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La testimonianza, il racconto, l'impegno (I
- II)
La Resistenza svolge un ruolo importante nel nuovo impegno degli
intellettuali. Elio Vittorini è il più appassionato sostenitore di tale impegno:
Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle
sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca,
che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a
vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi
tutta la vecchia cultura.
[...] Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno
conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti,
anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del
cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una
cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?
Così Vittorini, appunto, nell'articolo programmatico apparso nel 1945 sul
primo numero de "Il Politecnico", intitolato significativamente Una nuova
cultura (1). Una nuova cultura:
cioè una cultura che si identifichi finalmente con la società, che non si
limiti a consolare l'uomo nelle sofferenze, ma che lo protegga dalle sofferenze,
una cultura 'impegnata' che si proponga di incidere sulla realtà, di giocare un
suo ruolo attivo nei confronti della politica, una cultura che trasformi e
capovolga la vecchia cultura, che niente ha fatto contro il fascismo e che,
secondo Vittorini, è la grande sconfitta della guerra.
Vittorini poneva i temi fondamentali del dibattito degli intellettuali
nell'immediato dopoguerra: Una nuova cultura non solo costituisce, per così
dire, il manifesto de "Il Politecnico", ma anche e soprattutto interpreta lo
stato d'animo di una gran parte degli uomini di cultura all'indomani della
Resistenza (2).
E, come ha scritto scritto Corti [3],
"il programma di engagement, la coscienza di un impegno come modello
comportamentistico assoluto dell'intellettuale e dell'artista" costituiscono una
"costante" del neorealismo e sono dovuti alla sensibilità verso "una nuova
realtà popolare" e verso "un nuovo senso della collettività come forza attiva e
comunicante".
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La "nuova realtà popolare", il "nuovo senso della collettività come forza
attiva e comunicante" sono alla base della, per usare ancora le parole della
Corti (ivi: p. 33), seconda, specifica "costante" del neorealismo, vale a dire
"l'idea di una virtualità narrativa nuova, appena scoperta, quindi la coscienza
di poter dare inizio a qualcosa di diverso a livello tanto tematico quanto
formale, anzi in un nuovo rapporto fra i due".
Di qui il processo alla letteratura del ventennio fascista e l'aspra polemica
contro il predominio degli aspetti formali del testo letterario a favore degli
aspetti contenutistici (4), a favore cioè di una
marcata esigenza di realismo. In altri termini, il programma di engagement
intellettuale e, sul piano della produzione letteraria, il programma realista
sono strettamente connessi fra loro ed entrambi sono connessi al clima storico
che la guerra e la Resistenza avevano determinato.
Vi è una forte componente di spontaneità nel bisogno di impegno che la
maggior parte degli intellettuali italiani avverte a partire dalla Resistenza e
sino alla fine degli anni Quaranta. Una spontaneità che, del resto, caratterizza
- in forma di "voglia di raccontare" - anche
gran parte della produzione narrativa di quegli anni: ancora una volta
l'esigenza di impegno e la nuova virtualità narrativa si collegano fra loro e al
clima storico. E spontaneo, si direbbe, è anche il modo in cui scrittori come
Moravia, Vittorini, Pavese - scrittori che hanno alle spalle una già ben chiara
produzione letteraria - si confrontano con i fermenti nuovi
(5).
Il bisogno di impegno degli intellettuali e degli scrittori, lascia in un
primissimo tempo i dirigenti dei partiti politici, in particolare del Partito
comunista, abbastanza disorientati. "Non esiste", ha osservato Asor
Rosa [6], "una vera e propria organizzazione
della politica culturale dei partiti della sinistra: gli scrittori e gli
intellettuali risultano in questa fase più organizzati e coesi dei loro
interlocutori politici-culturali, hanno più strumenti di espressione e idee più
chiare e brillanti."
D'altra parte, gli appelli che Vittorini rivolge anche ai cattolici e agli
idealisti, il recupero della tradizione umanistica (centralità dell'uomo,
impegno a favore dell'uomo offeso) trovano il consenso dei dirigenti del Partito
comunista, perché pienamente consoni alla linea politica del partito: linea
inaugurata da Palmiro Togliatti con la così detta "svolta di Salerno" del
1944 (7), e tendente a presentare il PCI non
più come avanguardia di classe, ma come partito nazionale e di massa, e dunque
come interlocutore dei ceti medi.
Sicché si può ritenere che i dissensi, in questo primo momento, fra Togliatti
e Alicata da una parte, e Vittorini dall'altra (cfr. p. 17),
siano motivati soprattutto da divergenze di gusto e di formazione
culturale (8).
