La logica simbolica di Leibniz

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Leibniz: LA LOGICA SIMBOLICA

(1646-1716)

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Premessa

Forse la parte più interessante di Leibniz, non priva di ingenuità, è quella dedicata alla logica simbolica. L'ingenuità sta nel fatto ch'egli faceva coincidere verità con correttezza dal punto di vista di quest'ultima. Cioè un'affermazione per lui diventava vera quando era formalmente corretta. Così facendo aveva, in un certo senso, inaugurato il trionfo della sintassi sulla semantica, che tanta fortuna avrà, dopo di lui, nell'ambito delle filosofie positivistiche e, se vogliamo, anche negli ambiti linguistico-strutturali. Ancora oggi la grammatica viene insegnata sulla base di un modello di derivazione logico-matematico. Non solo, ma sulla base dei princìpi di Leibniz, il primo dei quali era che si possono usare simboli in maniera corretta, pur senza produrre frasi sensate, si arriveranno a formulare i linguaggi informatici.

Egli era convinto che si potesse creare un linguaggio universale e necessario semplicemente combinando dei simboli, sul significato dei quali vi doveva essere un consenso preventivo. Sulla scia di Hobbes (che però aveva soltanto intuito la cosa), Leibniz diceva che ragionare è calcolare, ovvero che i concetti possono essere sostituiti dai simboli (più sintetici e quindi più pratici). Ovviamente il consenso sui simboli primari, da cui tutti gli altri sarebbero dovuti derivare, avrebbe dovuto esser dato - secondo lui - dalla comunità scientifica europea. L'ingenuità stava appunto nel fatto che si riduceva la complessità del linguaggio umano (che è una caratteristica della sua ricchezza) a una indebita semplificazione, la quale, pur trovando una qualche utilità in settori logico-matematici, astratti e concreti, non ne ha alcuna nella comprensione del linguaggio umano vero e proprio, la cui specificità sta proprio nell'ambiguità semantica delle sue infinite espressioni.

Un linguaggio universale della scienza

Nella prima fase della sua vita Leibniz sosteneva, piuttosto ingenuamente, che, una volta stabilito una sorta di alfabeto dei pensieri umani, si potessero scoprire e giudicare tutte le cose dalla semplice combinazione delle lettere di questo alfabeto e dall'analisi dei vocaboli composti da queste lettere. Lo stesso atteggiamento l'aveva maturato negli studi universitari di diritto. Infatti era assolutamente convinto di poter ridurre i complicati casi giuridici a semplici casi comuni, risolvibili col buon senso.

In particolare voleva creare un linguaggio universale della scienza, basato su simboli o caratteri, una sorta di "pasigrafia", con cui nel Settecento s'intendeva un sistema di segni convenzionali che potesse essere compreso da persone di lingua diversa. L’idea fondamentale era quella di stabilire corrispondenze tra le parole di una data lingua e un serie numerica o simbolica, che poi ciascuno potesse leggere nella lingua propria. Nel 1801 si arrivò anche a parlare di "pasilalia", indicante una lingua artificiale universale che si applica a una pasigrafia, i cui segni, mediante regole determinate, possono trasformarsi in gruppi di suoni pronunciabili. Al tempo di Leibniz vere e proprie pasigrafie furono i saggi di lingua universale di G. Dalgarno (1661), di J. J. Becher (1661) e di J. Wilkins (1668).

L'idea della pasigrafia era stata suggerita dai numeri arabi, che ognuno legge nella propria lingua, e dalla constatazione fatta dai missionari cristiani, secondo cui i caratteri cinesi sono compresi da popoli, come il giapponese, che hanno un'altra lingua. Nella vita quotidiana si ha "pasigrafia" nella classificazione decimale e nei codici telegrafici (alfabeto Morse), ma si tenta di realizzarla anche nella segnaletica stradale e nel linguaggio per sordomuti, dove i singoli segni di una lingua possono essere scomposti in un numero relativamente limitato di unità minime prive di significato, che combinate diversamente danno origine a moltissimi segni, esattamente come nelle lingue parlate i fonemi (le unità linguistiche minime prive di significato) possono, componendosi e ricomponendosi tra loro, dare origine a un numero enorme di parole diverse.

