UOMO E DONNA
Psicologia dell'umana convivenza


Diritti e doveri ai tempi del “bio-diritto”
Alcune variazioni sul tema del testamento biologico

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a cura di Andrea Mondini

Per il sopravvissuto, vi è nella morte d'altri la sua sparizione e la solitudine estrema di questa sparizione.
Penso che l'Umano consista precisamente nell'aprirsi alla morte dell'altro, a preoccuparsi della sua morte.
Quello che dico qui può sembrare un pensiero pietoso, ma sono persuaso che attorno alla morte del mio prossimo si manifesta quella che chiamo l'umanità dell'uomo.
Emmanuel Levinas

“Diritto a non morire” o “dovere di vivere”?

L'editoriale pubblicato nel precedente numero di questa rivista sul discusso disegno di legge relativo al “testamento biologico” (approvato dal senato il 26 marzo 2009, e al momento in cui scrivo – dicembre 2009 – in discussione alla Camera) suscita qualche riflessione. Anche il giurista più moderato, nell'avvicinarsi a questa proposta legislativa nel modo il più possibile “neutro”, scevro di pre-giudizi politici, ideologici, religiosi o morali, credo che non potrebbe, nonostante tutto, non provare un senso di straniamento e di inquietudine. Vi è, nel disegno di legge, una “zona d'ombra” che si attesta oltre le già puntualissime critiche avanzate su questa rivista (e che toccano questioni assai rilevanti come il rispetto della libertà individuale e l'autodeterminazione del singolo, nonché la stessa coerenza e logicità interna della proposta legislativa).

Questa zona d'ombra attiene al “modo” della sovranità che lo Stato intende esercitare con questa legge sulla “vita” della popolazione. Attiene a una confusione radicale della funzione e dell'idea stesso di quel diritto che lo “Stato di diritto” dovrebbe porre in essere e attuare. Questa zona d'ombra è resa palese dalla stessa evidenza e chiarezza del linguaggio con cui parla questo disegno di legge (il paradosso è solo apparente). Esso vuole, in sostanza e senza mezzi termini, disciplinare (nel modo che i lettori già conoscono) diversi profili dei trattamenti sanitari e della volontà individuale (non solo del paziente, ma anche del medico) rispetto ad essi. Tutto è ben compendiato nel suo titolo, Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento, e in quello del suo primo articolo: “Tutela della vita e della salute”.

Questa chiarezza è però segnata in radice da una forte ambiguità semantica. La proposta di legge si apre infatti con un'espressione alquanto equivoca all'orecchio del giurista, anche di quello più “moderato”. Si tratta della definizione della vita umana quale diritto indisponibile riconosciuto “anche” nella fase terminale dell'esistenza. Non solo una tale definizione, ma la stessa pretesa di dare una qualificazione giuridica della vita, di definirne giuridicamente attributi e “fasi”, appaiono inusuali, quantomeno in un testo di legge statale. Una tale espressione potrebbe trovare (forse) collocazione in una carta internazionale dei diritti dell'uomo. Eppure la stessa Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) si limita ad affermare che ogni uomo ha un diritto alla vita, senza ulteriori tentativi di aggettivazione. Non si tratta di un sofisma grammaticale (che comunque nel diritto avrebbe una rilevanza essenziale, dato che il diritto è essenzialmente linguaggio), ma di un'importante differenza concettuale.

Sembra emergere una dicotomia: diritto alla vita o vita come diritto. Dov'è la differenza? E, soprattutto, per chi e in relazione a che cosa viene predicata questa indisponibilità della vita in quanto “diritto”? Nel linguaggio giuridico l'indisponibilità di un certo diritto significa, normalmente, che il suo esercizio non è assolutamente libero. Normalmente si dice che certi diritti soggettivi (patrimoniali o non patrimoniali, ad esempio alcuni diritti della personalità) sono indisponibili nel senso che non si può liberamente renderli oggetto di contratti commerciali, oppure non si può alienarli, spogliarsene o delegarne l'esercizio ad altri, pretendendo che gli atti giuridici che poniamo in essere al riguardo siano validi ed efficaci. L'indisponibilità indica che a quel diritto la legge attribuisce una funzione più importante, posta al riparo dalla stessa volontà del titolare. Questi non può neppure rinunciarvi. Ma – attenzione – questo carattere irrinunciabile riguarda la titolarità, l'attribuzione del diritto, non il suo esercizio. Questo può essere limitato in vista di altri concorrenti interessi ritenuti dalla legge prevalenti, ma la libertà di non esercitarlo è insopprimibile.

