ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


Arte medievale

I - II - III - IV

Giotto, Cacciata di Gioacchino, Bacio di Giuda, Cappella degli Scrovegni - Padova
Esequie di S. Francesco (part.) Cappella Bardi, Santa Croce – Firenze

Dario Lodi

Giotto è un riferimento culturale pari a Dante. Vissero nello stesso periodo, a cavallo fra XIII e XIV secolo. Il Medioevo passionale e irrazionale volgeva al termine, essi ne accelerarono il corso verso l’Umanesimo, di cui il Petrarca, di poco posteriore ai due, comincerà a stabilire le direttive con precisione.

Le tre immagini scelte sono un vero e proprio percorso della maturazione artistica di Giotto, oltre ad essere considerate totalmente di sua mano. Le prime due sono divise da pochi anni, forse solo due, mentre la terza è della sua età matura. Quest’ultima è un particolare, mancando l’ascesa dell’anima di S. Francesco, accompagnata nel suo viaggio verso il cielo da una schiera di angeli. E’ piuttosto rovinata, l’ascesa, ed è un richiamo edificatorio, consolatorio forzato rispetto al resto dell’opera, e precisamente al suo nucleo raccolto in due figure, quella del Santo e quella del frate che prega a mani giunte appena sopra di lui.

Sono tre affreschi. Il primo si riferisce alla cacciata di Gioacchino, marito di S. Anna e più tardi padre di Maria (l’agiografia vuole che quest’ultima fosse stata concepita con un bacio) a cura di un sacerdote, tale Reuben, perché in quel momento Gioacchino era sposato senza figli (chi era in tali condizioni non poteva sacrificare). Maria, madre di Gesù, verrà più tardi.

Il secondo affresco si riferisce al bacio di Giuda. Visione straordinaria, minacciosa, con quelle lame alzate verso il cielo. Giuda appare in buona fede, mentre protegge Gesù con il suo mantello. Il protetto si sente al sicuro, ha trovato finalmente mani amiche. La scena è molto umana, più umana che divina.

La terza opera, di cui qui è colto un particolare, ritenuto il più importante da chi scrive, è intitolata ora la morte di S. Francesco, ora le esequie del Santo perché con il primo titolo esisteva già una delle ventotto scene (la ventesima) di un ciclo di affreschi situato nella Basilica Superiore di Assisi. E’ di molto anteriore alla scena proposta e si concentra maggiormente sull’ascesi del corpo del Santo, rispettosa di certi stilemi tardo-medievali.

Giotto passa da una pittura tradizionale, corroborata dalla sua volontà di considerazione dei fatti, come una sorta di commento personale, alla necessità di offrire una scena forte, capace di suscitare risentimento, infine alla decisione di trovare un attimo di commiserazione per ciò che è stato chiamato a descrivere.

Nel caso della cacciata di Gioacchino, i simbolismi sono elementari, i gesti decisi: è nuova la figura del padre di Maria nel senso che traspare da essa un calore umano assai poco frequentato a quei tempi. Gioacchino non è offeso, è deluso. Il pittore gli costruisce intorno un ambiente serio, ma nello stesso tempo fiabesco, grazie al ricorso di colori fiammeggianti. Gioacchino si era illuso di far parte della fiaba, ma ne è allontanato.

Il bacio di Giuda è un dipinto assai movimentato, ma si tratta di un movimento più suggerito che dichiarato. Giotto non indugia con scene madri, ma pianifica la scena avvalendosi di un’ispirazione spirituale che umanizza, condividendo con il sacro il dolore per il suo maltrattamento. Così il lavoro svolto diventa un lavoro partecipato e personalizzato: una novità assoluta nel Medioevo.

Perché la partecipazione umana abbia significato e perché l’osservatore si senta coinvolto nell’evento nella maniera più diretta possibile, Giotto dipinge i personaggi con abiti moderni e si rifà ad architetture riconoscibili: in tal modo, le inserzioni trascendentali assumono una credibilità sin lì sconosciuta, aiutando la fede e aiutando l’umanità a comprenderla, facendola diventare parte della propria vita.

La terza opera, essenziale, persino “tirata via”, è straordinaria per incisività e per senso di verità. Giotto smette ogni “ricamo”, si concentra sul fatto nudo e crudo da cui ricava il massimo valore morale, costringendo l’osservatore, pur senza forzarlo, a meditare sentimentalmente e razionalmente sulla tragedia che si è appena consumata.

L’intensità del frate che sta di fronte al Santo è quanto di più alto riesca a esprimere il Medioevo presente a se stesso, al messaggio religioso che ne permea la sussistenza. All’improvviso, l’uomo trova modo di tesaurizzare il senso della fede, ne scova il significato implicito, raggiunge il senso della spiritualità.

San Francesco muore e lo spirito si ferma sull’istante a meditare se stesso, trova la forza di farlo, trova il coraggio di riuscirci. Non si celebrano le esequie del Santo quanto si mette in atto una cerimonia intima fatta di riflessioni profonde e di tanta commozione partecipata con intensità, per nulla piegata alla svenevolezza.

Con Giotto, l’uomo medievale si alza idealmente in piedi e procede sulle proprie gambe verso la conoscenza e la familiarità con quella parte di se stesso sino a ieri piegata di fronte al totem da lui stesso creato come rifugio per la propria impotenza metafisica. Ora la trascendenza è ammessa come “cosa” che esiste e non come fantasia in cui sperare. Il problema di come gestirla nascerà poco più tardi, con l’Umanesimo vero e proprio del Quattrocento.

Giotto ha condizionato molto l’arte pittorica. Fra i suoi allievi e seguaci, in tutta Italia (il Maestro toscano viaggiò parecchio) vanno almeno ricordati Taddeo Gaddi, Puccio Capanna, Maso di Banco, Giusto de’ Menabuoi, Altichiero, Giovanni da Milano, i fratelli Lorenzetti.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019