Leibniz voleva stabilire un alfabeto del pensiero umano che rendesse possibile derivare in maniera deduttiva nuove idee mediante regole di combinazione dei simboli. Questa cosa pensava di ottenerla mediante la logica, nella convinzione di poter stabilire una classificazione dei concetti in base alla loro "certezza" (concetti chiari e oscuri oppure intuitivi e simbolici, ecc.). In tal modo la verità (che per lui era una sensatezza logico-formale) di una proposizione stava nel fatto, dimostrato, che il predicato era già incluso nel soggetto.

Tuttavia quando scrisse la Monadologia (1714) aveva già capito che la logica non era in grado di spiegare tutti gli eventi contraddittori. In sostanza dall'ingenuità del primo periodo, in cui era convinto di poter ridurre ai minimi termini qualunque complessità, ovvero di poter elaborare qualunque complessità combinando tra loro elementi semplici, Leibniz era passato, nel secondo periodo (quello della maturità), a dire che se persistono eventi contraddittori, non riducibili a una spiegazione logica, si può sempre pensare che vi deve pur essere una ragione sufficiente che li giustifichi.

Quindi da un lato se per lui vi erano le cosiddette "verità di ragione", che si basano sul principio logico di non-contraddizione, per cui una cosa non può essere nel contempo il suo contrario; dall'altro vi erano anche le cosiddette "verità di fatto", che si basano sul principio di ragion sufficiente, per cui ogni cosa effettivamente esistente, anche se ci appare inspiegabilmente contraddittoria, deve comunque avere una motivazione plausibile, cioè logica, che spieghi il motivo per cui essa è così e non altrimenti.

Fonti ispirative della pasigrafia leibniziana

Per formulare la sua logica simbolica Leibniz si è ispirato a Raimondo Lullo (1233–1316), monaco d'Aragona, che riteneva possibile dimostrare i dogmi della religione cristiana con mezzi puramente logici. Lullo realizzò una macchina composta di cerchi concentrici su cui erano scritti i simboli dei concetti. Ruotando i dischi, i concetti si combinavano tra loro, in modo tale da avere conclusioni di tipo logistico a partire da determinate premesse. Il numero delle combinazioni logiche possibili era 96 = 531.441, ma il numero delle combinazioni totali, incluse quelle non logiche, era spropositato: 5116!

Un altro linguista che influenzò Leibniz fu George Dalgarno (1627-87), che aveva cercato di classificare i concetti in modo che fosse possibile passare dalle classi generali alle suddivisioni specifiche.

Leibniz infatti era convinto che il soggetto umano usa i segni non solo per comunicare ad altri i propri pensieri, ma anche per semplificare lo stesso processo del pensiero. Cioè nel momento in cui si comunica qualcosa, necessariamente la si semplifica. I segni, quindi, combinati tra loro, devono per forza avere una logica stringente, sufficientemente chiara e distinta, altrimenti la semplicità della comunicazione sarebbe impossibile. Ecco perché riteneva che la pasigrafia logica dovesse seguire l'esempio della matematica. Senonché, quando esaminava talune scienze non matematiche, egli si rendeva conto che trovare le nozioni fondamentali di tali scienze era piuttosto complesso. Resta comunque il fatto che le sue teorie di logica simbolica troveranno notevoli sviluppi non solo in campo matematico, ma anche in quello informatico.

Quella che lui definisce la "caratteristica universale" (o "arte combinatoria" o della "notazione") non è che un sistema di simboli rigorosamente definiti, usati per denotare gli elementi semplici degli oggetti di una scienza. Ovviamente tali simboli, visto che devono svolgere una funzione sintetica e immediatamente comunicativa, devono essere di forma breve e compatta, racchiudendo la massima informazione possibile nel minor spazio.

Leibniz era altresì convinto che dovesse esistere un certo isomorfismo tra i simboli e gli oggetti denotati, per rendere più naturale possibile la comunicazione (si pensi appunto a quegli alfabeti antichi in cui i concetti si esprimono con segni stilizzati o con immagini visive, come quello cinese o egizio). Le idee complesse devono poter essere rappresentabili, secondo Leibniz, come combinazioni di idee elementari. Se per comprendere le idee complesse ci si impiega troppo tempo, vuol dire o che i simboli non sono sufficientemente chiari oppure che non si è esercitata a sufficienza la facoltà dell'intuito.