Un diritto indisponibile può essere formalmente irrinunciabile, ma non può essere un diritto ad esercizio forzato e obbligatorio. Si tratta, in fondo, delle nozioni che si studiano durante il primo anno del Corso di laurea in Giurisprudenza: diritto soggettivo e diritto oggettivo.

La vita intesa come diritto indisponibile, allora, sembra sempre meno vicina a un diritto soggettivo, cioè un “diritto a” o un “diritto di” cui la legge dia forza contro tutto ciò che vuole contrastarne l'esercizio.

Piuttosto appare sempre più come diritto oggettivo, cioè come norma, comando imperativo. Insomma, l'altra faccia del diritto: il dovere. Non: “diritto a vivere”, ma: “vivi!”. La proprietà privata sui beni, ad esempio, è un diritto soggettivo assoluto che può essere limitato, secondo la Costituzione, per assicurarne la “funzione sociale”, ma che è assolutamente disponibile e rinunciabile. La “proprietà” della mia vita, il suo “proprio”, lo è altrettanto? Si è tutti d'accordo che si può usare la propria vita, anche quella biologica, per danneggiare gli altri. Ma nel mio diritto alla vita rientra anche la facoltà di rinunciarvi? Si tocca qui un aspetto fondamentale del diritto, su cui torneremo fra poco: lo scarto tra possibilità reale e facoltà giuridica. Posso rinunciare alla vita suicidandomi o lasciandomi morire: ma ho anche il “diritto” di farlo? (un diritto assoluto e inviolabile, che nessuna violenza contraria ha il diritto di vincere, anche se potrebbe averne la forza, ma allora sarebbe illegittima). Il problema non è evidentemente solo giuridico, ma anche filosofico. È ammissibile la pretesa della legge di regolare la volontà di vivere o di morire, che è la nostra suprema libertà esistenziale, cioè la possibilità di scegliere di non essere? Tutta questa problematicità, credo, sta dietro l'impiego del solo aggettivo “indisponibile” riferito alla vita. Parola forse qui utilizzata come un cattivo sinonimo di “irrinunciabile” per il titolare del diritto. Ma, allora, questa proposta di legge pretende forse di regolare e vietare questa nostra suprema libertà o “potenza” di non essere?

Bios e Thanatos: la biotecnologia e i confini del diritto

Occorre intanto chiedersi in quale accezione la proposta di legge usi il sostantivo vita.

Qui – mi pare – lo Stato vorrebbe soprattutto dettare regole giuridiche che definiscano e gestiscano un fatto puramente biologico: la vita nella sua dimensione “quantitativa” e meramente fattuale, come dato misurabile in termini organici e biologici. È vero che la vita biologica è qui assunta, quale oggetto di una fattispecie legale, nella sua fase terminale. Ma viene alla mente un'affermazione di Michel Foucault: «Se il vecchio diritto di sovranità consisteva nel diritto di far morire o lasciar vivere, il nuovo diritto sarà quello di far vivere o lasciar morire.» Il potere sovrano, cioè, vuole esercitarsi direttamente sul bios. Questa pretesa ha qualcosa di giuridicamente “innaturale” e, per così dire, somiglia a quello che gli antichi greci chiamavano un atto di hybris (cioè quell'intenzione che, sfidando gli dei ed il cosmo, sfida anche l'ordine “naturale” delle possibilità proprie di un certo mondo). Vediamo di motivare un tale assunto.

