Rousseau, il filosofo che visse nel paese delle chimere

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Rousseau, il filosofo che visse “nel paese delle chimere”

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L’impossibilità di raggiungere gli esseri reali mi lanciò nel paese delle chimere, e, nulla vedendo d’esistente degno del mio delirio, lo nutrii con un mondo ideale, che la mia immaginazione creatrice popolò in breve di esseri fatti a immagine del mio cuore”.

Questa rivelazione, che Rousseau fa a proposito del periodo di straordinaria “effervescenza” in cui partorì Giulia o la nuova Eloisa e altri suoi capolavori, può servire da cifra per comprendere tutta la sua singolarissima esistenza.

“Ho posseduto pochissime donne – scrive all’inizio delle Confessioni – ma non ho mancato di godere molto, a modo mio, ossia con l’immaginazione”.

Nel libro IV, al termine del racconto di un’avventura con due fanciulle, scrive: “Coloro che mi leggeranno non mancheranno di ridere delle mie avventure galanti, notando che, dopo tanti preliminari, le più fortunate finiscono col baciamano. Lettori, non v’ingannate. Forse ho ricavato maggior piacere io, concludendoli su quella mano baciata, di quanto non ne aveste voi cominciando per lo meno di lì”.

Rousseau si muove con difficoltà nella vita reale.

“È simile a un uomo che si sia spogliato non solo dei suoi vestiti, ma della sua stessa pelle e che, in quelle condizioni, si sia buttato a combattere contro i violenti e tempestosi elementi che perpetuamente agitano questo basso mondo”, ha scritto di lui David Hume che, invano, ha cercato di aiutarlo in un momento di particolare difficoltà.1

La sua fervidissima immaginazione contribuisce non poco ad accrescere queste difficoltà, ma gli apre anche originali dimensioni esistenziali e alimenta la creazione dei suoi capolavori.

Jean-Jacques Rousseau nasce, “quasi morente”, a Ginevra il 28 giugno 1712. La madre muore di parto. Il padre è orologiaio e forse maestro di ballo.

Scrive: “Costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu la prima delle mie disgrazie. Non ho mai saputo come mio padre sopportò quella perdita, ma so che non se ne consolò mai. Credeva di rivederla in me, senza poter dimenticare che gliel’avevo tolta io: non mi abbracciò mai senza che io non sentissi dai suoi sospiri, dai suoi abbracci convulsi, che un rimpianto amaro s’insinuava nelle sue carezze: erano perciò anche più tenere. Quando mi diceva: «Jean-Jacques, parliamo di tua madre», io gli dicevo: «Ebbene, babbo, dunque ora piangeremo»; e bastava questa parola a strappargli le lagrime. «Oh! – gemeva, – ridammela, consolami di lei, colma il vuoto che mi ha lasciato nell’animo. Ti amerei così se tu non fossi che mio figlio?».

Impara presto a leggere: “Mia madre aveva lasciato dei romanzi. Ci mettemmo a leggerli dopo cena, mio padre ed io. Da principio, si trattava solo di esercitarmi alla lettura con qualche libro divertente; ma in breve l’interesse divenne così vivo che leggevamo alternandoci senza riposo, e trascorrevamo le notti in quella occupazione. Non potevamo staccarcene che a volume finito. […] In breve tempo non tardai ad acquistare, con quel pericoloso metodo, non solo una facilità estrema di leggere e di capire me stesso, ma un’intelligenza delle passioni unica per la mia età. Non avevo nessun’idea delle cose, e già conoscevo tutti i sentimenti. Non avevo concepito nulla, e avevo sentito tutto. Le emozioni confuse, che provavo una dopo l’altra, non mi guastavano la ragione, che ancora non avevo; ma me ne plasmarono una d’una tempra diversa, e m’ispirarono intorno alla vita umana idee bizzarre e romanzesche, dalle quali esperienza e riflessione non mi hanno mai potuto guarire del tutto”.

Ha solo sette anni quando incontra i personaggi illustri di Plutarco e se ne entusiasma di ammirazione. È ancora bambino quando il padre, coinvolto in una lite in cui pare avesse torto, deve lasciare Ginevra e affidarlo a parenti. Va in campagna, dove vive relativamente tranquillo e comincia a imparare il latino. Una zia lo avvia allo studio della musica, di cui si occuperà sempre con vivo interesse. Nel 1724, per difficoltà economiche dei protettori, deve tornare a Ginevra e imparare un mestiere. Cambia diversi padroni, ma l’ultimo, un incisore, lo amareggia al punto da spingerlo alla fuga dalla città.

