MARIO BOCCHINI
pittore cesenate, artista senza confini


IO, UN UOMO

I - II

Se fu vero per Protagora che «l'uomo è misura delle cose», anche per me l'affermazione è valida, ritenendomi, come uomo, un umanista, nel senso di sentire ed aver coscienza, nel mio vivere, di una quotidiana scoperta dei valori umani.

A completarmi, così come Protagora, Jacques Monod mi suggerisce che «l'uomo finalmente si è accorto di essere solo nell'immensità indifferente dell'Universo, dal quale egli è venuto fuori per caso. Egli non ha un posto stabilito, e il suo destino non è fissato in alcun modo. Tocca a lui scegliere...» (J. Monod, Le Hasard et la nécessité, Ed. Le Seuil) (1).

E' vero che antica è la tragedia della solitudine umana, ma per essa quotidianamente ancora si rinnova e mi ritrovo solitario quindi a cercar la via, a crederci, a dubitarne ed a rinvenir me stesso.

Faticoso sempre, questo rinvenimento, per il succedersi giornaliero delle «distrazioni», ed è amaro, la sera nella quale t'accorgi che nulla ti è successo, concludere che nulla ti va succedendo.

Poiché troppo spesso oggi capita di non essere capaci di aver tempo per l'analisi dei fatti e la obiettiva reazione.

Affermavo che si è soli: ma ce ne accorgiamo soltanto verso la fine della giornata, quando di essa non abbiamo saputo o potuto cogliere nulla, se non qualche fenomeno emozionale, per di più racchiuso in una temporale brevità abortiva.

Talora per non perdermi tra le idee e le cose, nell'immensità dell'universo, nella solitudine umana che ci fa sentire vero l'insegnamento ungarettiano che «la morte si sconta vivendo», mi ritrovo quasi in ogni istante - nella attuale società, così arida e così tarpante del vitale primigenio patrimonio di ognuno - a riavvicinarmi alla vita solo attraverso la sua minuziosa ed appassionante riscoperta.

Perciò dipingo.

Se la solitudine mi è sorella, se più che da una famiglia da essa sorgono le mie tele; se i miei porti sono gelati, se i miei alveari sono nebbiosi, così come la vita di quasi tutti gli esseri umani; se sulle acque di New York o di Haifa non distinguo neppure con fatica l'impulso a dilatarsi del consorzio umano e a trovare una dimensione autentica nella realtà che il mondo moderno offre al singolo; se le luci nebbiose stagliano profili, a tutti noti, di soffocanti, colossali colate di cemento; è altresì vero che io non ci vedo neppure un tentativo di rivolta contro quella luce monotona, contro quel grigiume sempre identico.

Città di fitte creste, bloccate in cieli senza altezze, io vi vedo e vi sento; vi avverto come baluardi in cui si trincea un'umanità che appare priva di alcunché di umano, che non sembra fatta altro che per uomini incapaci sempre di difendersi da una solitudine senza uscita: io vi descrivo. Mi sembrate giocattoli rotti, lividi per i neon, pieni di sensi vietati, in città ammirate di cemento, pigiate per sopravvivere senza sapere fino a quando e perché.

Guardatevi!

Rivedo poi altre mie tele, nelle quali metto tanta speranza: cieli sgombri e infinità marine, silenzi di un assoluto in cui vive la nostalgia ancestrale di legni squarciati alla riva, ove sanno riposare, ove urlano la vita di cui sono ancora pieni - ancorché morti - senza ombre che non sian di luci; fiori di una vita antica assai più dell'uomo, di ieri e di oggi, vivi per il cuore e per il sogno. Riguardo quelle tele, nelle quali non figura alcunché del linguaggio tecnico-profanatore dell'uomo d'oggi, prive di ferro, senza acciaio e senza orrido cemento.

Se non vedete, se non sentite come io sento queste due solitudini, moderna ed antica, volgete gli occhi. Lasciate solo anche me, con le mie luci ferme in un tempo quasi onirico, nel quale ho fede di riincontrarmi e riscoprirmi migliore, laddove un fiore è un colore, la barca un sogno, un remo la vita.

Lasciatemi solo: dipingerò sempre perché è così che io parlo e comunico con l'uomo.

Forse rischio di essere un poeta, ma lasciatemi nuovamente solo: non invidio il sordo parossismo consumistico che vi divora; anzi esso accentua il mio distacco e mi convince di essere in una autentica dimensione umana.

Ma questo che io guardo, mare di mare o mare di cemento, è anche sotto i vostri occhi. In che modo e quanto l'uno o l'altro divengono vostri, come lo sono diventati per me?

Mario Bocchini

(1) J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori 2001

Dipinto di Mario Bocchini


Mario Bocchini nel 1962


Mario Bocchini nel 1963


Mario Bocchini nel 1964


Mario Bocchini nel 1964 a Gerusalemme


Mario Bocchini con Ruggero Orlando nel 1968


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 27/08/2015