Il diritto risponde ovviamente da sempre al bisogno di disciplinare la vita e la morte. È un modo per dare un ordinamento all'ingresso e all'uscita delle persone nell'essere della loro esistenza: essenzialmente quella familiare, sociale, economica, ecc. Ad ogni modo l'essere dell'uomo, nel mondo del diritto, è sempre un coesistere con gli altri: il diritto nasce dal fatto che l'uomo si trova gettato non solo nell'essere-nel-mondo con il suo ego cartesiano, ma in un co-esistere nel mondo con altri uomini. Ciò che, fin dai tempi dei giuristi romani, interessa al diritto, è allora ordinare (nel doppio senso di dare un ordine all'essere e comandare come ciò che è dovrebbe essere) gli effetti della vita e della morte degli uomini su e per gli altri uomini. Gli effetti patrimoniali ed economici o quelli personali e familiari, secondo quanto disposto da quel nucleo del diritto antico e moderno che viene dal Corpus iuris civilis. Si tratta naturalmente di effetti che non operano nel foro interno dell'affettività, dell'emozionalità, della “coscienza morale”: questi ambiti (ovviamente?) non sono oggetto di regolamentazione giuridica.

Ciò ha fatto per secoli, e continua a fare, il diritto civile: costituire e dirigere le conseguenze, tra gli uomini, di quegli eventi “misteriosi” e assolutamente incommensurabili che sono il nascere e il morire degli uomini. Ma, appunto, solo gli effetti, non gli eventi considerati in sé stessi. La vita e la morte sono i confini delle prescrizioni o delle proibizioni del diritto. L'esistenza del diritto è alla ricerca del proprio fondamento (di volta in volta divino, naturale, umano, da sempre con modi ora fideistici ora nichilistici) tra questi due estremi.

Nel momento stesso in cui il diritto aspira, per sua stessa “natura”, alla trascendenza, nella sua pretesa di universalità, astrattezza, iterabilità nel tempo, trova comunque il proprio senso, la propria “posizione”, appunto, entro i limiti della vita e della morte del singolo, anche solo per il fatto di giustificarsi in quanto pretesa di continuità del “corpo sociale” oltre la soglia e la durata del corpo individuale.

Naturalmente, qui il concetto di diritto è storicamente determinato: parliamo di quello occidentale, con le sue radici nella filosofia greca e nell'esperienza giuridica romana. E nella storia della modernità, questo specifico diritto ha finito per essere assorbito quasi integralmente ed esclusivamente dallo Stato e dalla sua legge. Il “giuridico” è stato rinchiuso, per così dire, nella sfera dell'ordinamento dello Stato.

In questo scenario, fino ad oggi, la vita e la morte sono stati, nella loro essenza di fatti biologici, accadimenti consegnati alla legge dello Stato, perché ne regolasse gli effetti, al limite perché stabilisse quando o come “usarli”, non perché li potesse “generare” o “fondare”. Cioè erano pre-giuridici, esistevano ontologicamente a prescindere dal diritto dello Stato.

Beninteso, il diritto è da sempre “bio-diritto” o “tanato-diritto”, per usare due espressioni oggi di moda.

Lo Stato ha sempre potuto “disporre” della vita e della morte. Ma in una direzione obbligata: “far morire” o “lasciar vivere”, e non viceversa. La legge, cioè, da sempre pretende di regolare il potere di dare la morte biologica (la sanzione della pena di morte per l'omicida, il “diritto di guerra” di un popolo contro altri popoli) o di non togliere la vita biologica (il divieto di uccidere l'altro, il divieto per un esercito di annientare il nemico che si arrende). Da sempre sancisce l'attribuzione di questo potere, le condizioni del suo esercizio e del suo monopolio, le proibizioni o i permessi circa il suo uso (anche in ragione della qualificazione degli esseri umani come “persone” o come “cose”, come accadeva, e accade tutt'oggi, con la schiavitù). In fondo, anche i reati di “omicidio del consenziente” e di “istigazione al suicidio”, puniti dagli articoli 579 e 580 del codice penale italiano, sono una manifestazione della pretesa di monopolizzare il potere di dare la morte, anche per uno Stato, come quello italiano, che ripudia la pena capitale. In questo senso, la legge dello Stato pretende già da molto tempo di esercitare in determinate circostanze un potere assoluto su quella che Walter Benjamin chiamò la nuda vita, sottraendo agli uomini la disponibilità della propria vita biologica. Basti pensare ai casi avvenuti in quei Paesi in cui i condannati a morte tentano il suicidio e vengono “salvati” al solo scopo di permettere che possano essere giustiziati nelle “forme di legge” da parte dell'autorità. Mai, però, il diritto avrebbe potuto concorrere a costituire lo spazio biologico dei propri confini naturali, la consustanzialità della vita e della morte come fatti biologici.