“Raggiunsi così i sedici anni, inquieto, scontento di tutto e di me, senza le passioni del mio stato, senza i piaceri della mia età, divorato da desideri di cui ignoravo l’oggetto, piangendo senza necessità di lagrime, sospirando senza sapere perché, e insomma cullando teneramente le mie chimere, e non vedendo nulla intorno a me che valesse altrettanto”.2

Fuggendo da Ginevra, si reca in Savoia. Un parroco cattolico, cui si era rivolto per essere aiutato, lo manda da Madame de Warens, che si occupa di proselitismo cattolico e svolge servizio di spionaggio per il re di Sardegna. Questa signora, che avrà una posizione centrale nel suo cuore, lo avvia all’Ospizio dei Catecumeni di Torino. Qui, in una decina di giorni, gli si fa abiurare il calvinismo e lo si accoglie nel cattolicesimo.

Ricordando, nelle Confessioni, quel processo rapido e forzato di conversione, Rousseau osserva: “In generale, i protestanti sono più istruiti dei cattolici. Ciò deve dipendere dal fatto che la dottrina dei primi esige la discussione; la seconda impone l’obbedienza. Il cattolico deve accettare la decisione che gli si dà; il protestante deve imparare a decidere”.3

Dopo la conversione, Rousseau si trova abbandonato a se stesso, “apostata e gabbato”; si sente, però, libero, e Torino, “una grande città ricca di risorse”, gli ispira fiducia nelle sue possibilità.

“Prima di tutto cercai di soddisfare la mia curiosità percorrendo la città tutta intera, fosse solo per compiere in quel modo un atto della mia libertà. Mi recai ad ammirare il cambio della guardia; gli strumenti militari mi piacevano molto. Seguii alcune processioni; gustavo le cantatine in falsetto dei preti. Andai a contemplare il Palazzo reale […]. A forza di andare e venire, mi stancai; avevo fame, faceva caldo [era giugno], entrai da una venditrice di latticini, mi dettero una giuncata e due pezzi di quell’eccellente pane piemontese che preferisco a ogni altro: con cinque o sei soldi gustai uno dei più buoni pranzi della mia vita. Dovetti trovarmi un alloggio. Conoscendo già il piemontese quanto bastava per farmi capire, non tardai a trovarlo […]. Mi indicarono in Via Po la moglie di un soldato, che percepiva un soldo per notte dai domestici fuori servizio. In casa sua trovai un giaciglio vuoto e mi ci adagiai. […] Dormimmo tutti nella stessa stanza, madre, figli e ospiti”.

Jean-Jacques cerca di spendere il meno possibile, avendo a disposizione solo i pochi denari della questua della conversione.

“Ero, dunque, sobrio non potendo soddisfare la tentazione di non esserlo; e mi sbaglio pure a definirla sobrietà, perché ci mettevo ogni possibile voluttà. Le mie pere, la mia giuncata, il mio formaggio, i miei grissini e alcuni bicchieri di un vino del Monferrato grosso da tagliarlo a fette, facevano di me il ghiottone più soddisfatto”.

Trova lavoro in una bottega nei pressi di Porta Nuova e s’innamora della giovane padrona, la signora Basile. Con lei ha un brevissimo inizio d’intimità, subito interrotto dall’arrivo di una serva.

“Alzandomi in fretta [si era messo in ginocchio, in una posizione “comica e deliziosa”], afferrai una mano che mi tendeva, e vi applicai due baci ardenti, al secondo dei quali sentii quella mano trepida indugiare un po’ contro le mie labbra. Nella mia esistenza non ebbi più un così dolce momento. Ma, l’occasione perduta non si ripresentò, e i nostri giovani amori non andarono più in là. […] Nulla di quanto mi ha fatto poi sentire il possesso della donna vale i due minuti passati ai suoi piedi, senza neppure sfiorarle gli abiti. No, non ci sono piaceri paragonabili a quelli che può dare una donna onesta che si ama: accanto a lei, tutto è favore. Un rapido cenno del dito, una mano leggermente premuta sulle mie labbra sono le sole concessioni che mai ottenni dalla signora Basile, e il ricordo di così tenui favori mi riaccende al solo pensarci”.4

Il marito, appena tornato da un viaggio e informato da un commesso geloso, lo licenzia in tronco. Aiutato dalla sua padrona di casa, trova lavoro come lacchè presso la contessa di Vercelli. In questa casa gli capita di compiere un atto veramente ignobile di cui si vergognerà a lungo e con tormento.