Secondo Leibniz la Scolastica medievale era fallita proprio perché non aveva accettato l'idea di darsi un linguaggio rigoroso, soggetto alle regole di una formalizzazione accuratamente elaborata. Linguaggio preciso voleva dire, per Leibniz, che bisogna usare le lettere per denotare gli elementi semplici dei ragionamenti logici; le formule per i ragionamenti logici complessi; e le equazioni per esprimere giudizi.

L'altro suo grande ispiratore fu Giordano Bruno, che aveva sempre dato grande importanza a un simbolismo utile a fini mnemonici. La stessa parola "monade" viene da lui, che la usò nel libro De monade, numero et figura. Per poter sostenere che la monade è l'unità fondamentale dell'essere, in cui materia e forma si uniscono organicamente, costituendo la sostanza individuale, Bruno era arrivato a sostenere delle tesi che Leibniz erediterà in toto: 1) ciò che è superiore è contenuto in ciò che è inferiore; 2) la causa è racchiusa nell'azione; 3) il genere è racchiuso nell'individuo; 4) i processi di perfezionamento sono tutti in potenza all'interno della monade.

Le monadi, per entrambi, sono assolutamente infinite. Sul piano più propriamente logico, Bruno aveva individuato tre operazioni fondamentali della ragione: 1) individuazione degli oggetti semplici sulla base dell'alfabeto lulliano; 2) astrazione generalizzatrice e particolarizzatrice, che è lo studio dei metodi di combinazione e separazione dei termini; 3) dimostrazione logica.

Leibniz si convinse, grazie a Bruno, che le essenze non esistono come universali, ma solo come monadi. La monadologia doveva servire per scardinare le astrazioni della metafisica e della teologia scolastica.

Il terzo motivo ispiratore della metodologia leibniziana fu la concezione cartesiana della matematica universale, grazie all'introduzione dell'algebra letterale e all'uso sistematico delle variabili. La matematica è infatti la scienza universale dell'ordine e della misura. E Leibniz volle fare della logica una sorta di matematica. Il suo problema era quello di come matematizzare la logica, superando i limiti della Scolastica, troppo condizionata dalla metafisica. Ma arrivò, in un certo senso, a fare anche il contrario, cioè a logicizzare la matematica, anche se questo suo tentativo non conseguì risultati apprezzabili.

Gli studi sulla natura analitica delle proposizioni

Se si vuole comprendere la logica di Leibniz bisogna concentrarsi sui suoi studi relativi alla natura analitica delle proposizioni, nei quali egli afferma che in ogni proposizione il predicato è parte del contenuto del soggetto, per cui, per capirlo, è sufficiente analizzare analiticamente il soggetto.

Oggi è opinione abbastanza comune che il soggetto, preso in sé e per sé, sia soltanto un'astrazione, che non può neppure essere sufficientemente definita; tanto meno quindi lo possono essere i suoi predicati, se si prende il soggetto come metro di misura.

Da tempo siamo abituati a pensare che il soggetto, in realtà, sia piuttosto una relazione tra soggetti che non una monade isolata, per cui ogni suo predicato può essere compreso solo all'interno della relazione che vive. Anzi, i predicati di un soggetto sembrano andare al di là del soggetto stesso, cioè risultano più importanti del soggetto individuale, al punto che è il soggetto a essere compreso nei predicati che rimandano a relazioni tra soggetti e quindi a significati intersoggettivi e addirittura pre-soggettivi, in quanto appunto costitutivi della soggettività.

I predicati ci precedono come memoria e ci superano come desiderio, essendo parte di una cultura, ovvero di una semantica, che, pur non potendo sussistere senza soggetti, si riproduce finché sussistono le condizioni che rendono possibili le relazioni tra soggetti. E sono queste relazioni che decidono quanto di quella cultura va conservato o abbandonato. Ed è soltanto la storia, non la logica, che potrà decidere quanto di quelle conservazioni o abbandoni è stato fatto secondo criteri di verità e di giustizia.

Leibniz era convinto che potesse esistere un rapporto commensurabile tra soggetto e predicato, calcolabile addirittura con l'algoritmo euclideo. Nei casi d'incommensurabilità egli faceva ricorso a "frazioni continue infinite", cioè si serviva di un'infinità matematica per indicare un limite invalicabile nella conoscenza sicura. L'infinità della conoscenza o era, per lui, un prodotto necessario stabilito a priori, in maniera meccanica, combinando elementi semplici, oppure era del tutto inutile per lo sviluppo della logica.

