Rousseau: la religione civile

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Rousseau: la religione civile

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Giuseppe Bailone

L’ultimo capitolo del Contratto sociale è dedicato alla “religione civile”.

Inserito all’ultimo momento, ma pensato da tempo,1 questo capitolo ha aperto un discorso poi ripreso e sviluppato da molti pensatori politici, ma ha anche provocato risentimenti profondi e polemiche violente.

In esso, Rousseau tratta della religione nel suo rapporto con la politica, ed esprime critiche pesanti sul cristianesimo, sia quello delle istituzioni ecclesiastiche e sia quello vissuto in puro spirito evangelico.

Questo capitolo è un’importante integrazione del precedente discorso politico: se, infatti, il contratto sociale non mette semplicemente insieme degli individui, ma ne fonda la loro identità sociale e li costituisce come membra di un corpo organico, la religione, dando un’aura di sacralità al patto, rafforza nei cittadini il senso di appartenenza e quello del bene comune.

Nel mondo antico, secondo Rousseau, questa funzione era svolta dalle religioni popolari, strettamente legate al potere politico; ma, col cristianesimo le cose sono radicalmente cambiate: non solo esso non svolge la stessa funzione di quelle religioni che, col suo trionfo, ha travolto; ma ne esercita, per il suo universalismo e per la sua morale, una contraria. Pertanto, gli Stati, da allora, mancano di un sostegno fondamentale.

Nel mondo romano, la cui religione Rousseau giudica molto positivamente, “Gesù venne a stabilire sulla terra un regno spirituale: ciò che, separando il sistema teologico dal sistema politico, fece che lo Stato cessò di essere uno, e cagionò le divisioni intestine, che non hanno mai cessato di agitare i popoli cristiani”. Da questa scissione nacquero le persecuzioni. Quando, poi, i cristiani vinsero, le cose andarono anche peggio: infatti, “si è veduto questo preteso regno dell’altro mondo diventare, sotto un capo visibile, il più violento dispotismo di questo mondo”.

Da allora, il doppio potere, civile e religioso, ha creato “un perpetuo conflitto di giurisdizioni, che ha reso impossibile ogni buon ordinamento negli Stati cristiani; e non si è mai potuto venire a capo di sapere a chi, fra il padrone e il prete, si fosse in obbligo di obbedire. Parecchi popoli, tuttavia, anche in Europa o nelle vicinanze, hanno voluto conservare o ristabilire l’antico sistema, ma senza successo; lo spirito del cristianesimo ha conquistato tutto. Il culto sacro è sempre rimasto o divenuto indipendente dal sovrano, senza legame necessario col corpo dello Stato”.

Maometto è stato molto saggio, ma, dopo che gli Arabi “furono soggiogati da barbari”, nel mondo islamico ricominciò “la divisione fra le due potenze”.

I sovrani inglesi e gli zar di Russia “si sono istituiti capi della chiesa; ma con questo titolo se ne sono resi non tanto padroni quanto ministri; hanno acquistato non tanto il diritto di cambiarla, quanto il potere di salvaguardarla: non sono in essa legislatori, non sono che principi. Dovunque il clero costituisca un corpo, è padrone e legislatore nella sua patria. Vi sono sempre due poteri, due sovrani; in Inghilterra e in Russia, proprio come altrove. Di tutti gli autori cristiani, il filosofo Hobbes è il solo che abbia visto bene il male e il rimedio, e che abbia osato proporre di riunir le due teste dell’aquila, e di ricondurre tutto all’unità politica, senza la quale mai Stato o governo saranno ben costituiti. Ma ha dovuto pur vedere che lo spirito dominatore del cristianesimo era incompatibile col suo sistema, e che l’interesse del prete sarebbe sempre più forte di quello dello Stato”.

Anche l’ateismo non rende un buon servizio allo Stato.