Ruba “un nastrino rosa e d’argento, già vecchio”, non lo nasconde e viene scoperto. “Vollero sapere dove l’avessi preso. Mi turbo, balbetto, e alla fine dico, arrossendo che l’ho avuto da Marion. Era costei una giovanetta della Moriana, di cui la signora di Vercelli aveva fatto la sua cuoca […]. Marion non solo era graziosa: aveva una freschezza di colori che s’incontra solo in montagna, e più di tutto un’aria di modestia e di soavità che non ti permetteva di vederla e non amarla; buona ragazza, oltre tutto, onesta e di una lealtà a tutta prova. Quando feci il suo nome, esso suscitò viva sorpresa. […] La chiamarono: la compagnia era numerosa, il conte di La Roque era presente. Lei arriva, le mostrano il nastro, io l’accuso sfacciatamente, lei resta fulminata, tace, mi dà uno sguardo che avrebbe disarmato un demonio, e al quale il mio barbaro cuore sa resistere. Lei nega, alla fine, con sicurezza ma senza collera, mi rimprovera, mi esorta a rientrare in me stesso, a non disonorare una ragazza innocente, che nulla aveva mai fatto di male, ed io, con impudenza infernale, ribadisco la mia dichiarazione, e le ripeto in faccia che è stata lei a darmi il nastro. La povera figlia cominciò a piangere: si limitò a dirmi: «Ah! Rousseau, e io vi stimavo un buon carattere. Mi rendete ben disgraziata, ma non vorrei essere al vostro posto!» Tutto qui. Continuò a difendersi con semplicità pari alla fermezza, ma senza scagliare contro di me la più pallida invettiva. La sua moderazione, confrontata alla mia baldanza, la danneggiò. […] Questo ricordo crudele mi angoscia a volte, e mi sconvolge al punto che rivedo nelle mie insonnie la povera ragazza venire e rimproverarmi il mio delitto, come se l’avessi commesso ieri. Finché sono vissuto tranquillo mi ha tormentato meno. Ma, nelle agitazioni di una vita tempestosa, esso mi toglie la più dolce consolazione degli innocenti perseguitati: mi fa provare anche più di quanto mi pare di aver detto in una mia opera, ossia che il rimorso dorme nella prosperità e s’inasprisce nell’avversità. Pure, non mi sono mai potuto decidere ad alleggerire di questa confessione il mio cuore nel seno di un amico. La più stretta intimità non me l’ha mai permessa con nessuno, neppure con la signora di Warens. Mi sono potuto spingere fino a confessare che avevo un atroce rimprovero da muovermi, ma non ho mai detto precisamente cosa fosse. Fino ad oggi il peso è, dunque, rimasto senza sollievo, sulla mia coscienza, e posso dire che il desiderio di liberarmene in qualche modo molto ha contribuito alla risoluzione che ho preso di scrivere le mie confessioni”.5

A Torino, è agitato da desideri erotici che non sa reprimere né soddisfare.

“Andavo in cerca di viali oscuri, di luoghi solitari, dove potessi espormi di lontano alle persone dell’altro sesso nello stato in cui avrei voluto star loro vicino. Esse non vedevano l’oggetto osceno, non ci pensavo neppure, ma l’oggetto ridicolo. Lo sciocco piacere che provavo esponendolo ai loro occhi non si può descrivere. Mancava un passo, e avrei subito il trattamento desiderato, anzi son convinto che qualcuna più risoluta non avrebbe mancato, passando, di procurarmi l’atteso divertimento, se avessi avuto l’audacia di attendere. Questa pazzia si risolse in una catastrofe quasi altrettanto comica, ma un po’ meno piacevole per me”. In un cortile viene messo in fuga chiassosamente da alcune donne e finisce tra le braccia di una guardia: se la cava con “una brevissima reprimenda”, dicendosi “giovane straniero di grandi natali, il cui cervello s’era guastato”.6

A Torino, Rousseau incontra don Gaime, che sarà, “almeno in gran parte, l’originale del Vicario savoiardo” dell’Emilio.

