Il contributo di Thomas Mann

Il contributo di Thomas Mann

I - II

Thomas Mann

Dario Lodi


Molto interessante, in Thomas Mann (1875-1955) lo studio della formazione umana in funzione di quella spirituale. Determinante, in questo senso, il suo testo La montagna incantata: sono pagine di difficile composizione concettuale, come è tipico nella cultura tedesca, risolta, si fa per dire, in mille rivoli possibilistici soffocati da un pessimismo altrettanto tedesco. Gli è che Mann era figlio di un ambiente rigido (il padre protestante, la madre cattolica: entrambi molto praticanti) sempre alle prese con un senso di colpa interiore risalente ai tempi della Riforma religiosa. L’allontanamento dalla Chiesa romana aveva comportato per i tedeschi un senso di inadeguatezza morale e intellettuale che infine sfociò nel monumentale impegno filosofico rappresentato da Kant e Hegel, rielaboratori, per così dire, della grande filosofia greca classica. Un impegno più portato all’involuzione che all’evoluzione del pensiero, intendendo questa involuzione come un fatto riflessivo estenuante quanto, in parte, proficuo per il progresso speculativo umano.

Thomas Mann pare assumere su di sé sia i lati positivi che quelli negativi del pensiero tedesco, soffrendo parecchio per i secondi in quanto dimostrazione di una sottile impotenza espressiva rispetto alle potenzialità del pensiero stesso.

Lo scrittore tedesco gira intorno alle questioni di fondo con attacchi di panico e di angoscia a causa della presunta povertà delle proprie proposte riguardo il problema che è esistenziale, ma che ancora di più è vitale.

Il fenomeno si ripete con dinamiche non molto dissimili ne I Buddenbrook, in Morte a Venezia, in Giuseppe e i suoi fratelli, insomma in tutta la produzione di Mann, evidentemente preoccupato di non riuscire ad esprimere adeguatamente i propri tormenti. Una esposizione adeguata avrebbe consentito un vero e proprio trionfo e magari il superamento del problema, per lo meno la sua perfetta illuminazione e la sua opportuna cattura. Intendiamoci, Thomas Mann possiede una scrittura molto curata e molto accattivante.

E’ probabilmente la ponderosità dei suoi interventi letterari ad attrarre, molto più della bellezza della sua scrittura. La seconda appare affaticata perché lo scrittore vive intensamente quel che scrive e non possiede la chiave necessaria per attenuare questa intensità. Grande passione, dunque, e grande accanimento verbale che portano ad una prosa barocca, straricca di immagini che si manifestano a metà. La passione è forse eccessiva ed impedisce un ordinato svolgimento speculativo, per cui le tematiche sono continuamente accennate e non sviluppate. Per lo meno non sono sviluppate in maniera originale se non nella trattazione.

Non si tratta di un modo diverso di vedere le cose, bensì di un modo molto più vivo del consueto. Le teorie di Mann, proposte soprattutto ne La Montagna incantata appartengono alle discussioni del tempo, riferendosi ad una vera e propria reinvenzione del mondo da parte di un uomo chiamato a liberarsi dalle protezioni metafisiche: come fare in un mondo improvvisamente concreto? Che fare delle vecchie garanzie fantastiche o ipotetiche?

C’è nell’opera di Thomas Mann un richiamo romantico, di un romanticismo ripiegato all’ingiù, sfiduciato, ma orgoglioso, che si mette di traverso e che annebbia la vista del nostro scrittore, portandolo alla soglia di un decadentismo (allora di moda) sostanzialmente inerte. Mann arriva a subire. Mann si sottomette. Ma al momento giusto reagisce, non tanto perché la reazione possa portare alla vittoria, quanto perché la reazione stessa è doverosa per il decoro dell’uomo. Lo scrittore, quando reagisce e lo fa con fierezza, reagisce per conto dell’intero genere umano, genere umano chiamato ad una nuova vita con urgenza per dimostrare che il prometeismo in atto, grazie alla rivoluzione industriale, ha senso e deve essere completato.