Gli effetti giuridici di quell'accadere della vita e della morte (accertato o causato dallo Stato) non potevano prescindere da una certa realtà naturale o pre-giuridica, che vedeva sottratto al diritto statale il potere di fondare o costituire lo status di vivente. Il diritto mai, sino ad oggi, a dovuto porsi il problema dell'identità del vivente naturale, inteso come bios (“vita” in greco antico).

Semmai, il diritto ha potuto creare lo Stato sovrano a propria immagine come uomo artificiale, come ha scritto il filosofo Thomas Hobbes. Com'è noto, è la tecnica moderna che cambia radicalmente lo scenario delle identità di vita e morte in cui la tradizione giuridica si è mossa fino al secolo scorso: le tecniche mediche di rianimazione, le biotecnologie, la genetica, la clonazione, la fecondazione in vitro. Non solo la vita e la morte diventano artificiali, ma la stessa vecchia soglia tra naturale e artificiale cambia posizione, viene dislocata, forse perde addirittura significato. La tecnica può fare cose che prima, per millenni, sono appartenute alla sfera dell'impossibile. Muta così l'orizzonte delle identità, delle possibilità, e anche delle potenze e dei poteri. La tecnica è la dimensione del potere che genera possibilità infinite e quindi, come ha scritto il filosofo Jean-Luc Nancy, “un'infinità dei fini senza fine” che ha, come contrappeso, l'assenza di principio e di fine, intesa come assenza di ragione e fondamento. Ma non si deve dimenticare che la tecnica è e resta un prodotto della natura umana: il differenziale tra tecnica e natura, che noi oggi percepiamo in modo drammatico, è solo una questione di tempo, di accelerazione del “progresso” rispetto a una tradizione che ha visto formarsi le nostre categorie di pensiero quando la trasformazione e la manipolazione della natura a opera dell'uomo avvenivano, apparentemente da sempre, in modo lento, graduale, diluito, disseminato e non concentrato in una singola piega della storia.

L'innovazione tecnologica aveva (e dava) il tempo di trovare delle categorie di pensiero per collocarla nell'ordine del mondo. Oggi queste categorie non sono a portata di mano, perché manca il tempo di cercarle, e quindi ci troviamo disorientati. Mi arrischio a dire che la crisi del “presente” è una crisi di identità: ignoti non sono il “da dove veniamo” né il “verso dove andiamo”, il passato e il futuro, ma quale sia la nostra posizione: dove siamo e chi siamo, qui e ora.

La prima conseguenza della crisi di identità di bios e thanatos è che si è creata una zona di indistinzione tra vita e morte, poiché la medicina della rianimazione ha reso artificialmente possibile una separazione tra la coscienza della vita e la vita intesa come mera sussistenza di funzioni biologiche vitali. Se l'esperienza storica aveva costruito il diritto sulla irreversibilità del movimento che dalla nascita conduce alla morte, oggi l'esperienza apre le porte alla parziale reversibilità di questa progressione, nelle forme di un trattenere o di un arrestare la morte naturale. Una posticipazione, questa, che, se pensiamo alle potenzialità della ricerca genetica e della clonazione, all'interazione uomo-macchine, e all'aspettativa di poter in futuro manipolare il corpo per sostituirne gli organi invecchiati con organi artificiali, potrebbe addirittura essere reiterata per un tempo così lungo da superare ogni precedente aspettativa umana. Quello che occorre sottolineare è che in questa zona artificiale il diritto si fonde inestricabilmente con la tecno-biologia, il potere dello Stato sovrano si confonde con le possibilità della scienza.

Questa zona, infatti, proprio perché artificiale, esiste solo in quanto sia costituita giuridicamente. Infatti la norma giuridica, vietando ad esempio di morire o non volendo riconoscere come non-vita determinati stati di esistenza vegetativa, e al tempo stesso prescrivendo, in nome della deontologia medica (cioè del dover essere), di applicare tecniche di alimentazione e di idratazione anche in stato di incoscienza (ma in futuro potrebbe trattarsi anche di atti terapeutici consistenti magari in innesti bionici su corpi altrimenti “naturalmente” morti), stabilisce le condizioni per poter qualificare e decidere se quello che ci troviamo di fronte è vita oppure è morte, all'unica condizione che sussista un determinato (e variabile nel tempo) minimo di funzioni vitali misurabili e mantenibili con una tecnologia medica sempre più sofisticata.