Presta servizio presso il conte di Govone, dove ha modo di farsi notare dalla “signorina di Breglio”, per la quale prova vivo interesse. Nel versarle da bere, preso da un tremito improvviso, sparge l’acqua sul piatto e persino su di lei.

“Suo fratello – racconta – mi chiese stupidamente perché tremavo tanto. La domanda non contribuì a rianimarmi, e la signorina di Breglio arrossì fino al bianco degli occhi. Qui il romanzo finisce; e si noterà, come già con la signora Basile, e come poi, in tutto il seguito della mia storia, che non concludo con fortuna i miei amori”.7

Conosce l’abate di Govone, che ha studiato a Siena ed è molto colto. Con lui s’impegna in latino a un livello troppo superiore alle sue capacità, pasticciandone la conoscenza. Impara, però, “l’italiano nella sua purezza”; acquista “il gusto della letteratura” e la capacità di “discernere i buoni libri”.

“Era mio destino, come si vedrà poi, dover imparare più volte il latino e non saperlo mai. Tuttavia, lavoravo con sufficiente impegno, e il signor abate mi prodigava in suoi aiuti con una bontà il cui ricordo mi commuove tuttora”.8

Tutto procede “a meraviglia”; gode della stima di tutti; buone strade gli si aprono, ma l’incontro fatale con Bâcle lo porta via da Torino.

“Bâcle era un ragazzo divertentissimo, pieno di allegria e di buffe trovate che la sua età rendeva piacevoli. Eccomi, dunque, di colpo infanatichito di Bâcle, ma fanatico da non poterlo più lasciare. Presto egli sarebbe partito per Ginevra. Che perdita per me!”9

Rousseau abbandona Torino con Bâcle, e decide di viaggiare con lui fino ad Annecy, dove conta di ritrovare la sua amabile protettrice.

“Entrando in Annecy, avevamo appena messo piede in città che mi disse: «Eccoti arrivato!», mi abbracciò, mi disse addio, e con una piroetta sparì. Non ho più udito parlare di lui. Conoscenza e amicizia fra noi durarono in tutto sei settimane circa, ma le conseguenza dureranno quanto la mia vita”.10

È accolto con affettuosa premura da Madame de Warens. “Sin dal primo giorno la più dolce familiarità si stabilì tra noi al medesimo livello sul quale essa continuò per tutto il resto della sua vita. «Piccolo» fu il mio nome; «Mammina» (Maman) il suo; e restammo sempre «Piccolo» e «Mammina», anche quando il numero degli anni ebbe quasi cancellato la differenza fra noi. Quei due nomi mi pare che rendano a meraviglia l’idea del nostro tono, la semplicità dei nostri modi e specialmente il rapporto dei nostri cuori”.11

Inizia la fase del soggiorno savoiardo (1729-40), la più felice della sua esistenza, importante anche per gli studi che riesce a realizzare.

Il rapporto con «Mammina» presto si complica: “Era per me più di una sorella, di una madre, di un’amica, e anche più di un’amante e, proprio per questo non era un amante”. Del suo primo incontro d’amore con lei, scrive:

“Fui felice? No. Gustai il piacere. Non so qual invincibile tristezza ne avvelenava l’incanto. Era come se avessi commesso un incesto. Due o tre volte, stringendola con passione tra le braccia, inondai il suo seno di lacrime. Ella invece non era né triste né accesa: era carezzevole e tranquilla. Era poco sensuale e non aveva cercato la voluttà; non ne gustò perciò le delizie, e non ne soffrì i rimorsi”.

È stata lei a proporsi, quando – scrive Rousseau – “si accorse che, per strapparmi ai pericoli della mia giovinezza era venuto il momento di trattarmi da uomo”. Lo avrebbe, quindi, fatto per premura materna, non per passione.