Quello che Leibniz non comprende è che la commensurabilità non può mai essere verificata prendendo come punto di riferimento il soggetto individuale e i suoi attributi. L'insieme è sempre superiore alla somma delle sue parti e nessuna singola parte è intelligibile a prescindere dall'insieme che la contiene.

In tal senso è improponibile il metodo di Leibniz secondo cui, visto che il predicato è contenuto interamente nel soggetto, per giungere a una definizione completa del soggetto è sufficiente scomporre quest'ultimo nei suoi termini più semplici, in modo tale che l'analisi di una verità o di una proposizione si riduce all'analisi dei concetti, cioè in sostanza alla definizione. Da notare che questo è un limite che si ritrova anche in Cartesio.

La grammatica di Leibniz è tutta impostata sulla spiegazione della sintassi, che prescinde totalmente dalla semantica. Una proposizione ha senso se formalmente è corretta, non se trova una corrispondenza nella realtà. Non è così però che funziona l'ermeneutica, meno che mai quando il soggetto in questione è di tipo umano. La logica non può porsi soltanto come un'espressione matematica. Se vogliamo che la logica acquisisca un significato più complesso di quello matematico, bisogna che tenga conto dell'insieme prima ancora dell'analisi delle sue singole parti, e un insieme non può essere composto da una monade isolata individuale, a meno che per "monade" non s'intenda una realtà di soggetti interdipendenti, che svolgono attività tra loro interconnesse. In tal senso una monade potrebbe essere una comunità autosufficiente, la cui autosussistenza non dipende da fattori esterni, come possono essere i mercati o altri enti astratti e spersonalizzati, come p.es. gli Stati. In tal caso tuttavia i componenti di tali comunità non potrebbero certo avere le stesse caratteristiche delle monadi di Leibniz, che sono senza porte e senza finestre.

L'uso presuntuoso e ingenuo della logica

Uno dei difetti principali della logica di Leibniz sta proprio nell'ingenua pretesa di poter dimostrare logicamente tutte le verità. È ovvio che se uno studioso tratta dei problemi della logica, può sentirsi indotto a cadere in questa ingiustificata presunzione, che poi è una forma di artificiosità, che nella vita pratica può essere utile in momenti molto particolari, circoscritti nello spazio e nel tempo. È assurdo infatti pensare che "tutte" le verità possono essere "dimostrate" logicamente. Se ciò fosse possibile, chi non vi credesse dovrebbe essere considerato come schiacciato dal peso dei propri pregiudizi. Si può tentare di argomentare con una certa coerenza o rigorosità le proprie tesi, ma non si può pretendere ch'esse abbiano il valore di una "rivelazione religiosa", indiscutibile, come se fosse proveniente da una autorità sovrumana.

In realtà non c'è alcuna parola o frase che non sia soggetta a interpretazioni opposte. Persino una parola così fondamentale per ogni religione, come "rivelazione", può facilmente essere interpretata come una semplice "illuminazione interiore" o una "improvvisa ispirazione" o una "intuizione immediata". Quando sono in gioco sensazioni o atteggiamenti del genere, così soggettivi, si può davvero esporre la propria verità secondo delle dimostrazioni "logiche"? Ci sono verità che non possono essere dimostrate "logicamente", anzi, nella vita delle persone umane risultano essere proprio queste verità quelle fondamentali, le quali, in genere, vengono date per scontate.

Certe verità sono un dato acquisito, in quanto dipendenti da un background culturale, da cui i soggetti di un collettivo provengono. In questi casi è la vita che s'incarica di "dimostrare" la fondatezza di quelle verità, le quali non vengono neppure "dimostrate", secondo le procedure della logica, ma semplicemente "mostrate", e ad esse si crede per abitudine, poiché si sa a priori che sono verità fondamentali per tenere in piedi una qualunque convivenza.

Quando qualcuno si preoccupa di "dimostrarne" la fondatezza, c'è da insospettirsi, perché vuol dire che esse, in qualche maniera, sono venute meno, non hanno più la forza persuasiva di prima. Questo a prescindere dal valore positivo o negativo di quelle verità. Chi difende delle verità negative, usando lo strumento della logica, lo fa perché evidentemente si è accorto ch'esse cominciano a essere messe in discussione, magari anche solo, inizialmente, da comportamenti inusuali. Ma anche chi difende con la logica delle verità positive, evidentemente lo fa perché vede di fronte a sé una logica sbagliata, che giustifica comportamenti sbagliati. Quindi sia in un caso che nell'altro l'uso della logica entra in gioco quando sul piano pratico esiste un'anomalia, sia essa a favore o contro i valori umani fondamentali.

