CONTRO LA GRAMMATICA ITALIANA |
|
Gioca gratis |
IL PERIODO IPOTETICO I - II
Come noto, la grammatica italiana (e forse molte altre grammatiche europee, visto che il sillogismo è parte essenziale della scienza occidentale della logica) distingue tre periodi ipotetici: realtà, possibilità e irrealtà. 1. Quello della realtà si ha quando l'ipotesi (se) viene data come reale, sicura, e la frase della subordinata condizionale ha sempre il verbo all'indicativo, come d'altra parte, e inevitabilmente, lo ha la reggente (sarebbe impossibile avere una reggente al condizionale e una subordinata all'indicativo), per cui: "Se vuoi cambiare grammatica, non comprare né il Sensini né la Zordan". 2. Quello della possibilità si ha quando l'ipotesi (se) è data come eventualmente possibile. Qui la frase della subordinata condizionale ha il verbo al congiuntivo imperfetto e la reggente al condizionale presente. Ciò è tassativo, per cui "se tu volessi imparare una nuova grammatica, non dovresti usare né il Sensini né la Zordan". 3. Quello della irrealtà si ha quando l'ipotesi (se) è data come impossibile da realizzarsi. Qui si devono usare i verbi a seconda che il tempo in questione sia il presente o il passato. Nel primo caso dovrei dire: "Se avessi vent'anni di meno, ora non starei a parlare di grammatica". Nel secondo caso invece dovrei dire: "Se avessi avuto la possibilità di scrivere una nuova grammatica, l'avrei fatto volentieri". Cosa c'è che non va in questi ragionamenti? Quello che non va è in stretta dipendenza dal fatto che i grammatici separano nettamente la sintassi dalla semantica. C'è da scommettere che su queste regole del periodo ipotetico, i filosofi e soprattutto i teologi troverebbero da dire coi grammatici. Prendiamo p.es. il primo caso. Quando diciamo che, poste determinate condizioni, si possono ottenere determinati risultati, quando mai siamo sicuri di ottenerli al 100%? Escludendo le operazioni di tipo matematico, dove se non è A è B, nella realtà qualunque "se" è sempre molto ipotetico, specie se sono in causa scelte esistenziali o decisioni che devono prendere determinate collettività. La logica formale vuole che le conseguenze sono sicure soltanto quando le condizioni vengono rispettate alla lettera. Ma nella vita reale succedono cose che sconcerterebbero anche i grammatici più duttili e flessibili del mondo. Che dire p.es. del fatto che si possono ottenere conseguenze opposte a quelle previste, pur avendo rispettato scrupolosamente le condizioni preliminari? Basta guardare che fine fanno, in genere, le rivoluzioni politiche. Ed è vero anche il contrario, e cioè che nonostante talune condizioni sfavorevoli di partenza, si possono ottenere risultati superiori alle proprie aspettative. Questo perché il genio o la creatività umana (a volte una semplice e fortuita combinazione di eventi) riescono a trarre il positivo anche dal negativo. Se vogliamo tutta la pedagogia (specie quella adolescenziale) si basa su questo presupposto. E non è forse questo il segreto della dialettica hegeliana? Non c'è nessun se ipotetico che nella vita sociale implichi o escluda di per sé determinati risultati. Questo perché gli esseri umani sono fatti di libertà e non sempre sopportano di dover sottostare ai diktat o alle minacce dei se ipotetici. Tuttavia la cosa più grave nel ragionamento dei grammatici è un'altra ancora. Basterebbe solo il seguente esempio per convincersene. Quando davanti alla parola "dio" mettiamo un bel "se", abbiamo qualche possibilità di rientrare nel periodo ipotetico della realtà (o quanto meno della possibilità, nel caso in cui si fosse agnostici), oppure inevitabilmente finiamo - come vorrebbe Laplace - nella irrealtà? Qualunque ipotesi che chiamasse in causa aspetti che la cultura dominante non ritiene attendibili (perché non dimostrabili o non verificabili), dovrebbe essere esclusa a priori - come fece Kant con le prove scolastiche dell'esistenza di dio - o avrebbe comunque diritto a una qualche legittimità? Se si tratta soltanto di definire i limiti epistemologici entro cui una data ipotesi può avere un senso, è evidente che quel che è ammissibile, come condizione, per una persona, può esserlo anche per un'altra soltanto se questa accetta, in via preliminare, quegli stessi limiti di riferimento. Il che però, alla lunga, porta i ragionamenti a una povertà incredibile. Anzi nell'immediato porta la poesia al patibolo. Al di fuori di questo, spesso è letteralmente impossibile che vi sia accordo anche solo su delle minime condizioni preliminari. Cattolici, protestanti e ortodossi non credono forse nello stesso dio uno e trino? Eppure le differenze tra loro sono abissali: non c'è argomento su cui non abbiano interpretazioni opposte, e lo dimostra il fatto che da mille anni non c'è mai stato alcun accordo duraturo tra cattolici e ortodossi e da mezzo millennio mai uno tra cattolici e protestanti. Più in generale si potrebbe dire che, per chi ha una visione religiosa o magica dell'esistenza, il concetto di "irrealtà" quasi non esiste, essendo costantemente trasfigurato sul piano mistico. Infatti il credente pensa sempre di poter superare qualunque limite grazie a un intervento miracoloso della divina provvidenza, ovvero secondo la formula "credo quia absurdum", attribuita a Tertulliano. Ma anche dal punto di vista laico-scientifico sta diventando sempre più difficile accettare i limiti della "irrealtà". Non solo perché ci illudiamo di poter fare con la scienza e la tecnica qualunque tipo di "miracolo", sostituendoci alla religione, ma anche perché, effettivamente, stiamo diventando sempre più consapevoli dell'infinità della natura dell'universo e quindi della possibilità che la morte dell'uomo sia soltanto un momento di passaggio da una dimensione a un'altra, prescindendo totalmente dalle speculazioni religiose che fino ad oggi sono state fatte sull'argomento. La scienza è ormai in grado di togliere alla religione il monopolio interpretativo sulla cosiddetta "creazione dell'universo", e a tal fine non avrebbe bisogno di dimostrare che sa fare "miracoli" usando semplicemente la ragione; anche perché spesso questi "miracoli" vanno ben oltre i limiti umani entro cui tutti noi dovremmo stare (si pensi solo a certe riproduzioni artificiali o addirittura all'ibernazione). Noi insomma dovremmo accettare l'idea che quando c'è di mezzo il "se ipotetico", non si può mai dare per scontato nulla, né in senso positivo (il periodo della realtà), né in senso negativo (il periodo della irrealtà). E questo dovrebbe valere anche quando si esaminano i fatti storici, che non possono essere interpretati utilizzando soltanto la categoria della necessità. Una storiografia più equilibrata, più consona alle capacità umane di scelta, deve per forza prevedere, nel suo armamentario, anche il coltello del "se ipotetico", che, peraltro, quando viene usato non con fare ozioso e dispersivo, o al contrario, insinuante e tendenzioso, ma con fare onesto e costruttivo, ha una lama affilatissima. |