Contro Bayle, sostenitore della possibilità di una società di atei, Rousseau afferma categoricamente che la religione è essenziale alla fondazione di uno Stato. Contro l’ateismo, Rousseau ritorna più volte nei suoi scritti. In una lunga nota, a margine della professione di fede del vicario savoiardo, nel libro quarto dell’Emilio, ad esempio, scrive:

“Bayle ha provato benissimo che il fanatismo è più pernicioso dell’ateismo, e ciò è incontestabile; ma quello che non ha badato a dire, e che non è men vero, sì è che il fanatismo, sebbene sanguinario e crudele, è pertanto una passione grande e forte, che eleva il cuore dell’uomo, che gli fa disprezzare la morte, che gli dà un’energia prodigiosa, e che non occorre che dirigere meglio per trarne le più sublimi virtù; invece l’irreligione, e in generale lo spirito ragionatore e filosofico, attenta alla vita, effemina, avvilisce le anime, concentra tutte le passioni nella bassezza dell’interesse particolare, nell’abiezione dell’io umano, e scalza così, a poco a poco, i veri fondamenti di ogni società; poiché quello che gli interessi particolari hanno in comune è poca cosa, che non bilancerà mai quanto hanno di opposto. Se l’ateismo non fa versare il sangue degli uomini, è meno per amore della pace, che per indifferenza verso il bene […]. Così il fanatismo, sebbene più funesto nei suoi effetti immediati di ciò che si chiama oggi lo spirito filosofico, lo è molto meno nelle sue conseguenze. D’altronde è facile lo sciorinare nei libri delle belle massime; ma la questione sta nel sapere se esse si adattano bene alla dottrina, se ne derivano necessariamente; ed è ciò che non è parso chiaro sin qui. Rimane ancora da sapersi se la filosofia, a suo agio e sul trono, comanderebbe alla gloriuzza, all’interesse, all’ambizione, alle piccole passioni dell’uomo, e se essa praticherebbe quell’umanità così dolce che ci vanta con la penna in mano.

Con i principi, la filosofia non può far alcun bene che la religione non faccia ancor meglio, e la religione ne fa molti che la filosofia non può fare”.2

Contro Warburton, per il quale il cristianesimo sarebbe “il più fermo appoggio” dell’ordine sociale e politico, scrive che “la religione cristiana è, in fondo, più dannosa che utile alla forte costituzione di uno Stato”.

La religione del Vangelo, infatti, “non avendo alcuna relazione speciale col corpo politico, lascia alle leggi la sola forza che traggono da se stesse, senza aggiungerne loro alcun’altra; e perciò uno dei grandi vincoli della società particolare resta senza effetto. Anzi, lungi dall’affezionare i cuori dei cittadini allo Stato, essa ne li distacca come da tutte le altre cose terrene, […] La patria del cristiano non è di questo mondo. […] Se sopravvenga qualche guerra con lo straniero, i cittadini vanno senza pena alla battaglia; nessuno fra loro pensa a fuggire; fanno il loro dovere; ma senza passione per la vittoria; sanno piuttosto morire che vincere. […] Mettete di fronte a costoro dei popoli generosi, divorati dall’ardente desiderio di gloria e di patria; supponete la vostra repubblica cristiana contro Sparta o Roma: i pii cristiani saranno battuti, schiacciati, distrutti, prima di aver avuto il tempo di orizzontarsi. […] Ma io sbaglio nel dire una repubblica cristiana; ciascuna di queste due parole esclude l’altra. Il cristianesimo non predica che servitù e dipendenza. Il suo spirito è troppo favorevole alla tirannia, perché questa non ne profitti sempre. I veri cristiani son fatti per essere schiacciati; lo sanno e non se ne commuovono punto; questa breve vita ha troppo poco valore ai loro occhi.

Gli eserciti cristiani sono eccellenti, ci si dice. Lo nego: che me ne mostrino di tali. Quanto a me non conosco truppe cristiane. Mi si citeranno le crociate. Senza discutere sul valore dei crociati, osserverò che, ben lungi dall’essere cristiani, erano soldati del prete, erano cittadini della Chiesa; si battevano per il suo paese spirituale, che essa aveva reso temporale, non si sa come. A intenderla bene, questo rientra nel paganesimo, perché il Vangelo non istituisce una religione nazionale, ogni guerra sacra è impossibile fra i cristiani. Sotto gli imperatori pagani, i soldati cristiani erano valorosi, tutti gli autori cristiani lo assicurano, ed io lo credo: era una gara d’onore contro le truppe pagane. Ma appena gli imperatori furono cristiani, questa emulazione non poté più sussistere; e quando la croce ebbe cacciata l’aquila, tutto il valore romano scomparve”.