“Aveva un cuore puro, amava le cose oneste, le sue inclinazioni erano rette e virtuose […]. Ma, per sua disgrazia, aveva ambizioni filosofiche, e la morale che si era foggiata sciupò quella che le dettava il cuore. Il signor di Tavel, suo primo amante, fu il suo maestro di filosofia; e i principi che le inculcò erano quelli di cui aveva bisogno per sedurla. Trovandola legata al marito, ai suoi doveri, sempre fredda, ragionevole e inattaccabile dal lato dei sensi, l’assalì coi sofismi, e riuscì a farle apparire i doveri cui era così fedele come ciarle da catechismo fatte solo per divertire i bambini, l’unione dei sessi come l’atto in se stesso più insignificante, la fedeltà coniugale come un’apparenza necessaria, in cui tutta la moralità dipendeva dall’opinione, la tranquillità del marito come sola regola del dovere delle donne, per cui le infedeltà ignorate, inesistenti per chi le subisce, sarebbero tali anche per la coscienza. La convinse, in conclusione, che la cosa in se non aveva nessuna importanza, che la sua esistenza derivava solo dallo scandalo e che ogni donna che sembrasse onesta tale era anche nella realtà. Così lo sciagurato raggiunse il suo scopo corrompendo la ragione di una fanciulla della quale non era riuscito a corrompere il cuore. La sua punizione fu la più avida gelosia, convinto che lo trattasse come le aveva insegnato lui stesso a trattare il marito. Non so se s’ingannasse. Il ministro Perret passò per il suo successore. So solo che il freddo temperamento di quella donna giovane, che avrebbe dovuto preservarla da quel sistema, fu il carattere che in seguito le impedì proprio di rinunciarvi. Ella non poteva concepire che si desse tanta importanza a ciò che per lei non ne aveva minimamente. Non onorò mai col nome di virtù un’astinenza che a lei costava così poco.

Non avrebbe, dunque, per se stessa abusato di quel falso principio; ne abusò nei riguardi degli altri, il che dipese da un’altra norma quasi altrettanto errata, ma più in armonia con la bontà del suo cuore. Ella credette sempre che nulla leghi un uomo a una donna quanto il possesso fisico; e, benché per i suoi amici non provasse altra forma d’amore che l’amicizia, era un’amicizia così tenera che si serviva di ogni mezzo a sua disposizione per stringerli col nodo più forte. […] Altra cosa notevole è che, dopo la sua prima caduta, ella non concesse i suoi favori che agli sventurati; gli uomini di mondo si son sempre affannati invano per lei: ma bisognava che un uomo, che ella cominciava col compiangere, fosse proprio odioso perché non finisse con l’amarlo. Qualche sua scelta indegna, anziché da bassi istinti, partì unicamente dall’eccessiva generosità del suo cuore, troppo umano, troppo corrivo a compatire, troppo sensibile, e che non sempre ella dominò con sufficiente discernimento. […] Concludendo, per tornare al suo lato meno perdonabile, senza stimare i suoi favori nel loro valore, ella non li trasformò mai in un mercato. Li prodigava, ma non li vendeva, benché sempre costretta ad espedienti per vivere, e oso dire che, se Socrate poté stimare Aspasia, avrebbe avuto rispetto per la signora di Warens”.

Rousseau sa di dividere il letto di Mammina con il domestico ed erborista Claude Anet, che non è all’oscuro del nuovo rapporto della sua amante.

“Quante volte [Mammina] intenerì i nostri cuori e ci fece abbracciare con le lagrime agli occhi, dicendoci che eravamo entrambi necessari alla felicità della sua vita! Le donne che leggeranno questo sorrideranno maligne. Col temperamento di lei, questo bisogno non era equivoco: era unicamente il bisogno del suo cuore.

Fra noi si stabilì in questo modo un’unione senza esempio sulla terra. Tutte le nostre aspirazioni, le nostre cure, i nostri cuori erano in comune; nulla si svolgeva fuori di quel piccolo cerchio. L’abitudine di vivere insieme e di viverci esclusivamente divenne così grande che se, a tavola, mancava uno dei tre o si aggiungeva un quarto, tutto si spezzava, e, nonostante i nostri particolari rapporti, i colloqui a due ci erano meno dolci”.

Claude Anet muore di pleurite nella primavera del 1734.

“Ecco come perdetti il più sicuro amico che ebbi nella mia vita, uomo stimabile ed eccezionale, nel quale la natura tenne luogo dell’educazione, che coltivò nella servitù tutte le virtù dei grandi uomini”.12

Nell’estate del 1737 è oppresso da mali che i medici non sanno spiegare.

