I PARADOSSI LEOPARDIANI
In margine al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani
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Quando, probabilmente nel 1824, scrisse il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, Leopardi era già in pieno "pessimismo cosmico", benché avesse preso contatti col gruppo fondato da G. P. Vieusseux, in cui collaboravano intellettuali progressisti come Manzoni, Mazzini, Tommaseo, Capponi... Anzi, forse proprio questo rapporto, che gli permetteva non solo di esibire la propria straordinaria cultura ma anche, in fondo, di sopravvivere economicamente, lo indusse a non pubblicare il suddetto Discorso, che non poteva non apparirgli troppo crudo o amaro rispetto alla fiducia nelle riforme che nutriva il circolo fiorentino, specie dopo i moti carbonari del 1820-21, che per la prima volta in Italia avevano scosso la credibilità restauratrice (e, considerando la Santa Alleanza, persino reazionaria) del Congresso di Vienna. Il Discorso, rimasto addirittura inedito sino al 1906, è un'esaltazione acritica dell'età antica, in specie la greca omerica, della quale il Leopardi vedeva solo gli aspetti immaginifici del mito e non le contraddizioni sociali, e che voleva contrapporre a qualunque altra età successiva, inclusa quella medievale, troppo condizionata - a suo parere - da una religione politicizzata. L'Umanesimo, il Rinascimento, l'Illuminismo vengono salvati solo nella misura in cui riprendono le fila di un discorso che i "secoli bui" avevano interrotto. Peraltro negli anni 1824-26 Leopardi non solo era lontanissimo da qualunque concessione al misticismo (e già questo, in un certo senso, può apparire paradossale in un uomo che non poteva non vedere nell'ingenuo spontaneismo greco - ammesso e non concesso che fosse tale - un legame molto forte con credenze e superstizioni di tipo religioso); egli era anche arrivato a pensare che la natura non fosse affatto una forza benefica, bensì, al contrario, un cieco meccanismo di perenne trasformazione della materia, causa di estrema infelicità dell'intero genere umano. E anche questo non può non apparire paradossale in un uomo che amava le civiltà più antiche e che, ad un certo punto della sua vita, era giunto a vedere la natura come una vuota e cieca potenza del male. Evidentemente al Leopardi doveva difettare un'analisi critica degli sviluppi storici delle società. Infatti, come del mondo greco non aveva mai visto (o voluto vedere) le condizioni oppressive o quanto meno discriminatorie in cui vivevano schiavi donne e meteci, così della sua propria epoca egli scorgeva soltanto una ragione egoista e calcolatrice (sorta con lo sviluppo della borghesia), la quale si opponeva alle esigenze incontaminate di madre natura, alla quale però, proprio a partire dal 1824, egli inizierà a rinfacciare lo stesso comportamento cinico e spietato della ragione; nel senso che se per mezzo di questa uomini egoisti e senza scrupoli finivano col distruggere tutto, in realtà a ciò erano inclinati dalla stessa natura, che non mantiene mai ciò che promette. Vi è qui un nuovo paradosso, poiché proprio mentre il poeta sembrava maggiormente interessarsi a temi politici, sociali, antropologici ("i costumi degli italiani"), ciò che invece esprimeva, a proposito del Discorso, sembrava allontanarlo da qualunque interesse politico, non potendo per lui esistere alcun sistema razionale della cosa pubblica in grado di eliminare l'infelicità insita alla vita stessa, anzi all'intero universo. In Italia poi meno che mai, non esistendo qui una società, un costume collettivo o degli "eroi" in cui riconoscersi, una letteratura e un teatro nazionali, una capitale riconosciuta. Delle classi "non bisognose" Leopardi dice peste e corna. Leopardi in verità è pieno di questi paradossi: basti pensare che gli Idilli migliori li scrisse nella sua odiatissima Recanati. Egli non riuscì mai a capire che proprio a partire dalla nascita della civiltà, la natura era stata sottoposta ad attacchi durissimi da parte della ragione (commercializzata) di uomini stanzializzati e che il vero momento in cui si cercò di ristabilire un certo equilibrio, dopo gli sconvolgimenti epocali del tardo impero romano, fu proprio durante il periodo medievale, pur caratterizzato da servaggi e clericalismi. E' incredibile che un intellettuale per natura controcorrente, rispetto ai liberali del suo tempo, non avesse capito il risvolto "naturalistico" del Medioevo, che non meritava certo d'essere bocciato solo perché condizionato da un credo politico-religioso. Quando guardava alle favole del mondo greco Leopardi era di un'ingenuità sconcertante, mentre quando soppesava il rigore medievale, il proprio ateismo illuministico lo rendeva irrimediabilmente ideologico. In quanto ateo era più avanti dei romantici sentimentali e misticheggianti, e però non sapeva usare questa forma di realismo per analizzare le contraddizioni sociali della realtà. Era illuminista per il suo rifiuto delle caste sacerdotali e dei monoteismi che avevano - secondo lui - fatto perdere l'antica innocenza (come se il Medioevo non fosse nato proprio a causa dell'illusorietà di quella sbandierata innocenza!); però in maniera del tutto antistorica applicava il mito del "buon selvaggio" al concetto di "civiltà antica", senza rendersi conto che l'unica innocenza davvero vissuta era stata quella dell'uomo che di "civile" o di "storico" non aveva nulla. Senonché, proprio per questo sguardo rivolto al lontano passato