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I RITI DEL CIBO NELL'ANTICA ROMA
Un regista chiamato cuoco

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Il rito del pasto ha dunque una sua valenza
spettacolare che Eliogabalo ha enfatizzato alleccesso, perché osservare chi mangia
o chi è impedito a farlo equivale ad assistere alla messa in scena di certe passioni,
avidità, bramosie, incontinenze e persino impudicizie. Ma per la verità nel pasto si
esalta anche unaltra valenza spettacolare che ha alle spalle un regista chiamato
cuoco, sopraffino prestigiatore di sostanze, forme, profumi e colori.
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- Gli antichi romani non hanno un cuoco fisso alle
loro dipendenze, ma lo affittano in base alle esigenze. Le modalità di contrattazione,
che si svolgono al mercato, sono vivacemente descritte in una commedia di Plauto:
Pseudulus.
Non manca, in questo caso, una parodia della sacralità, perché Plauto sa ben
smascherare, grazie alle parole del cuoco millantatore, la paradossale ossessione di voler
rispecchiare nei comportamenti degli dei ogni passione umana.
CUOCO: Appena tutte le
casseruole bollono, le scoperchio; e lodore sale in cielo con i piedi a bilanciere.
BALLIONE: Lodore con i piedi a bilanciere?
CUOCO: Che stupido! mi sono imbrogliato.
BALLIONE: E allora?
CUOCO: Con le braccia a bilanciere, volevo dire;
con quellodore Giove ci fa banchetto ogni giorno.
BALLIONE: E se tu non cucini, come fa a mangiare
Giove?
CUOCO: Va a letto senza cena.
(Plauto, Pseudulus, Atto III, scena 2^, vv.840-846, a cura di
G. Augello, UTET, Torino, 1968)
- Virtuosi della cucina, i cuochi delletà
imperiale sanno manipolare così bene le materie prime, da poterle servire in tavola sotto
lapparenza di cibarie sempre diverse. Lospite ignaro corre il rischio di
mangiare zucca per antipasto, per primo piatto, per secondo, terzo e dessert. Ricavate
dalla zucca sono infatti le lenticchie, i funghi, i pesci e persino la coda di tonno:
"Hinc exit varium coco minutal, / ut lentem positam fabamque credas; / boletos
imitatur et botellos, / et caudam cybii brevesque maenas" (Marziale,
Epigrammata,
XI, 31, vv. 11-14).
- Eppure, tra tanta passione per il cibo, non manca un
invito al vegetarianesimo dispirazione pitagorica, invito dettato soprattutto da una
forma di rispetto nei confronti degli altri esseri viventi, che meritano dessere
risparmiati, vista la profusione di messi e frutta a disposizione delluomo: "Parcite,
mortales, dapibus temerare nefandis / corpora! sunt fruges, sunt deducentia ramos /
pondere poma suo tumidaeque in vitibus uvae; / sunt herbae dulces, sunt, quae mitescere
flamma / mollirique queant, nec vobis lacteus umor / eripitur nec mella thymi redolentia
flore; / prodiga divitias alimentaque mitia tellus / suggerit atque epulas sine caede et
sanguine praebet" (Ovidio, Metamorphoseon, XV, vv. 75-82).
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Un invito tuttavia disatteso dai più, che invece
fanno a gara per gustare le prelibatezze offerte dagli animali esotici o pregiati: pavone
di Samo, francolino di Frigia, ostriche, murene, gru ed altri, copiosamente citati nei
testi di Orazio, Apuleio o Plinio.
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Ma in epoca tardo-imperiale l eccessiva
frollatura della carne, il suo consumo quotidiano e labuso daceto
costituiscono una minaccia per una dieta sana, così come la cottura dei cibi nelle
pentole di piombo; molti nostalgici del tempo antico notano infatti che le abitudini
mangerecce si sono progressivamente trasformate in analogia con altri pericolosi stravizi.
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Se è vero che ogni testo si presta a molteplici
livelli interpretativi e fornisce indizi di vario grado, persino il De re coquinaria
di Apicio non si configura unicamente quale accattivante manuale di gastronomia, ma è
interpretabile anche come specchio della realtà sociale, che consente di recepire,
attraverso le sofisticate evoluzioni del gusto, la progressiva implosione del sistema
romano: nellossessione della tavola si consuma lesistenza di chi vuole
fagocitare la vita nello stesso momento in cui ingurgita cibo. E veramente unintera
civiltà precipita nella voragine di quella grande gola, "peragrantis gulae",
che va per il mondo alla ricerca dei sapori e disprezza ciò che è facilmente
raggiungibile: "per luxum animi parata atque facilia fastidientis per inprobam
satietatis lasciviam"(Gellio, Noctes Atticae, VI, 16, 6).
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