La soglia tra la vita e la morte non è più consegnata al diritto da una natura a-tecnica, ma è piuttosto dominata dall'uomo attraverso il connubio tra la tecnica medica che è (e che si evolve), e la tecnica del diritto che la prescrive come dover essere. La tecnica medica ha insomma potuto creare la possibilità di un limbo in cui la vita non è annullata, ma è sospesa insieme alla morte. Ma la decisione di quando e di come l'uomo, ridotto alla sua funzione vitale vegetativa, deve entrare e può uscire da questo limbo (e quindi vivere o morire) è puramente e semplicemente giuridica. Sarebbe molto interessante stilare una storia della pretesa dello Stato di stabilire, appropriandosi della tecnica medica e scientifica, le “forme legali” della morte. In Italia, ad esempio, sono da ultimo la legge n. 578/1993 (Norme per l'accertamento e la certificazione di morte) e il decreto ministeriale 11 aprile 2008 a stabilire che “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo”. Viene così fissato un punto di non ritorno della vitalità biologica, la frontiera dell'irreversibilità, mobile nel tempo, perché si adegua al mutare delle conoscenze scientifiche che permettono di misurare la vita.

Una definizione espressa della forma legale della vita biologica ancora manca, ma la legge sul testamento biologico è un primo tentativo di muoversi in questa direzione. Essa, infatti, appuntandosi su quella situazione estrema della vita terminale, incosciente e più o meno artificialmente mantenuta vitale attraverso le tecniche di rianimazione e di sostentamento, per contiene tra le righe il paradigma legale della vita biologica tout court.

Un problema affine, almeno dal punto di vista concettuale, lo si ritrova in riferimento allo statuto giuridico degli embrioni, alla loro crioconservazione e quindi alla ricerca “in positivo” del momento giuridico costitutivo della vita biologica in vitro, giacché un embrione umano che si genera e cresce fuori del corpo della donna sarebbe una vitalità impossibile e inesistente nella natura “prima della tecnica”, ma non lo è nel mondo della natura tecnicizzata. La tecnica, e oggi in particolare la genetica, consentono anche di predire modi e caratteri della vita, e il diritto ne potrebbe inferire paradossalmente (come è effettivamente accaduto) il diritto di chi è nato gravemente malato a non nascere, il diritto di “chi” non è ancora entrato nell'esistenza biologica a rimanerne fuori – e l'affermazione suonerebbe davvero fantasiosa, se la nota sentenza del 2001 della Corte di Cassazione francese nel caso Perruche (un bambino francese nato con una malattia genetica a causa di un'errata diagnosi medica sulle condizioni di salute della madre) non l'avesse introdotta realmente nel mondo del diritto. Quest'ultimo si trova così alle prese con situazioni estreme mai sperimentate in migliaia di anni, rispetto alle quali le categorie tradizionali (nascita, decesso, persona, soggetto di diritto) appaiono di primo acchito inadeguate. Potremmo dire, in entrambi casi, di trovarci di fronte a una vita “alle soglie del nulla esistenziale”: da un lato una vitalità biologica (quella ri-animata) che non è più vita esistenziale, e dell'altra una vitalità biologica (quella dell'embrione) che, almeno nel momento in cui si genera fuori del corpo della madre, non è ancora vita esistenziale. Per non parlare del riconoscimento del diritto (ontologicamente, e moralmente, davvero problematico) del non-ancora-esistente (cioè del “ni-ente”) a non essere. Ecco allora la fondamentale ambiguità concettuale su cui, nascostamente, si fonda questa proposta di legge, che vuole rendere indisponibile la vita in funzione non di interessi superiori (quali potrebbero essere?), ma della vita stessa, ridotta però ad alcuni parametri di vitalità biologica, quelli estremi del punto di non ritorno.