“Ero pallido come un morto e magro come uno scheletro: le mie arterie battevano terribilmente, le mie palpitazioni erano più frequenti. Ero oppresso di continuo […]. Non potevo affrettare il passo senza sentirmi soffocare, curvarmi senza soffrire di vertigini […]. In tutto ciò si mescolavano di certo molti vapori. I vapori sono le malattie delle persone felici. Era la mia: lagrime versate senza motivo di pianto, timori vivi per uno stormire di fronde o per un bisbiglio d’uccello, instabilità di carattere nella calma della più dolce vita, tutto ciò contrassegnava quella nausea del benessere che, per così dire, fa vagare fuori di sé la sensibilità. Siam così poco fatti per essere felici in questa vita che è inevitabile che l’anima o il corpo soffrano, quando non soffrano insieme, e che le buone condizioni dell’uno quasi sempre danneggino l’altra. Proprio quando avrei potuto godere deliziosamente la vita, la mia macchina in decadenza me lo impediva, senza che si potesse dire dove la causa del male avesse la sua vera sede. In seguito, nonostante il declino degli anni e l’esistenza di mali realissimi e gravissimi, il mio corpo pare che abbia ripreso forza per avvertire meglio le mie sventure; e mentre ora scrivo queste pagine, infermo e alle soglie dei sessant’anni, avvilito da dolori di ogni specie, mi sento, per soffrire, più vigore e più vita di quanto non disponessi nel fiore dei miei anni e in seno alla più schietta felicità”.13

Lo studio dell’anatomia, avviato allora, aggrava la sua situazione: “Non leggevo la descrizione di una malattia senza credere che fosse la mia”. Si convince di avere “un polipo al cuore”. Pensa di essere prossimo a morire. Va a Montpellier in cerca di un medico che “aveva guarito un simile polipo”.

Durante il viaggio ha un’esperienza erotica felice con la signora di Larnage, una donna “affascinante, sebbene non fosse né bella né giovane”, che travolge le sue insicurezze ed esitazioni abbracciandolo e baciandolo.

Quel “successo” lo libera dalla paura di essere gravemente malato.

“Non ero più lo stesso uomo. […] Quella vita deliziosa durò quattro o cinque giorni, durante i quali mi satollai, mi inebriai delle più dolci voluttà. Le gustai pure, vive, senza nessuna mistura di pena: furono le prime e le sole che abbia gustate così, e posso dire che vado debitore alla signora di Larnage di non morire senza aver conosciuto il piacere. Se quanto provavo per lei non era propriamente amore, era per lo meno un ricambiare con tanta tenerezza quello che lei mi dimostrava, era una sensualità così ardente nel piacere e un’intimità così dolce nel conversare che quel sentimento aveva tutto il fascino della passione, senza però il delirio che sconvolge la mente e impedisce di godere. Non provai l’amore vero che una sola volta nella mia vita, e non fu vicino a lei. Non l’amavo neppure come avevo amato la signora di Warens; ma proprio per questo la possedevo cento volte meglio. Con Mammina il mio piacere era sempre amareggiato da un senso di tristezza, da una segreta stretta al cuore che non superavo senza fatica; anziché rallegrarmi di possederla, mi rimproveravo di avvilirla. Con la signora di Larnage, al contrario, orgoglioso di essere uomo e di essere felice, mi abbandonavo ai miei sensi con gioia, con fiducia; partecipavo all’impressione prodotta da me sui sensi di lei, e mi dominavo abbastanza per contemplare con vanità pari alla voluttà il mio trionfo e per trarne di che raddoppiarlo”.14

Mette fine a quella felice esperienza per un complesso di ragioni, compresa la volontà morale di “consacrarsi senza riserve al servizio della madre migliore”. Torna, quindi, da Mammina. Trova, però, il suo posto occupato da un altro, di quattro anni più giovane di lui. Decide di ritirarsi dal letto di Mammina, per continuare ad adorarla. Cerca di far funzionare il nuovo rapporto a tre, di diventare “amico di quel giovane, formarlo, lavorare alla sua educazione”. Non ci riesce. E il cuore di Mammina si raffredda nei suoi confronti: “Insensibilmente mi sentii isolato e solo in quella stessa casa dove prima ero io l’anima […]. Concepii il progetto di abbandonare la sua casa. Lo dissi a lei e, anziché opporsi, ella lo favorì”.15

Nel 1740, ad aprile, va quindi a Lione a fare il precettore dei due figli del signor di Mably. Un fallimento totale: “Quando i miei allievi non mi capivano, sragionavo e, quando palesavano cattiveria, li avrei ammazzati. […] Non sapevo adoperare con loro che tre strumenti sempre inutili e spesso dannosi con i bambini: il sentimento, il ragionamento, la collera”.

