LA COSCIENZA DI SVEVO

LA COSCIENZA DI SVEVO

Italo Svevo

Dario Lodi

I - II - III


Italo Svevo (al secolo Aron Hector Schmitz, 1861-1928)non viene dal mondo letterario vero e proprio, ed è una fortuna, altrimenti avremmo quasi certamente perso la sua genuinità, la sua spontaneità. Di famiglia benestante, poi caduta in rovina (Svevo dovette trovare impiego in una banca, dove lavorò per quasi vent’anni: più tardi divenne socio del suocero in una ditta di vernici navali) il nostro scrittore esordì con “Una vita”, un romanzetto d’impianto romantico-decadente, oggi di quasi impossibile lettura. Seguì un lungo silenzio e verso la fine del secolo apparve “Senilità”, altra prova tradizionale con qualche barlume di novità in più. Svevo era cresciuto intellettualmente, s’interessava alle novità culturali europee del momento, aveva scoperto Freud: e quest’ultima scoperta fu davvero determinante per la sua opera futura, culminata con uno dei più curiosi libri dell’intero ‘900: “La coscienza di Zeno”.

A differenza di ciò che sarà Freud per Joyce (Svevo fu amico di quest’ultimo, entrambi si stimavano), e cioè un pozzo senza fine di problemi interpretativi dell’essere, per Svevo, lo psicanalista viennese fu uno stimolo alla riflessione e alla considerazione sulla pochezza del vedere rispetto al non visto, ma esistente.  

E’ come se lo scrittore triestino, cioè il nostro Svevo, si rendesse conto di due esistenze: quella quasi meccanica, involontaria e quotidiana, abituale, e quella possibile, remota, determinata dalla propria volontà.

Ne “La coscienza di Zeno”, non mancano azzardi psicanalitici mescolati a narrazioni convenzionali, ma c’è soprattutto della freschezza speculativa che prende sempre più forma e corpo: è una freschezza sollecitata sicuramente dalla lettura di Freud, ma non vi è subordinata. Svevo va per conto suo, attratto dalla curiosità per il mezzo analitico offerto dal rivoluzionario medico di Vienna. Verso lo stesso, cioè verso il mezzo analitico, il nostro scrittore mostra della diffidenza e attua del distacco studiato, come per analizzare da lontano il fenomeno e le possibili conseguenze, le probabili ripercussioni sulla resa della narrazione dando credito al nuovo impeto esplorativo.

Svevo è veramente colpito dalla vastità delle esplorazioni che la speculazione freudiana va a comportare: è una vastità che potrebbe avere un peso relativo nella formazione del pensiero umano, oppure il pensiero umano tradizionale può essere una contrazione trascurabile della mente umana.

La differenza è ovviamente sostanziale: nel primo caso, l’uomo ha il mondo nelle proprie mani; nel secondo, tutto è casuale, ovvero contingente, e l’uomo è, in senso assoluto, un inetto.  

Un po’ per posa, un po’ per pigrizia, un po’ per diffidenza sempre meno gestibile – tutto ciò che ruota intorno a Freud potrebbe, infine, essere frutto di fantasia o di ciarlataneria, per quanto involontaria – Svevo propende per la seconda ipotesi, ma senza prenderla troppo sul serio. La grandezza del suo pensiero sta in questa scelta di porsi nel limbo e stare a guardare, cercando di non farsi coinvolgere seriamente da una discussione impegnativa.

Lo scrittore triestino è sostanzialmente scettico, a partire dalla propria posizione di testimone intelligente di ciò che lo circonda. La sua intelligenza è tutta a favore di una cautela che di fatto lo salva da domande alle quali non saprebbe dare una risposta: né lo vorrebbe, in quanto Svevo crede molto poco alle risposte, crede cioè molto poco alla capacità dell’uomo di darne di attendibili, di ferme, di incisive, di memorabili.

Il fondo di questo scritto zigzagante ha un preciso carattere ironico, da vecchio saggio che nella vita le ha viste e le ha pensate tutte. Non è un’ironia amara, non sfocia mai nel sarcasmo, e non è snobistica. E’ l’atteggiamento di un uomo attento che non ha molta stima dell’umanità, che la ritiene inutilmente superba, presuntuosa, persa nel mito di se stessa.

Messe così le cose, la sua potrebbe apparire una presunzione sulla presunzione e magari verrebbe la voglia di dire che Svevo, alla fin fine, si ferma qui: si ferma a leccarsi le ferite e a bearsi delle sue soluzioni-non soluzioni, ad insistere nel dire che è un inetto ed un incapace, sottintendendo ben altro. Ma si andrebbe ad esagerare. Svevo appare più un intellettuale alla ricerca di un riferimento forte, a qualcosa cui aggrapparsi con ragione, anche a costo di sragionare (la non ragione che diventa ragione a sua volta) e lo ritrova, ritrova il riferimento, nella sua speculazione leggera, soffice, divertita e trasognata, impegnata e disimpegnata, vera, da uomo cosciente di essere in balia della propria figura di essere provvisorio, di essere ingenuo, facile all’auto-inganno, sia in un senso che nell’altro. E così il mondo intero: ma lo si dica sottovoce e quasi tanto per dire!

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019