Prima della morte encefalica, tutto è sicuramente vita che, in quanto misurabile, può essere “giuridificata” (come la sua assenza, tanto nel morto come addirittura nel non-ancora-concepito). La vita non è oggetto di un diritto alla vita, la vitalità biologica stessa è assunta come norma giuridica, cioè un qualcosa che è situato in una zona in cui non si riesce più a distinguere il fatto (biologico) dall'entità giuridica. L'essere della vita è norma: cioè è un dover essere. Ma questo modo di concepire la vita riduce alla vitalità biologica un fenomeno invece incommensurabile e assolutamente eccedente la biologia. La vita è qualità esistenziale e non soltanto quantificazione biologica. A questa differenza fondamentale rimanda, non casualmente, il concetto giuridico di dignità della persona umana. La persona malata ha un fondamentale diritto alla salute, cioè un diritto alla “buona vita”, dignitosa: ha il diritto a non essere “un paziente”, a non patire sofferenza (non solo fisica ma anche esistenziale). Ma – sia consentita quest'espressione, che può apparire forte, ma non deve essere fraintesa – non ha un diritto a non veder cessare le funzioni vitali, perché non ha né può essergli imposto un dovere di essere biologicamente vitale. Insomma: la volontà che vuole vivere non deve essere abbandonata e lasciata morire. Ma né la volontà di vita, né la volontà di morte possono essere presunte argomentando che l'esistenza biologica stessa “deve essere”, o magari che l'esistenza che non è (ancora o non più) non vuole essere. Questo significherebbe irreggimentare il divenire stesso dell'esistenza in una rigida struttura di diritti e doveri, di divieti e permessi. E questo sarebbe davvero un atto di hybris. Potere della tecnica e possibilità del diritto: privilegiare l'umanità dell'uomo A questo punto, la domanda da porsi non è se questa situazione assurda e incerta in cui la natura umana, attraverso la tecnica, metamorfizza se stessa, e pretende di regolare questo potere sancendo diritti e doveri del vivente, sia giusta oppure no, più o meno desiderabile, un progresso o una mostruosità. Questa è la situazione. Di fatto essa è già in quanto possibile, e lo è da sempre. La domanda “giusta”, allora, è se il diritto dello Stato possieda, storicamente, le categorie adeguate a queste trasformazioni, a queste vere e proprie paradossali metamorfosi della vita e della morte, e quindi del diritto stesso.

Non si tratta tanto o soltanto di deprecare l'esercizio del potere sulla nuda vita. Certo, occorre riflettere attentamente sul fatto che accanto a un monopolio statale sulla morte (il cittadino non può uccidere, a meno che non lo consenta lo Stato: la condanna a morte) il potere pubblico manifesta oggi la pulsione di porre un monopolio statale della vita (il cittadino deve vivere, a meno che lo Stato non consenta il contrario: insomma una “condanna a vivere”; e occorre avere l'onestà intellettuale di riconoscere che il disegno di legge italiano sul testamento biologico fa esattamente questo). Ma il punto, tra le pieghe, è un altro. Se la tecnica rende oggi possibile l'esercizio di un potere sulla nuda vita prima assolutamente impossibile e impensabile, lo Stato di diritto è in grado di pensare come governare queste possibilità? Ed è davvero necessario che la governi, nelle forme di legge? Il concetto di “governo della legge” è la categoria adatta a pensare e trattare questa vita biologica che può essere sempre di più oggetto di una decisione tecnica? Non si deve dimenticare che, come non si stanca di ripeterci la filosofia con svariati accenti, non c'è giustizia nella vita o nella morte, perché la vita e la morte sono assolutamente “indecidibili”. In questo sta la dimensione tragica dell'esistenza, e in questo si condensa la tragicità di ogni decisione che si pretenda (ci si illuda) di prendere sulla vita e sulla morte in nome della giustizia, che assuma il volto della sacralità della vita oppure della “giustezza” della morte.

Può il diritto dello Stato sostenere questa tragicità, senza cadere in contraddizioni che rischiano di minare e travolgere il diritto alla sua stessa radice? La riflessione è complessa, e richiederebbe una sospensione, una “epoché”, che proprio l'accelerazione dei tempi sembra non consentire.