Prova ancora a tornare da Mammina: “Dopo essere rimasto mezz’ora con lei, mi resi conto che la mia antica felicità era morta per sempre”. Tuttavia, nel suo caro studiolo, dove si ritira sempre più a lungo, la sua passione per la musica lo porta a scoprire un modo per scriverla con cifre. Parte, quindi, per Parigi per presentare all’Accademia delle Scienze la sua scoperta.

Nel 1742 arriva a Parigi. Inizia, nel 1743, una deludente e breve esperienza come segretario dell’ambasciatore francese Montaigu a Venezia.

Nel 1744 torna a Parigi e comincia a inserirsi nel suo vivissimo mondo culturale. Diventa amico di Diderot e di Condillac ed è bene accolto nei salotti. Ha difficoltà a provvedere alla sua sussistenza.

Nel 1745 incontra, nel suo albergo, Thérèse Le Vasseur, una cucitrice, ventitreenne: “Qualcuno molestò la piccina; io ne presi le parti. […]. Divenni apertamente il suo campione. Vidi ch’era sensibile alle mia premure, e i suoi sguardi, animati dalla riconoscenza, ch’ella non osava esprimere a voce, diventavano anche più eloquenti. Era timidissima, e io anche. […]. L’affinità dei nostri cuori, il confluire delle nostre inclinazioni ebbero ben presto il loro naturale sviluppo. In me ella credette di vedere un uomo onesto, e non si ingannò. Io credetti di trovare in lei una ragazza sensibile, semplice e senza civetteria; neanch’io m’ingannai. Le dichiarai subito che non l’avrei né abbandonata né sposata mai. […]. Non avevo cercato che un passatempo. Scoprii che avevo trovato di più, e che mi ero data una compagna”.

Thérèse è incolta, sa un po’ scrivere, ma non leggere.

“Volli da principio coltivare la sua mente: ci rimisi il mio tempo. La sua intelligenza è come l’ha plasmata la natura: cultura e insegnamenti non vi attecchiscono. […] Ma, questa persona così limitata e, se si vuole, così stupida, è un’ottima consigliera nelle occasioni critiche. Spesso in Svizzera, in Inghilterra, in Francia, nelle catastrofi in cui mi trovai, ella vide cose che io stesso non scorgevo; mi diede i migliori consigli sul da farsi; mi trasse dai pericoli verso i quali ciecamente precipitavo […]. Vivevo beato con la mia Thérèse come col più bel genio dell’universo”.

Sono gli anni in cui matura idee profondamente anticonformiste, che manifesta in modo clamoroso nel 1751 con il Discorso sulle scienze e sulle arti. Inizia, così, il suo periodo più fecondo e in un decennio produce i suoi capolavori letterari e filosofici. Nel 1758, pubblica la Lettera a d’Alembert sugli spettacoli. Il suo rapporto con gli enciclopedisti si guasta e, col tempo, va sempre più deteriorandosi. Si ritira, allora, prima all’Ermitage e, poi, a Montmorency, dove porta a compimento i suoi capolavori.

Nel 1762 inizia la persecuzione delle autorità francesi, ma presto anche ginevrine, contro l’autore dell’Emilio e del Contratto sociale.

A Motiers, nella contea di Neuchâtel, dove si rifugia nel mese di luglio, deve fruire della protezione di Federico II, il re di Prussia, che, a differenza di altri enciclopedisti, egli non ha mai corteggiato.