Da questo punto di vista, sostenere - come fa Leibniz - che possono esistere verità di ragione che non dipendono dall'esperienza, è cosa tutta da "dimostrare". Infatti, o queste sono verità irrilevanti per la sopravvivenza di una comunità, come p.es. 2+2=4, oppure sono verità che coincidono con quelle di fatto e che si danno appunto per scontate.

Il principio di non-contraddizione non ha bisogno d'essere "dimostrato": sono i fatti che lo "mostrano". Anzi gli stessi fatti possono incaricarsi di "dimostrare" che A, a volte, può essere anche non-A: dipende sempre dalle circostanze concrete. Se questo non potesse in alcuna maniera essere vero, la criminologia - tanto per fare un esempio - non esisterebbe neppure. I delitti compiuti da persone giudicate insospettabili, in situazioni del tutto normali, sono l'esempio più lampante che, in determinate circostanze, uno può diventare il contrario di se stesso, a dispetto di qualunque logica; tant'è che in casi del genere si vanno a consultare gli esperti della "psiche".

Chi s'interessa in maniera eccessiva di logica, sperando di trovare delle verità indipendenti dalla vita, è perché ha l'impressione che la vita non abbia alcun senso. È solo una forma di illusione, di consolazione psicologica quella di poter avere delle verità di ragione che non dipendono dalla realtà concreta, quotidianamente vissuta.

Se la vita è contraddittoria, al punto che le sue contraddizioni appaiono ingiustificate o addirittura inspiegabili, è sugli antagonismi sociali che bisogna lavorare: non serve a nulla rifugiarsi nelle astrazioni di una logica formale. Non si può trasformare la logica in una sostanza oppiacea, anche perché alla fine si arrivano a sostenere cose assurde, come quando Leibniz, p.es., afferma che per poter usare una data definizione, è necessario anzitutto dimostrare che l'oggetto della definizione è possibile, cioè che l'assunzione dell'esistenza dell'oggetto non dà luogo a contraddizione.

Hegel avrebbe sorriso di fronte a definizioni del genere, in quanto, per lui, gli oggetti hanno senso proprio perché contraddittori. Là dove manca la contraddizione, esiste solo un'astrazione priva di senso. Leibniz invece sosteneva il contrario, e cioè che gli oggetti, le cose, gli eventi hanno senso solo se il loro opposto non è possibile, se non virtualmente.

Guardare la realtà con gli occhi della logica, porta a costruire delle situazioni irreali, da favola. Leibniz è come il proprietario di un castello che non permette a nessuno di usare le proprie cose perché vuole che stiano sempre al loro posto. Se fosse vero ciò ch'egli diceva, e cioè che una definizione deve comprendere tutte le condizioni necessarie per dimostrare tutte le proprietà dell'oggetto da definire, sarebbe impossibile una qualunque definizione, a meno che non ci si accontentasse di qualcosa di banale.

Noi diamo definizioni ben sapendo che non hanno alcuna pretesa di esaustività. C'è sempre qualcosa che ci sfugge ed è sempre bene dichiarare d'essere disponibili a rivedere le proprie tesi. Una verità può essere oggettiva pur nella sua relatività, e l'oggettività non è data dalla sua coerenza interna, ma dalla capacità che ha di rispecchiare l'essenza della realtà. E l'essenza è basata proprio sulla contraddizione, sia essa del tutto naturale o in forma antagonistica, cioè inconciliabile. Pertanto, condizione necessaria per la verità non è la coerenza - come vuole Leibniz -, che pensava di poterla ottenere scomponendo l'idea negli elementi più semplici; ma è la capacità di saper cogliere la contraddizione nella sua essenza costitutiva.

L'algebra logica di Leibniz

Cerchiamo ora di capire il significato dell'algebra logica elaborata da Leibniz. La sua nozione d'identità è alquanto singolare. Essa infatti si riduce alla possibilità di considerare uguali degli oggetti per i quali non è possibile trovare una ragione per dirli diversi. Identità vuol dire indistinguibilità.