Allora, per non terminare nella più totale aporia, credo che il miglior punto di partenza sia il pensiero di Emmanuel Levinas posto in esergo a questo testo. È l'umanità dell'uomo che deve essere salvaguardata in ogni modo. Essa sta, come ricorda il filosofo, nell'aprirsi alla morte del prossimo. La morte è l'evento inesorabile, inesperibile ed inesprimibile: è “l'impossibilità della possibilità”, segna cioè il limite delle possibilità umane come ultimissima possibilità, che nessuno può tornare a raccontare nel suo “essere avvenuta”. L'uomo è per definizione “il mortale”, e tutti dobbiamo assumerci la nostra morte, ma in fondo non possiamo, o al meno non possiamo farlo fino in fondo (e in questo vi è, forse, una delle ragioni della grandezza umana e della misteriosità divina della figura di Gesù Cristo, che, fatto uomo tra altri uomini, con la croce si carica della morte di tutti gli uomini). Possiamo solo fare esperienza della mortalità attraverso la morte degli altri, acquisendo così consapevolezza del nostro morire. Non è la nostra morte, allora, ma quella degli altri a mettere in gioco la nostra umanità. Paradossalmente, l'accesso al luogo della nostra massima solitudine, quella della morte, coincide con l'accesso al luogo della nostra massima libertà, e ci viene solo dall'incontro della massima solitudine e della massima libertà altrui. Nessuna veste propriamente giuridica può darsi a questo pensiero.

Esso può avere un'importante implicazione sul piano morale. Ma anche alcune significative conseguenze sul piano giuridico. La miglior cosa che può fare il diritto, nel momento in cui accoglie le (prima) impossibili possibilità della tecnica, è di fare un passo indietro, non “disciplinare”, ma lasciare alla persona la piena libertà morale e giuridica di accedere in solitudine a questo luogo di solitudine, di possibilità (da sempre) impossibile che è la morte. O, viceversa, si può dire che la vita biologica ha il diritto a essere lasciata immune dal diritto stesso. Ecco perché, se davvero è proprio necessario (e probabilmente oggi lo è, dal momento che la vita biologica non gode più di immunità ma è divenuta oggetto di un potere giuridico) emanare una legge circa la possibilità (forse l'unica) di suprema “auto-nomia” dell'individuo, cioè la possibilità di esprimere una volontà circa il proprio bios e il proprio corpo biologico, occorre che il testamento biologico sia previsto come sommamente libero per chi lo fa, ma anche come vincolante per chi rimane. La volontà della persona, in questo senso, deve venire prima di tutto, perché è l'unico “diritto naturale” che può essere esercitato sul bios. Questo non significa che solo io possa mettere in pratica questa decisione sulla mia vita, ma che solo io posso assumerla con responsabilità. Nessuno (familiare, medico, giudice) può decidere prescindendo da questa mia volontà. Come poi si esprima, si trasmetta, si conservi, quali mezzi di “testimonianza” siano adeguati a questa dichiarazione di volontà, è un'altra faccenda, questa sicuramente pertinente al “diritto positivo”.

Così come sarebbe di pertinenza del diritto positivo valorizzare questa volontà, vincolante per chi rimane o per coloro a cui vorremmo chiedere assistenza nella morte tanto quanto lo abbiamo chiesto nella vita, rispetto a figure di reato come l'omicidio del consenziente o l'istigazione al suicidio, la cui disciplina ha già il sapore del compromesso, dato che in queste fattispecie la volontà altrui non toglie il reato ma attenua la pena rispetto all'omicidio.

Il disegno di legge sul testamento biologico, ora in discussione in Parlamento, non assolve a questo compito, per le ragioni che altri hanno già efficacemente indicato su questa rivista. In esso la volontà e la libertà del malato non contano e non vincolano, tanto ch'egli non può neppure lasciarsi morire, rinunciare all'alimentazione artificiale, quando la naturalità del suo corpo, prima dell'intervento della tecnica, lo sospinge in questa direzione. Qui si vuole solo ribadire che la protezione di questa volontà è la condizione “sovrana” per realizzare non soltanto l'umanità del malato, ma anche e soprattutto di quelli che lo assistono nella vita e nella morte, medici compresi. Invocare la deontologia medica, o qualificare l'alimentazione artificiale come atto medico, contro la volontà del paziente, significa sovrapporre il dover essere del medico, e il suo potere, al voler essere (o non essere) del paziente, e alla sua impotenza. Invocare il divieto di omicidio del consenziente, significa schiacciare la volontà dell'individuo o dei suoi familiari sotto il peso di una pretesa indisponibilità giuridica del vivere e del morire. Invocare la sacralità della vita, e qualificare l'alimentazione forzosa quale cura palliativa della sofferenza, mostra la pretesa di dominio sulla nuda vita, perché nel vietare di sacrificarla a principi o interessi o volontà diversi da se stessa, lo Stato la sta esponendo comunque a un potere assoluto di controllo e la aliena. Invocare la speranza, o le aspettative di progresso della tecnica, che potrebbe in futuro salvare e riportare “in vita” il malato in coma che non ha voluto o potuto credere in queste aspettative, perde di vista il fatto che questa attesa messianica rimanda a un tempo non umano e non può fermare il tempo della storia, soprattutto non può migliorare nel presente la vita del soggetto mantenuto in condizioni minimali di vitalità biologica.