delle prime civiltà intellettuali, dove il politeismo era sentito in maniera poetica, egli restava anti-illuminista, in quanto negatore delle "magnifiche sorti e progressive" celebrate dalle illusioni moderne, quelle rivelatesi tali proprio con gli esiti terroristici della rivoluzione francese e con le mire predatorie dell'impero napoleonico. Ai romantici aveva detto, in un primo tempo: siccome non possiamo più tornare all'età aurea degli ellenici, non ci resta che mettere il sentimento in poesia, sperando di poterci avvicinare a loro il più possibile; poi, quando s'accorse che anche questa operazione era vana (non tanto perché si limitava a guardare indietro, mentre i romantici volevano guardare avanti, verso l'unificazione nazionale guidata dalla borghesia, quanto perché è la natura stessa che - secondo lui - ci rende frustrati; e c'è chi ha giudicato "nichilista" questa posizione), lancia infine l'idea di compiere un'opera di resistenza morale contro la disperazione collettiva, la disillusione universale, la strutturale impossibilità a essere se stessi, a soddisfare i propri desideri, specie in un contesto sociale ove andavano emergendo i valori utilitaristici della borghesia. Infatti, tutto il Discorso è una prolissa critica a un ceto sociale che, per il modo gretto e meschino in cui si comporta, non è assolutamente in grado di realizzare un "costume nazionale". Anche in questo era assai poco romantico, cioè lo era solo di striscio, come lo era stato prima, quando parlava di poesia sentimentale. Se vogliamo usare l'immagine della secante, che attraversa il circolo Vieusseux da una parte all'altra, bisogna dire che Leopardi ha vissuto così velocemente il romanticismo risorgimentale da uscirne fuori anzitempo, prima che esso manifestasse, in lui e nel paese, tutte le proprie potenzialità. Il "filosofo e filologo di rarissima eccellenza, prosatore più che sublime, ma poeta incomparabile" - come lo definisce l'amico Ranieri nel suo necrologio - aveva bruciato le tappe e, ad un certo punto, come un Titano che lotta contro l'insignificanza della vita, contro il prevalere del non-essere, s'era trovato ad essere post-romantico, più vicino alle posizioni filosofiche dei futuri veristi e realisti, degli scrittori amanti del paradosso e dell'assurdo, come ad es. Pirandello, come i fautori della noluntas shopenhaueriana. Senza volerlo, egli aveva posto le basi, non come poeta ma come filosofo, a una narrativa disincantata di denuncia sociale. Basta vedere con quanta lucidità faceva a pezzi i vantaggi delle grandi città rispetto a quelle piccole come la sua Recanati. "Gli uomini sono sempre mascherati... non solo per finzione, ma anche per carattere acquisito". Giudizi analoghi a questo (del citato Discorso) si trovano anche in una lettera del 1822, ch'egli da Roma aveva spedito al fratello Carlo: "L'uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o facoltà di rapporto è limitata". Una considerazione, questa, che potremmo far nostra ancora oggi, molto tranquillamente. Fu proprio Roma, la prima delle grandi città visitate, a fargli capire che il suo "borgo natìo" non era poi niente male. Tuttavia, come s'è detto, proprio mentre parlava dei vantaggi dei piccoli centri (dai quali comunque non sarebbe potuta venir fuori l'unificazione nazionale), nel suo Discorso la vicinanza alla natura viene risignificata in termini del tutto negativi. Ma la cosa ancora più curiosa (e qui raggiungiamo davvero l'apice) s'impone quando, proprio mentre era arrivato a negare alla natura qualunque funzione positiva, egli non scelse, per la disperazione, la strada del suicidio, ma, al contrario, quella della solidarietà umana. Il suicidio sarebbe stato un darla vinta alla natura; invece la resistenza ad oltranza voleva essere un segno di orgoglio personale, di nobiltà d'animo. Cosa che certamente - non ce lo nascondiamo - poteva apparire, a chi avesse creduto - come lui - all'esistenza di una natura davvero "matrigna", non meno illusoria di quella che lo spingeva a vedere nei greci anzitutto l'Iliade e l'Odissea. Che poi non è neanche vero che nel Discorso l'interesse per la politica si limiti a un rilievo ironico delle insufficienze dei liberali e progressisti italiani. Non è che Leopardi non si sforzi di fare un discorso in positivo; il fatto è che, guardando la situazione di una penisola ancora divisa in tanti staterelli, non gli riesce proprio. Secondo lui agli italiani mancavano le qualità per andare oltre il loro particolare, le strette contingenze del presente. E' difficile però chiedere a lui di fare chiarezza sul tipo di nazione ch'egli s'immaginava. Quella aristocratica dei grandi proprietari terrieri, del papato e, in piccolo, del suo stesso casato (in decadenza) gli faceva orrore; quella contadina dilagante la disprezzava, perché troppo ignorante e bigotta, se non addirittura sanfedista; quella borghese la temeva e la guardava con molto scetticismo, poiché era convinto che la ragione affaristica avrebbe peggiorato la qualità dei rapporti umani. Sul piano politico era lui stesso ad aspettarsi chiarezza dagli altri, ma gli cadevano le braccia quando vedeva che chi studiava i costumi degli italiani non erano i filosofi o i politici, bensì i comici e i satirici, come Goldoni, Parini e Gozzi. Dunque forse anche per questo, dopo aver scritto il Discorso, lo tenne nel cassetto. |
Scheda su Leopardi - Commento all'Infinito - Contributo di Andrea de Lisio
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