In altre parole, invece di far emergere l'identità dalla relazione, la logica leibniziana va per esclusione, scartando ciò che non è somigliante. L'identità diventa una sorta di ripiego. "Si è" soltanto perché "non si è" ciò che ci può contraddire. Alla fine l'unico vero principio ermeneutico che per lui conta è quello di "ragione sufficiente". Cioè dobbiamo accontentarci che certe cose "siano" o che "siano vere" solo perché non c'è nulla che possa smentirle.

Come si può facilmente notare, il principio di ragion sufficiente è qualcosa di artificioso sul piano gnoseologico, proprio perché ha come presupposto l'individualismo di chi lo formula. Un principio del genere non può portare ad alcuna scientificità. La misura della conoscenza diventa, alla fine, una sorta di calcolo delle probabilità.

Lo stesso passaggio da una qualità a un'altra è visto in maniera del tutto naturale, senza salti. Leibniz ha voluto mettere in risalto la funzione della libertà contro la necessità spinoziana, ma la sua libertà, alla resa dei conti, risulta del tutto formale. Il passaggio da uno stato qualitativo di un oggetto a un altro deve avvenire, per lui, rispettando la legge di continuità, dove quel che accade dopo è già previsto in quel che esiste prima.

D'altra parte se si sostiene che nulla accade senza che vi sia una ragione perché sia così piuttosto che altrimenti, alla fine si può giustificare qualunque cosa. I concetti di "salto", "rottura", "rivoluzione", "decisione esistenziale"... non hanno alcun senso. Persino il concetto di "crisi" diventa molto relativo: per superarla è sufficiente prendere atto che le cose non possono andare diversamente.

Rebus sic stantibus è giocoforza equiparare il concetto leibniziano di "armonia prestabilita" a quello di "provvidenza cristiana", e considerare Leibniz tanto logico quanto mistico. Una caratteristica, questa, tipica dei filosofi tedeschi, specie di quelli idealistici, i quali sono razionali solo all'apparenza.

Questi continui passaggi dalla logica alla mistica, e viceversa, probabilmente riflettevano non solo i tentativi della cultura borghese di emanciparsi progressivamente e non senza fatica dalla teologia scolastica, ma anche i limiti specifici della società germanica, ancora non sufficientemente industrializzata per poter produrre una cultura laica, indipendente anche dei condizionamenti del protestantesimo. Sotto questo aspetto la Germania (Prussia) del tempo di Leibniz era molto più indietro dell'Olanda di Spinoza e dell'Inghilterra di Newton.

Il che, però, in definitiva, può anche non voler dire nulla. Leibniz infatti, nonostante il suo misticismo, o forse proprio in virtù di esso, si avvicinò di più alla comprensione del nesso che lega la materia all'energia. È molto interessante ch'egli rifiuti l'idea cartesiana di una materia inerte, e che invece la consideri perennemente in movimento.

Cartesio rifiutava l'idea di considerare "viva" la materia, perché la considerava di tipo magico, troppo vicina alle concezioni rinascimentali dell'universo, tant'è che, proprio per questa ragione, alla legge newtoniana della gravitazione universale oppose nettamente la sua teoria dei vortici, che peraltro non è meno interessante. Eppure proprio lui si sentì costretto a introdurre il concetto di "divinità" per spiegare il movimento della materia inerte nella sua fase iniziale. Pascal qui aveva visto giusto quando rimproverava a Cartesio d'aver usato dio soltanto per dare una "spinta" alla materia. Piuttosto che cadere in questa ridicola soluzione, Leibniz pensò di attribuire il movimento della materia a se stessa, considerandola "viva" come facevano i filosofi greci della natura.

Certo, non ci si può aspettare da parte di Leibniz la convinzione che la materia è in perenne movimento in forza di un principio d'attrazione e repulsione di opposti, che la porta continuamente a trasformarsi da una condizione a un'altra, senza che nulla si distrugga mai in maniera definitiva. Resta comunque indubbio che rispetto a Cartesio egli fece un passo avanti.

D'altra parte Leibniz aveva già criticato severamente, sul piano logico, le pretese del cogito cartesiano. Infatti - egli diceva - se il principio primo del razionalismo, "cogito, ergo sum", è una proposizione, non può essere presa come fatto di partenza, e se è soltanto un sillogismo, il "dunque" non ha senso. Questo perché la proposizione "io esisto" è evidente di per sé, cioè non può essere dimostrata sulla base di nessun'altra proposizione. "Pensare" ed "essere pensante" sono la stessa cosa.