A questo punto, Mann si ritrova con una specie di muro insormontabile, fatto di convenzioni, di viltà e di ipocrisie che, ai suoi occhi sensibili, si rivelano più grandi di lui. Accettare questa grandezza? Mettere la coda fra le gambe? Sono domande rozze per una personalità come quella di Thomas Mann. L’eleganza del suo pensiero, la profondità del suo sentire, gli impediscono rese senza combattere, specialmente se il nemico è visibilmente indegno. Mann, allora, assume un proprio atteggiamento combattivo. Lo assume malvolentieri, lamentandosene interiormente. E’ una sorta di contrasto interno da cui è impossibile uscire vittoriosi. Né lo scrittore tedesco cerca la vittoria. E’ rassegnato a non cercarla e quindi si limita a porre le questioni. Ma, infine, la proposta è sostanziosa e va a scuotere l’inerzia del sistema. Per lo meno lo fa vibrare. Dalle vibrazioni qualcosa uscirà. Qualcosa di buono, magari: un maggior rispetto per se stessi e per la realtà da costruire. E’ il pensiero e l’augurio che sotto sotto Thomas Mann porge all’umanità con un inchino.

La testimonianza di Thomas Mann

I Mann importanti sono tre: Heinrich (1871-1950), Klaus (1906-1949) e Thomas (1875-1955), fratello del primo e padre del secondo. Forse il più interessante dei tre è Heinrich per la sua decisione di abbandonare ogni forma di conservatorismo e di abbracciare un socialismo democratico di stampo quasi religioso in opposizione al degrado sociale sfociato nel nazismo. Molto efficace la sua scrittura ironica e amara (da ricordare almeno la sua lunga novella Il professor Unrat, da cui fu tratto il film “L’angelo azzurro”). Sfortunata, invece, la vita di Klaus, scrittore a sua volta (La svolta, fra l’altro), morto suicida perché morta gli era apparsa la civiltà tedesca a seguito della Seconda guerra mondiale. Thomas Mann campeggia sui tre per la mole della sua opera e per certe narrazioni intellettualmente assai avvincenti.

Probabilmente il vero fascino di Thomas Mann sta nella perentorietà con cui egli affronta i problemi. Questa perentorietà ha un preciso ascendente aristocratico, dato dalla famiglia, e condiziona l’impianto concettuale. Lo scrittore tedesco crea come una gabbia entro la quale fa convergere il suo discorrere: lo scrittore tedesco dà un ordine a priori, a bocce ferme, e muove il tutto secondo precise regole dialettiche di stampo accademico, sia in senso formale sia in senso concettuale. La gabbia di Thomas Mann è una forma di conservazione del pensiero collaudato, con la conseguenza che, partendo da determinati presupposti, da determinati riferimenti, è possibile procedere a disamine raffinate, ponendosi all’interno della materia da esaminare.

Avviene, specie nella mentalità tedesca – vedi la sua filosofia ottocentesca -, un fenomeno per cui già in partenza si deve sapere cosa è possibile cercare e con quali finalità. Il fatto letterario diviene quindi un’analisi di cui si è certi dell’esito, per quanto il pensiero possa essere ribelle. Il primo esempio del modo di procedere (forse addirittura inconscio) di Thomas Mann si ha con I Buddenbrook, del 1901, dove egli narra la caduta di una famiglia della grande borghesia (in qualche modo aristocratica) in gente della piccola borghesia. Il racconto, che si dipana nelle vicende di quattro generazioni, ha una vocazione autobiografica: evidenzia la fine di un mondo al quale l’autore teneva per motivi più nobili che pratici.

L’aristocrazia dell’espressione è un modo collaudato per dare certezza all’enunciato. Essa si determina con una forma che è prodotto di concetti resi dominanti da un certo esercizio. Il tutto è la parte esteriore di una metodologia esoterica, di un codice accademico chiamato a definire la verità prima. Arte e scienza ne fanno parte nella misura in cui si considera l’accademismo assolutamente attendibile. La filosofia del ‘900 metterà in discussione questa certezza (ad esempio, Wittgenstein, Popper).

