UOMO E DONNA
Psicologia dell'umana convivenza


COMMENTO ALL'ARTICOLO SULL'EUTANASIA

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Tu dici che la medicina considera l'uomo come una macchina e che essa "non s'è mai preoccupata di darsi dei valori alternativi, s'è trasformata in un tecnicismo privo di contenuti etici e umani." Sono d'accordo: occorre uno statuto etico (anche) sull'eutanasia. Ma chi lo deciderà? Non certo il singolo medico può decidere quando staccare la spina. Deve comunque esserci una legge che, dopo aver preso in considerazione la casistica più completa possibile (eppure sempre aggiornabile: di qui la non definitività di alcuna legge e nemmeno di questa sull'eutanasia), stabilisca quando un uomo può decidere di interrompere la propria esistenza.

E' chiaro che la presentazione della casistica ai giuristi va fatta da esperti in medicina, e dovranno partecipare a un dibattito pubblico in vista della formazione della legge in esame, anche filosofi e altre personalità della cultura (magari anche della religione, ma non delle gerarchie ecclesiastiche, semmai solo dei teologi esperti in bioetica). Voglio dire che la nascita di una legge deve fondarsi su un dialogo che continui anche dopo, in vista di modificazioni successive.

E' ovvio che un uomo può decidere di continuare a vivere in qualunque condizione, anche la più grave. Ma se ha deciso di morire, una legge potrà aiutarlo solo se lui rientra in un caso grave, secondo la casistica che gli esperti potranno definire.

Faccio un esempio personale, per chiarire meglio. Io a causa di una caduta sono diventato disabile. All'inizio, quando ero a fare la prima terapia riabilitativa, ero depresso, stanco, volevo morire, non avevo le cognizioni mediche per capire che avrei potuto riprendere a camminare sia pure con l'aiuto di stabilizzatori e tripodi.

Non speravo nemmeno di potermi mettere in carrozzina, data la mia immobilità in quelle settimane. Allora chiesi a una dottoressa se c'era un farmaco che mi facesse morire. Lei rispose che non era possibile e che dovevo vergognarmi perché altri stavano molto peggio di me e non avrebbero mai ottenuto la ripresa sia pure parziale che in seguito effettivamente ottenni.

In un caso come il mio, anche se ci fosse stata una legge sull'eutanasia, quest'ultima mai avrebbe dovuto permettere a me di decidere (così irrazionalmente e nell'ignoranza sulle possibilità di ripresa fisica) di mettere fine alla mia vita per mezzo di un farmaco. Tutto questo per dire che vi sono condizioni obiettive di una vita ancora degna di essere vissuta.

Ma cosa dire di casi gravissimi? Malati terminali con gravi continue sofferenze, senza un attimo di pace, o disabili del tutto immobilizzati, ed altri casi che non riesco nemmeno a immaginare. Questi devono poter scegliere liberamente, anche prima, con un testamento biologico, se vogliono continuare a vivere o preferiscono la "dolce morte".

Tu parli, Enrico, di una rimozione da parte della società della "esperienza del dolore". Ricordo la frase di un intellettuale (ma ahimè non il suo nome) che diceva che il dolore è quasi sempre inutile. Ciò vuol dire che vi sono casi in cui il dolore fa maturare chi ne è colpito, ma sono casi rari. Generalmente il dolore è una esperienza di cui faremmo volentieri a meno, anzi la scienza medica dovrà prima o poi far scomparire il dolore fisico dal mondo, con terapie appropriate.

Se devo essere del tutto sincero, io ho visto (e ho ascoltato storie su) molti malati che soffrivano, diventare peggiori e non migliori, a causa del dolore.

Sottoscrivo pienamente il punto in cui dici:

"Non si può costringere nessuno all'eroismo o a far da "cavia" per il bene della scienza; né si può concedere alla medicina il potere di fare sui malati terminali quelle terapie ch'essi non vogliono. La persona è più importante della malattia, anche se la medicina può fare miracoli."

Leonardo Monopoli


Foto di Paolo Mulazzani

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Uomo-Donna
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Aggiornamento: 14/12/2018