Infine, sia consentito un confronto tra la disciplina legale delle dichiarazioni anticipate di volontà relative al corpo in stato vegetativo e al corpo biologicamente morto. Nel primo caso, la dichiarazione anticipata di trattamento sanitario è prevista a efficacia limitata nel tempo e nei contenuti, e non vincolante. In caso di silenzio, soprattutto, l'effetto di questa legge sarà quello di non consentire di presumere o provare che il malato nutrisse la volontà di non venire a trovarsi nella condizione di corpo in stato vegetativo. Insomma, se in me c'è ancora una possibilità di bios, anche artificiale o incosciente, si presume che vi sia necessariamente la volontà che il mio corpo sia mantenuto “in funzione”. Così si spiega il divieto legale di rinunciare anticipatamente all'alimentazione artificiale. Nel secondo caso, la legge n. 91 del 1999 presume invece senza problemi che il silenzio (se consapevole, almeno in linea di principio) significhi assenso all'espianto dei propri organi in caso di morte, quando cioè si è superato il punto di non ritorno della vitalità biologica. Certo lo scopo, qui, può giustificare i mezzi: è in gioco la vita di qualcun altro. Entrambi i casi sono espressione di un potere dello Stato sul corpo, esposto nella sua nudità. Nel caso dell'espianto degli organi, la legge fa pressione per rendere indisponibile il destino del mio corpo, una volta che sarà morto, obbligando la mia volontà a esprimersi nelle forme e nei tempi di legge se vuole conservare l'identità del corpo, il suo “essere-me e non altri” anche dopo la morte. Nel caso del testamento biologico, invece, si sceglie di non valorizzare pienamente la mia volontà allo scopo di rendere la mia vita indisponibile anche a me stesso, sul presupposto che la vita non mi apparterrebbe interamente.

Ma – ed è una grande contraddizione – mentre nel primo caso la mia volontà, espressa nei modi di legge, è assolutamente e insuperabilmente per tutti vincolante, nel secondo caso questo non accadrebbe, e la mia volontà esistenziale è destinata a rimanere in balìa degli altri.
Il confronto può sembrare inappropriato, le situazioni del tutto differenti. Ma – occorre chiedersi – se l'umanità dell'uomo si giudica anche nell'attenzione che egli dedica al destino del corpo dopo la morte, perché mai la volontà espressa dall'individuo, una volta perduta la coscienza oltre una ragionevole certezza medica di recupero, dovrebbe avere un peso diverso ed essere trattata in modo diseguale secondo che ciò che di lui resta sia materia organica “al di qua” oppure “al di là” della soglia tecnologica e giuridica della vita biologica?

Letture di riferimento

G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 2005
W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 2006
J. Derrida, Forza di legge. Il "Fondamento mistico dell'autorità", Bollati Boringhieri, Torino, 2003
R. Esposito, Bìos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004
E. Levinas, Alterità e trascendenza, Il melangolo, Genova, 2006
J-L. Nancy, L'esperienza della libertà, Einaudi, Torino, 2000
E. Resta, Diritto vivente, Laterza, Roma-Bari, 2008
E. Severino, N. Irti, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari, 2001

Fonti specifiche sul Testamento biologico

Fonte: Rivista semestrale So.crem Bologna Informazione - Primo semestre 2010 (n. 37 dal 1992)

Dichiarazione di volontà anticipata per i trattamenti sanitari (pdf)

Sul testamento biologico (pps)

Scelte di fine vita (pdf-zip)


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Uomo-Donna
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Aggiornamento: 14/12/2018