Thomas Mann è un fedele servitore della mentalità accademica classica: lo dimostrerà ampiamente nei suoi numerosi scritti, a partire da Tristano (1903), una raccolta si racconti peraltro strepitosa (contiene Tonio Kröger), quindi il romanzo Altezza Reale (1909) e La morte a Venezia (1912); quest’ultimo, lungo racconto, è uno degli emblemi del Decadentismo, visto in un disfacimento di valori che porta il sentimento ad essere malattia. Lo scrittore tedesco risolve così un dialogo interiore fra vita borghese e vita ideale. Il suo appare un atteggiamento eccessivo, debordante, perso in un compiacimento estetico per pochi eletti.

Nel 1924 lo scrittore tedesco licenzia La montagna incantata, dopo dodici anni di duro lavoro. E’ quest’opera, erudita e confusa, sviluppata su molti piani, fra cui quello moralista e retorico del personaggio Settembrini, confluenti in un finale nichilista con cui l’autore sembra voler sottolineare la vanità del tutto. Romanzo di formazione tipicamente tedesco, esso sfocia in un disagio per l’inspiegabile andamento delle cose. Tutto sembra casuale e provvisorio, l’uomo di Thomas Mann è alla mercé della realtà, nonostante la sua preparazione intellettuale.

Non si sa quanto il nostro scrittore fosse convinto della sua tesi. Altro discorso è quello di Musil (L’uomo senza qualità), il quale giunge alla medesima conclusione, ma come ipotesi disperata, non come tesi. La differenza fra i due è che Musil vive sentimentalmente ciò che scrive, mentre Thomas Mann vive ciò che scrive razionalmente, quasi freddamente. Egli giunge ad una morale negativa perché le esigenze culturali del tempo la esigevano come reprimenda esemplare nei confronti della superficialità borghese. E’ il colpo di coda del Romanticismo, tramutato in Decadentismo dall’autoflagellazione eseguita dagli intellettuali perché inascoltati dal sistema.

La borghesia trattiene qualcosa del mondo aristocratico come rappresentanza e reliquia. Non conosce la ragione del trattenimento, ma esegue con la certezza di fare bene. Formalmente la questione è salva. Esistono vari premi, fra cui il Nobel (nel 1929 fu dato a lui), con cui ci si mette a posto la coscienza: le imprese dianoetiche vengono tenute in conto, anche se non si sa con quanta convinzione sostanziale. Innumerevoli sono gli scrittori che, ai margini del sistema, non vengono presi in considerazione. Vince una certa schematicità ben supportata.

Thomas Mann scrive così bene? La sua prosa è complicata, i concetti sono enigmatici, ovvero vengono resi tali da continue descrizioni e digressioni. C’è una straordinaria forza narrativa che spesso però si consuma in erudizioni fini a se stesse, in virtuosismi. Nel fondo sussiste una pesantezza compositiva, si direbbe una durezza che è tipica della mentalità tedesca. C’è nello scrittore tedesco una presunzione involontaria, ingenua, che lo salva dalla banalità.

Thomas Mann scrisse ancora molto dopo il suo capolavoro, in particolare Giuseppe e i suoi fratelli (in cinque libri), dove paragona alcuni personaggi a quelli attuali, a scopi derisori causati da politiche, secondo lui, dissennate. Né si fece mancare la rivisitazione del mito di Faust (Doktor Faustus) mentre davvero lodevole è l’omaggio a Goethe (Carlotta a Weimar) di cui egli si sentiva il solo erede. Molto altro ancora, fra cui numerosi saggi di grande impatto suggestivo. Un gigante, dunque Thomas Mann: tuttavia c’è la sensazione che avrebbe potuto dare ancora di più e meglio sul piano dell’approfondimento. Ma così avremmo avuto a che fare con un genio.

Dello stesso autore:

Testi di Thomas Mann


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019