che preferiscono qualità copiose anche se scadenti e che spesso usano il vino come moneta di scambio dei canoni agrari d'affitto. Il rischio di essere superati dai produttori di altri paesi europei (la Francia in primo luogo) è reale.

Anche quando, con l'arrivo delle truppe napoleoniche, molte proprietà ecclesiastiche vengono confiscate e rivendute all'asta, permettendo lo sviluppo di una certa borghesia agraria, la situazione della viticoltura non migliora affatto. Anzi, inizia l'importazione dei vitigni stranieri, specie francesi, considerati migliori di quelli locali, che ormai vengono considerati come simbolo di un passato da dimenticare.

DALL'UNIFICAZIONE AGLI ANNI SESSANTA

Le Commissioni provinciali del Comitato Centrale Ampelografico, istituito dal Regno d'Italia nel 1872, riscontrano a livello nazionale una situazione vitivinicola insostenibile: i vitigni per numero, qualità, natura delle varietà sono "infiniti", non supportati da alcuna specializzazione, né da impianti tecnologici innovativi. Spesso la produzione di uva è separata dalla vinificazione. Conclusione: i vini sono scadenti.

Con la fiera enologica di Rimini del 1886 si ha un primo tentativo di migliorare la qualità del vino romagnolo, cercando di renderlo competitivo sul mercato europeo.

Torchio per spremitura delle vinacce con basamento in pietra.

Anche Ravenna si sta preoccupando del fatto che la Romagna pur avendo un grande capitale vinifero, non ne ricava un profitto adeguato. A fronte del disinteresse da parte dei governi nazionali si sta pensando di costituire delle forme associative tra produttori (p.es. le cantine sociali). La prima cantina sociale fu fondata a Oleggio (Novara) nel 1891.

Un decreto del Ministro Italiano di Agricoltura, Industria e Commercio ammette il sarsinate Luca Silvani all'Esportazione Universale di Vienna (1873) con "vino rosso da pasto del 1871".

Ostacolano tuttavia la commercializzazione del vino due importanti fattori: 1) il frazionamento della proprietà del suolo, 2) la generalizzazione dei contratti a mezzadria (sostenuto anche dal fascismo). E la classe nobiliare, diversamente di quanto avviene in altri territori della penisola, non pare avere alcuna capacità imprenditoriale.

Agli inizi del Novecento arriva in Emilia-Romagna la malattia vinicola della peronospora, un fungo parassita, che obbliga a sostituire i tradizionali vitigni con altri più resistenti provenienti soprattutto dalla Francia (Chardonnay, Cabernet sauvignon e Merlot).

Solo alla fine degli anni Cinquanta si opera una razionalizzazione e una modernizzazione della produzione, favorendo la nascita delle cooperative e istituendo le zone di Denominazione di Origine Controllata.

DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI

Negli anni '60 il sistema vinicolo nazionale, basato sulla ricerca di grandi produzioni a basso costo, deve fare i conti con fenomeni inediti: il progressivo calo dei consumi di alcol pro capite a livello mondiale, l'emergere di nuovi paesi produttori a tecnologia molto più avanzata della nostra, la traumatica migrazione dalle campagne e dalle colline (dove per tradizione sono sempre esistiti i vini migliori) verso le città.

Mentre in varie Regioni italiane si modernizzano le cantine, introducendo i vinificatori a temperatura controllata, i lieviti di fermentazione selezionati, nuovi sistemi di filtrazione e stabilizzazione a freddo, e soprattutto s'introducono i vitigni internazionali p.es. Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay), in tutta la Romagna invece non esisteva un solo operatore qualificato e specializzato in vini di qualità e con un minimo di organizzazione e relativa rete commerciale.

L'atto di nascita dei vini di Romagna a livello di qualità porta la data del 30 ottobre 1962, con la decisione di costituire a Faenza un vero e proprio consorzio (Ente Tutela Vini Romagnoli) che fissasse regole e discipline accettate da tutti i produttori, relativamente a i sistemi di allevamento dei vigneti, la resa in uva, i sistemi di vinificazione, la resa in vino, le gradazioni minime, i controlli, ecc. Questa decisione anticiperà la stessa legge sui DOC del luglio 1983.

Simbolo del nuovo Ente Vini era l'effige di Stefano Pelloni, famoso brigante romagnolo detto "Il Passatore".

A Riccione, il 6 settembre 1966, si costituisce il comitato di tutela dei vini, il cosiddetto Tribunato dei Vini di Romagna (oggi solo di Romagna, perché mira a diffondere la conoscenza di tutta la Romagna). La prima Cà de bé del Tribunato sorge a Bertinoro.

Negli anni '70 si cominciano ad usare tecnologie più avanzate e negli anni '80 si riorganizza il settore vinicolo in cooperative.

Attualmente si è nella fase del rinnovo dei vigneti e della selezione dei cloni migliori. In Romagna i vigneti sono piantati su circa 63.000 ettari (di cui più di 58.000 in produzione), dislocati per il 65% in pianura, il 34% su terreni collinari e l'1% in montagna. Le uve rosse solo il 55% del totale.

Di tutta l'Emilia-Romagna la più produttiva è la provincia di Ravenna, seguita da quelle di Reggio-Emilia, Modena, Bologna e Piacenza. Il fatturato annuo complessivo regionale, prima dell'introduzione dell'euro, si aggirava sui mille miliardi di lire. Oltre mille sono le aziende aventi una produzione maggiore di 100 ettolitri l'anno. Quelle che esportano vino sono circa 500. Le tipologie di vini DOC e DOCG sono circa 80. La produzione media di uva per ettaro è di circa 163 quintali (la media nazionale è di 150).

Ordinamenti del Tribunato di Romagna


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia della Romagna
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Aggiornamento: 22/08/2011