Ma le cose non sono così semplici. Serpeggiano in modo latente molte
contraddizioni: ecco perché, come si è già accennato, Maria
Corti [9] individua nella "contraddittorietà" la terza
"costante" del neorealismo, "contraddittorietà che ha alla base la
contraddizione stessa del contesto socio-culturale [...]: mentalità borghese
ancora attiva e coscienza affiorante di un futuro socialmente diverso".
In realtà le idee di Vittorini, per non parlare di quelle di Pavese, erano
ben lontane dalle idee di Togliatti e Alicata (10):
la contraddizione riguarda sia gli intellettuali, il modo in cui credono di
poter fare politica, il modo in cui si confrontano con la loro precedente
formazione culturale, sia il Partito comunista stesso, la concezione che i
dirigenti del partito hanno dell'impegno politico, della cultura e della
letteratura. |
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Vi sono, cioè, divergenze di fondo, che vanno al di là delle divergenze di
gusto, sicché l'idillio tra dirigenti comunisti e neorealisti è destinato a
durare poco. Gli avvenimenti storici, la collocazione internazionale
dell'Italia, e di conseguenza l'evoluzione economico-politica della società
italiana, in particolare la crisi dell'unità antifascista, fecero esplodere in
modo irreversibile la "costante" della "contraddittorietà".
(1) E. Vittorini, Una nuova cultura, in "Il
Politecnico", 1, 29 settembre 1945. È possibile leggerlo in Politecnico,
antologia a cura di M. Forti e S. Pautasso, Rizzoli, Milano 1975, pp. 55‑57. -
"Il Politecnico", rivista fondata e diretta da Vittorini, uscì a Milano dal 1945
al 1947.
Il programma di Vittorini era caratterizzato dalla apertura alla grande cultura
del decadentismo e delle avanguardie, europea e americana.
Per Vittorini la nuova cultura doveva essere profondamente antiprovinciale e
doveva mirare ad informare i lettori, a metterli al corrente di tutto ciò che
durante il fascismo era stato vietato o tollerato senza che ne fosse permessa
una diffusione di massa.
E così "Il Politecnico", per es., pubblicò a puntate For Whom the Bell Tolls
di Hemingway, difese l'arte di Kafka e di Gide, difese insomma il nuovo rispetto
alla tradizione culturale italiana.
Questo non poteva essere accettato dal Partito comunista (che Vittorini
desiderava come interlocutore). Mario Alicata (ancora lui, quello che esprimeva
riserve su Paesi tuoi) in due articoli su "Rinascita" (la rivista del
PCI), nel 1946, polemizzò contro "Il Politecnico".
In primo luogo: "informare", secondo Alicata, non significava necessariamente
"educare"; educare le masse ad una nuova cultura, per il critico comunista,
doveva essere innanzi tutto recuperare la tradizione culturale italiana, la
tradizione democratico-borghese del Risorgimento, la lingua di Giacomo Leopardi
e Alessandro Manzoni, e collegare tutto ciò con i problemi sociali e politici
attuali, e sulla base di tale collegamento promuovere una unità d'azione fra
intellettuali, ceti medi e movimento operaio.
Invece il programma de "Il Politecnico", riteneva Alicata, era astratto,
intellettualistico, altrimenti non sarebbe stato possibile considerare
rivoluzionario un autore come Hemingway, non sarebbe stato possibile considerare
"nuova" e "utile" la letteratura rappresentata da un tale autore.
Vittorini si rese conto che questa politica culturale era in effetti funzionale
alle scelte politiche del PCI (la strategia mirante all'alleanza con i ceti
medi, a presentare il PCI come un partito nazionale, e quindi legato alla
cultura italiana, poco aperto a esperienze straniere, avanguardistiche,
sperimentali), e sostenne un punto fondamentale: l'autonomia e il primato della
cultura nei confronti delle strategie e delle tattiche politiche.
Palmiro Togliatti intervenne nella polemica, su "Rinascita" (10 ottobre 1946):
contestò la tesi della primato della cultura, affermò il diritto del partito di
esaminare e giudicare gli indirizzi culturali del paese, e, come Alicata, accusò
"Il Politecnico" di cercare in modo astratto (cioè: non collegato direttamente e
concretamente con la tradizione culturale italiana) il nuovo, il sorprendente,
il diverso.
Il conflitto non poté essere ricomposto: "Il Politecnico" cessò le pubblicazioni
nel 1947, e Vittorini nel 1951 abbandonò il Partito comunista. (torna
su)
(2) Del resto, non solo all'indomani della Resistenza, ma
già durante la Resistenza vi è fermento fra gli intellettuali. Il più importante
documento di impegno totale è la lettera che il giovane Giaime Pintor scrisse il
28 novembre 1943, tre giorni prima di morire nel tentativo di raggiungere le
formazioni partigiane.