“Quell’amore innato della giustizia, che divorò sempre il mio cuore, congiunto alla mia segreta predilezione per la Francia, mi aveva sempre ispirato avversione per il re di Prussia, che, per i suoi principi e la sua condotta, mi pareva che calpestasse ogni rispetto per la legge naturale e per tutti i doveri umani. Fra le incisioni incorniciate, con le quali avevo ornato il mio torrione a Montmorency, c’era un ritratto di quel principe, sopra il quale si leggeva un distico che terminava così: «Pensa da filosofo, e si comporta da re». […] Avevo ancora aggravato quel primo torto in un passo dell’Emilio, in cui, sotto il nome di Adrasto, re dei Dauni, si vedeva chiaramente a chi mirassi […]. Ero perciò ben sicuro di trovarmi segnato con l’inchiostro rosso sui registri del re di Prussia. […] Tuttavia, osai abbandonarmi alle sue mani, stimandolo un lieve rischio. Sapevo che le basse passioni non dominano che gli uomini deboli, e hanno scarsa efficacia sulle anime di forte tempra, come avevo sempre considerata la sua. Pensai che della sua arte di regnare facesse parte il mostrarsi magnanimo in simile occasione; e che non superasse il suo carattere esser tale di fatto. Giudicai che una vile e facile vendetta non avrebbe conteso un istante in lui con l’amore della gloria; e, mettendomi al suo posto non credetti impossibile che si servisse della circostanza per prostrare col peso della sua generosità l’uomo che aveva ardito pensar male di lui”.16

Gli scrive: “Ho detto molto male di voi; forse ne dirò ancora e tuttavia, cacciato dalla Francia, da Ginevra, dal Cantone di Berna, vengo a cercare asilo nei vostri Stati. Il mio errore è stato forse di non aver cominciato da questi. Quest’elogio è uno di quelli di cui siete degno. Sire, non ho meritato alcun favore da Voi e non ve ne domando. Ma ho creduto di dover dichiarare a Vostra Maestà che sono in suo potere e che ho voluto esserlo. La Maestà Vostra può disporre di me come le piacerà”.17

Federico scrive al governatore di Neuchâtel:

“Bisogna aiutare questo sventurato; che ha il solo torto di nutrire opinioni singolari che però ritiene buone … Se non avessimo avuto la guerra e non fossimo in rovina, gli farei costruire un ermitage con un giardino dove potrebbe vivere così come crede che abbiano vissuto i nostri progenitori, anche se, per quanto mi riguarda, le mie idee differiscono dalle sue quanto il finito dall’infinito ed egli non mi persuaderebbe mai a brucare l’erba e a camminare a quattro zampe”.18

Nel 1765, Rousseau, che nelle Confessioni scrive di non aver “mai amato né l’Inghilterra né gli Inglesi”, accetta l’invito di Hume a recarsi in Gran Bretagna, ma anche questo rapporto si guasta, per le sue patologiche e sempre più tormentose paure di complotti e di tradimenti. Torna in Francia e inizia a scrivere le Confessioni, completa il suo pensiero politico con il Progetto per la Corsica e le Considerazioni sul governo della Polonia. Sposa Thérèse.

Preoccupato del giudizio dei posteri, scrive, nel 1772, Rousseau giudice di Jean-Jacques e, nel 1776-78, Le fantasticherie di un passeggiatore solitario.

Negli ultimi anni la sua mania di persecuzione si aggrava e lo porta ad aprire la porta di casa con sempre più difficoltà e diffidenza. Arriva a distribuire ai passanti dei foglietti nei quali denuncia le calunnie di cui si crede vittima.

Muore il 2 giugno 1778, a Ermonville.

Torino 13 Ottobre 2014

Giuseppe Bailone

NOTE

1 Citato in Rousseau, Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni editore 1972, p. LXVI.
2 Rousseau, Confessioni I, Einaudi 1955, p. 46.
3 Ib. II, p. 73.
4 Ib. pp. 79-88.
5 Ib pp. 93-5.
6 Ib. III, pp. 98-9.
7 Ib. p. 106.
8 Ib. p. 107.
9 Ib. p. 109.
10 Ib. p. 113.
11 Ib. p. 117.
12 Ib. V, pp. 216-25, per tutte le citazioni relative a questa fase con Madame di Warens.
13 Ib. p. 271.
14 Ib. VI, pp. 276-78.
15 Ib. VI, pp. 286-92.
16 Ib. XII, pp. 649-50.
17 Riportato in “Nota sui testi e sulla biografia”, delle Opere di Rousseau a cura di Paolo Rossi, Sansoni editore 1972, p. LXVI.
18 Ibidem.

Opere di G. Bailone

Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Testi di Rousseau


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 15-06-2015