Leibniz, però, ancora una volta, ragionava soltanto da logico. Se avesse ragionato da psicologo o da antropologo o da storico della cultura, si sarebbe accorto che con quella sua proposizione Cartesio non voleva tanto dedurre l'esistenza dal pensiero, quanto piuttosto fare del soggetto individuale, con la sua esistenza borghese, il pensiero di se stesso, indipendente dalla tradizione ecclesiastica, dalla cultura teologica, dalla società cattolica o protestante, dalle chiese di stato e dagli Stati confessionali. "Penso, dunque sono" voleva essere un'affermazione di tipo ateistico, ancorché racchiusa nei limiti di un individuo isolato.

Sintesi della logica leibniziana

Vediamo, in sintesi, i principi fondamentali della logica leibniziana.

1. Ogni concetto può essere ridotto a un determinato insieme di concetti semplici - questo è vero.

2. Per "concetti semplici" bisogna intendere dei concetti che non possono essere ulteriormente scomposti - questo è falso, poiché ogni concetto può essere soggetto a interpretazioni opposte, anche quello più semplice.

3. I concetti complessi possono essere derivati dai concetti semplici solo mediante l'operazione di prodotto logico - questo è falso due volte: la prima perché la complessità può sussistere anche nei concetti semplici, in quanto la complessità non è data dal concetto in sé, ma dalla relazione ch'esso pone con "altro da sé"; la seconda perché il passaggio dal semplice al complesso non è di pertinenza della sola logica. Leibniz non comprende che la complessità della logica o della matematica può essere del tutto artificiosa e niente affatto più profonda della complessità che si può constatare in ambiti di tipo etico o motivazionale, dove l'uso della logica formale può anche essere molto ridotto e non per questo risultare assente una logica razionale.

4. L'insieme dei concetti semplici deve soddisfare il criterio della coerenza - questo è falso, poiché il criterio della coerenza logica può risultare del tutto formale e artificioso. Di fatto esiste "logica" anche nell'incoerenza, proprio perché, soprattutto in campo etico, subentrano fattori extra-logici, come l'interesse, la passione, la motivazione interiore, i condizionamenti emotivi, le frustrazioni sociali, i pregiudizi consolidati... Il che non impedisce che di tutte queste cose si possa dare una spiegazione razionale. Leibniz sarebbe stato un pessimo psicologo, poiché avrebbe avuto continuamente la tendenza a relativizzare i problemi. Pertanto il fatto che lui avesse l'ambizione ad applicare i suoi princìpi logico-formali anche in ambiti non scientifici, va considerato quanto meno arbitrario.

5. Ogni asserzione è nella forma di soggetto e predicato, nel senso che può essere ridotta a una forma equivalente in cui il predicato fa già parte del soggetto - questo è falso, poiché oggi diamo per scontato che un soggetto ha senso o trova il suo significato solo nella misura in cui fa riferimento a determinati predicati, i quali, a loro volta, rimandano a relazioni organiche, strutturali all'esistenza del soggetto. Il soggetto è un'astrazione, il predicato invece è la sostanza, proprio perché esso rimanda ad altro. Se il predicato in sé non è intelligibile, lo è però in ciò ch'esso simboleggia; il soggetto invece, rimandando solo a se stesso, non è mai intelligibile. Il soggetto è l'insieme delle relazioni sociali che lo compongono, e sono esse che vanno definite per poterlo comprendere.

6. Come conseguenza metodologica supplementare del punto 5 Leibniz sostiene che ogni proposizione affermativa vera è analitica, nel senso che il suo predicato è contenuto nel soggetto - anche questo è falso, poiché se si assume che il predicato è sostanza e il soggetto un'astrazione, allora l'insieme delle relazioni sociali può essere colto anche in maniera sintetica, all'ovvia condizione che vi sia una certa compartecipazione. L'analisi non offre maggiore conoscenza o maggiore verità degli oggetti esaminati, anzi in genere offre l'impressione d'essere una pretesa arbitraria. Questo perché l'insieme va colto, per essere compreso, nella sua interezza, ed è difficile fare questo senza un coinvolgimento personale.

Fonti

La critica

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015