Rousseau riprende qui il giudizio di Machiavelli, l’autore del “libro dei repubblicani”, il Principe; “il profondo politico”, di cui scrive che “non ha avuto finora che lettori superficiali o corrotti”. E aggiunge: “La corte di Roma ha severamente proibito il suo libro; e lo credo bene: è ben d’essa che egli dipinge più chiaramente”.3

Machiavelli, nei Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, II 2, aveva scritto:

“Pensando dunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi i popoli fossero più amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella medesima ragione che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversità di educazione nostra dall’antica, fondata sulla diversità della religione nostra dalla antica. Perché avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo: onde i Gentili stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle loro azioni più feroci… La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato più gli umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo e in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto più a patire che a fare una cosa forte”.

La necessità di una religione civile non comporta che il potere controlli le opinioni religiose dei suoi cittadini sull’aldilà, sul quale il sovrano non ha competenza. Al sovrano, invece, interessa che essi siano buoni cittadini.

“Vi è dunque una professione di fede puramente civile, della quale spetta al sovrano fissar gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza i quali è impossibile esser buon cittadino o suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a crederli, può bandir dallo Stato chiunque non li creda; può esiliarlo, non in quanto empio, ma in quanto insocievole e incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e d’immolare, in caso di bisogno, la sua vita al suo dovere. Che se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente questi stessi dogmi, si conduca come se non vi credesse, sia punito con la morte; egli ha commesso il maggiore dei delitti, ha mentito dinanzi alle leggi.

I dogmi della religione civile devono essere semplici, di numero ristretto, enunciati con precisione, senza spiegazioni né commenti. L’esistenza della divinità possente, intelligente, benefica, previdente e provvida, la vita futura, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la santità del contratto sociale e delle leggi, ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi, li limito a uno solo, l’intolleranza: essa rientra nei culti che noi abbiamo escluso.

Quelli che distinguono l’intolleranza civile e l’intolleranza teologica s’ingannano, a mio parere. Queste due intolleranze sono inseparabili. È impossibile vivere in pace con persone che crediamo dannate; amarle sarebbe odiare Dio che le punisce; bisogna assolutamente ricondurle a salvazione o tormentarle. Ovunque l’intolleranza teologica sia ammessa, è impossibile che non abbia qualche effetto civile; e non appena ne abbia, il sovrano non è più sovrano, neanche temporalmente; da quel momento i preti sono i veri padroni, i re non sono più che i loro ufficiali.

Ora che non v’è più e che non vi può essere una religione nazionale esclusiva, si devono tollerare tutte quelle che tollerino le altre, fin tanto che i loro dogmi non abbiano niente di contrario ai doveri del cittadino. Ma chiunque osi dire: «Fuori delle Chiesa non vi è salvezza», deve essere scacciato dallo Stato, a meno che lo Stato non sia la Chiesa, il principe non sia pontefice. Un tal dogma non è buono che in un governo teocratico; in qualsiasi altro è pernicioso. La ragione per la quale si dice che Enrico IV abbracciasse la religione romana, dovrebbe farla abbandonare da qualsiasi galantuomo, e specialmente da ogni principe che sapesse ragionare”.

Questa idea del rapporto della religione con il potere politico emerge nettamente anche nel libro ottavo delle Confessioni, dove Rousseau spiega le ragioni che lo spinsero a tornare a Ginevra e alla religione calvinista.