Vi si legge tra l'altro: "Ad un certo momento gli intellettuali devono essere
capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell'utilità comune,
ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di
combattimento... Musicisti e scrittori, dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi
per contribuire alla liberazione di tutti." (La lettera fu diffusa
clandestinamente, poi pubblicata da Einaudi nel 1946; ora è possibile leggerla
in G. Pintor, Il sangue d'Europa, Einaudi, Torino 1950; cfr. Manacorda,
Giuliano, Storia della letteratura italiana contemporanea 1940-1965,
Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 3 (prima edizione: 1967). (torna
su)
(3) Corti, Maria, Neorealismo, in: Il viaggio
testuale, Einaudi, Torino 1978, p. 35 (torna su)
(4) Cfr. Manacorda, Giuliano, Storia della letteratura
italiana contemporanea 1940-1965, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 4-16
(prima edizione: 1967) (torna su)
(5) Il caso più significativo mi sembra Pavese: la
pubblicazione contemporanea nel 1947 di due opere come Il compagno e
Dialoghi con Leucò è già di per sé un dato rilevante; a ciò si aggiungano i
numerosi interventi saggistici di Pavese, fra cui spicca Ritorno all'uomo,
del 1945 (in Saggi letterari, cit., pp. 197-199), là dove l’impegno
sociale diventa l'ultimo tentativo di vincere la propria solitudine, giacché
"nel popolo la solitudine è già vinta - o sulla strada di essere vinta", vale a
dire il fatto sociale e politico si intreccia, direi appunto spontaneamente, con
la problematica fondamentale di Pavese, e diviene soprattutto fatto
esistenziale. (torna su)
(6) Asor Rosa, Lo Stato democratico e i partiti politici,
in Letteratura italiana, volume primo, Il letterato e le istituzioni,
Einaudi, Torino, 1982, p. 573 (torna su)
(7) Togliatti, indiscusso leader del Partito comunista,
tornò in Italia, dopo diciotto anni di assenza, il 27 marzo 1944. Due giorni
dopo, durante i lavori del Consiglio nazionale del partito, annunciò la linea
che il PCI avrebbe seguito nei confronti della questione monarchica e nei
confronti del governo di Badoglio: il PCI proponeva di rinviare la soluzione del
problema istituzionale a subito dopo la fine della guerra, e intanto proponeva
la partecipazione dei grandi partiti di massa al governo. In altri termini,
Togliatti da un lato si manteneva fedele alle indicazioni di Mosca (l'Unione
Sovietica aveva riconosciuto il governo di Badoglio), dall'altro lato poneva la
questione del diritto del PCI, non più partito settario e di classe, ma partito
nazionale, a partecipare al governo. (torna su)
(8) Così ritiene Asor Rosa [op. cit., 1982: p. 575], che si
riferisce alla tesi di Falaschi [op. cit., 1976: p. 55, nota 2]. Falaschi
scrive: "Fino al 1948 i principi che regolano la politica culturale del PCI
possono essere sintetizzati in questi termini: appoggio a tutte le forme di
ricerca artistica e letteraria purché ispirate ad un sicuro antifascismo, e
appoggio alla creazione di un blocco d'intellettuali di vario orientamento
(marxisti, cattolici, idealisti) purché progressisti; conquista dell'egemonia
culturale da parte dei comunisti. Neppure gli interventi di Alicata e Togliatti
sulla ricerca impostata da Vittorini in “Il Politecnico” possono essere intesi
come una codificazione rigida e precisa di norme e fini del lavoro
intellettuale. Mi pare dunque inesatto, per quel che riguarda questo periodo,
parlare di politica culturale ‘zdanoviana’ [...]."
- Mi sembra che tali tesi siano solo parzialmente esatte: certo, la politica
culturale "zdanoviana" emergerà in seguito, per il momento manca una rigida
codificazione da parte dei dirigenti del PCI, e tuttavia quella egemonia
culturale, che i comunisti cercarono fin dall'inizio di realizzare, costituì
senz'altro la base della successiva politica culturale "zdanoviana", a partire
dal 1949. (torna su)
(9) Corti, op. cit. 1978, pp. 32-33 (torna
su)
(10) Si ricordi la recensione di Alicata a Paesi tuoi
di Pavese: con acutezza Asor Rosa [op. cit., 1982: p. 571] osserva che nelle parole di Alicata "c'è anche un'impressionante anticipazione dell'accusa che i critici
comunisti rivolgeranno agli scrittori neorealisti nel dopoguerra, a causa,
appunto, dell'approssimazione e della genericità delle categorie teoriche 'realistiche',
a cui essi fanno riferimento." (torna su)
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