“Arrivato in quest’ultima città, mi abbandonai all’entusiasmo repubblicano che mi ci aveva portato. L’entusiasmo aumentò per l’accoglienza che vi trovai. Festeggiato, accarezzato da tutti i ceti, mi abbandonai interamente allo zelo patriottico e, vergognoso di essere stato escluso dai miei diritti di cittadino per la professione di un culto differente da quello dei miei padri, decisi di riabbracciare apertamente quest’ultimo. Pensavo che, essendo il Vangelo il medesimo per tutti i cristiani, e il fondo del dogma non differendo che per la pretesa di spiegare quel che non si può capire, in ogni paese spettasse al solo sovrano di stabilire il culto e quel dogma inintelligibile, e che, di conseguenza, fosse dovere del cittadino ammettere il dogma e osservare il culto prescritto dalla legge. Il frequentare gli Enciclopedisti, nonché scuotere la mia fede, l’aveva rafforzata a causa della mia avversione naturale per la disputa e per i partiti. Lo studio dell’uomo e dell’universo mi aveva mostrato dappertutto le cause finali e l’intelligenza che la dirige. La lettura della Bibbia, e soprattutto del Vangelo, alla quale mi applicavo da vari anni, mi aveva fatto disprezzare le basse e sciocche interpretazioni che davano a Gesù Cristo le persone meno degne di capirlo. In una parola, la filosofia, legandomi all’essenziale della religione, mi aveva staccato da quel guazzabuglio di formulette col quale gli uomini l’hanno offuscata. Giudicando che per un uomo ragionevole non esistano due maniere di essere cristiano, pensavo anche che tutto quanto è forma e disciplina sia in ogni paese competenza delle leggi. Da questo principio così sensato, così sociale, così pacifico, e che mi ha attirato così crudeli persecuzioni, conseguiva che, volendo esser cittadino, dovevo esser protestante e ritornare al culto stabilito nel mio paese”.4

A questo rientro, Rousseau, nell’Emilio, si fa invitare dal vicario savoiardo.

“Ritornate nella vostra patria, riprendete la religione dei vostri padri, seguitela nella sincerità del vostro cuore, e non lasciatela più: essa è molto semplice e molto santa; io la credo, di tutte le religioni che sono sulla terra, quella la cui morale è più pura e di cui la ragione si contenta meglio”.5

Torino 1 dicembre 2014

NOTE

1 Infatti, già nella lettera a Voltaire del 1756 sull’ottimismo e il terremoto di Lisbona, aveva scritto:

“Esiste, lo riconosco, una specie di professione di fede che le leggi possono imporre; ma al di fuori dei principi della morale e del diritto naturale, non può che essere puramente negativa, giacché possono esservi religioni che attaccano i fondamenti della società, e per assicurare la pace dello Stato bisogna cominciare con la liquidazione di quelle religioni. Tra questi dogmi che vanno proscritti, il più odioso è senza dubbio l’intolleranza, ma bisogna combatterlo fin dall’origine, poiché i fanatici più sanguinosi mutano di linguaggio secondo la fortuna, e predicano solo pazienza e dolcezza quando non sono i più forti. […] Vorrei che in ogni Stato vi fosse un codice morale, o una specie di professione di fede civile, che prescrivesse i principi sociali che ciascuno sarebbe tenuto a riconoscere e bandisse i principi fanatici che ciascuno sarebbe tenuto a respingere, non in quanto empi ma in quanto sediziosi. Così, ogni religione che potesse accordarsi con questo codice sarebbe ammessa, mentre sarebbero bandite tutte le religioni che non potessero accordarvisi; e ognuno sarebbe libero di non avere altra religione se non il codice stesso”. E propone a Voltaire, che nel Poema sulla religione naturale ha già scritto “il catechismo dell’uomo”, di scrivere ancora “il catechismo del cittadino”. E aggiunge: “È un argomento su cui meditare a lungo, e forse da riservare per l’ultima delle vostre opere così da concludere con un alto beneficio per il genere umano la più brillante carriera che mai scrittore abbia percorso”. In Opere, Sansoni ed., pp. 133-4.

2 Rousseau, Opere, Sansoni editore 1972, pp. 576-7.

3 Ib. p. 311, in nota al cap. VI del libro terzo del Contratto sociale.

4 Confessioni, VIII, ed. Einaudi 1955, pp. 430-31.

5 Emilio, in Opere, Sansoni editore 1972, p. 576.

Torino 1 dicembre 2014


Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Aggiornamento: 15-06-2015