GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ

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GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ (1646-1716)

ITER BIOGRAFICO E INTELLETTUALE

Primo periodo (1646-1666)

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII

+ 1646 Gottfried Wilhelm Leibniz nasce a Lipsia da famiglia protestante. Suo padre è professore di diritto all'università e da lui eredita una ricca biblioteca, dove comincia a formarsi una cultura.

+ Si laurea in filosofia e diritto. Già dal saggio presentato per ottenere il bacellierato in filosofia: Disputatio metafisica de principio individui (Lipsia 1663), si evince la tendenza a riprendere i classici alla luce del pensiero moderno, che caratterizzerà tutta la sua concezione filosofica. In questo scritto Leibniz si schiera con gli aristotelici nel riconoscere come sostanze prime solo gli individui. Fin da principio, perciò, gli individui - che più tardi diverranno le monadi - erano il soggetto a cui il lavoro di perfezionamento doveva indirizzarsi; e l'irriducibilità dell'individuo - in senso metafisico - resterà uno dei cardini del concetto leibniziano di realtà.

+ 1666 Con la Dissertazione sull'arte combinatoria, si guadagna il diritto ad entrare come docente nella Facoltà di filosofia di Lipsia.

In questa opera si raccolgono tutti i motivi più importanti del pensiero giovanile di Leibniz In primo luogo, il progetto ambizioso, mai abbandonato e mai riuscito, di dare la chiave del totale sapere umano, di trovare cioè un sapere unificato che permetta, con una certa algebra delle idee, di stabilire la logica di tutte le possibilità conoscitive dell'uomo.

Secondo periodo (1667-72)

Con il 1667 Leibniz entra in quella carriera, diversa dall'insegnamento, che egli sperava gli aprisse la possibilità di una azione efficace: la carriera politico-diplomatica. Il suo primo ufficio è al servizio dell'elettore di Magonza. Ciò fa venir meno quelle ragioni accademiche che avevano spinto Leibniz giovane a pubblicare qualche scritto teorico; tanto che, da questo momento in poi, se si eccettua qualche comunicazione ad Accademie e qualche articolo per giornali eruditi, la sua produzione nel campo della ricerca rimane inedita. Lui stesso dirà che chi non lo conosceva se non attraverso i lavori editi, non lo conosceva veramente.

Leibniz scrive sempre pensando a qualcuno, con cui corrisponde e conversa, e sempre vede i problemi universali alla luce di occasioni particolari.

A questo periodo risalgono scritti di carattere politico e religioso, che ci rivelano un aspetto importante della personalità di Leibniz Nel 1670 egli scrisse il Consilium aegyptiacum, in cui si prospettava a Luigi XIV una spedizione in Egitto, allo scopo di distoglierlo dalla guerra d'Olanda. Lo scopo ultimo a cui mirava questo scritto era quindi la pace. Un altro mezzo di pace, e ancor più necessario a lungo andare, era la riconciliazione delle Chiese. Leibniz sentiva molto questo problema, anche perché, appartenendo alla confessione di Augusta, gli accadde tuttavia di servire due principi cattolici. Leibniz cercherà addirittura, attraverso Pietro il Grande, di interessare alla riunione anche la Chiesa orientale, ma si sarebbe accontentato anche di riunire tra loro le varie Chiese protestanti; ci si provò per tutta la vita, ma invano.

+ 1669 In una sua lettera al maestro J. Thomasius, troviamo la prima esposizione del suo programma filosofico: accogliere le istanze dei "moderni", di una filosofia al passo con la nuova scienza, ma non lasciar cadere le preoccupazioni degli "antichi" per una fondazione metafisica della sostanza: Cartesio e Aristotele.

Terzo periodo (1672-76)

Nel 1672 fu inviato a Parigi al seguito di una missione diplomatica che doveva distogliere il re Luigi XIV dalla progettata invasione dell'Olanda, invogliandolo alla conquista dell'Egitto. La missione diplomatica non venne effettuata, ma Leibniz ottenne il permesso di restare a Parigi, con grande beneficio dei suoi studi. Conobbe i filosofi Arnauld e Malebranche e il matematico Huyghens, che esercitò su di lui notevoli influssi. Nel frattempo egli , da Parigi ebbe modo di recarsi anche a Londra, divenendo altresì membro della Royal Society.

Questo lungo soggiorno parigino fu fondamentale a tutti gli effetti, anche perché permise a Leibniz il perfetto apprendimento della lingua francese, che adottò nei suoi scritti, con grande vantaggio per la loro diffusione.

+ 1675 Comincia a elaborare i principi del calcolo differenziale e integrale, qualche tempo dopo Newton, ma in forma diversa e senza aver avuto notizia di quanto aveva fatto l'inglese.

+ 1676 Nel viaggio di ritorno in patria da Parigi, ebbe modo di ripassare per Londra, dove conobbe Newton e di fermarsi all'Aja, dove poté conoscere Spinoza (che - sembra - gli lesse alcune pagine del manoscritto della sua Ethica).

Quarto periodo (1676-1716)

Finito il soggiorno parigino, inizia il suo lunghissimo periodo alla corte di Hannover, alla quale, sia pure con qualche sofferenza, resterà legato fino alla morte, diventando da bibliotecario anche Consigliere di corte e storiografo ufficiale della dinastia.

+ 1686 Scrive il Discorso di metafisica, come traccia per la corrispondenza con l'Arnauld: prima forma compiuta del sistema, in cui la "sostanza individuale" è concepita come contenente fin da principio tutta la propria storia, in base al principio che "praedicatum inest subjecto". Pubblica anche una dimostrazione dell'errore di Cartesio nel considerare costante la quantità di moto, anziché la "forza viva". I due scritti sono la prima risposta al problema di conciliare la visione fisica con la visione metafisica dell'universo.

+ 1695 Il Nuovo sistema della natura spiega la comunicazione tra i corpi e gli spiriti mediante l'"armonia prestabilita" (l'espressione è di un anno posteriore); e lo Specimen dynamicum mostra la connessione del mondo fisico con il piano metafisico: la "forza" è l'espressione fisica dell'unità della sostanza (monade) che, come tale, non s'incontra sul piano fisico.

+ 1704 I Nuovi saggi dell'intelletto umano, in cui Teofilo ribatte ai lunghi brani che Filalete cita dal Saggio di Locke, rimarranno inediti fino al 1765: la prefazione è uno dei testi più importanti del pensiero leibniziano, specialmente per ciò che concerne le "piccole percezioni".

+ 1710 Escono i Saggi di Teodicea, l'opera filosofica più vasta pubblicata (anonima) da Leibniz, che vi lavorò quasi dieci anni. In quest'opera Leibniz risponde alle critiche che Bayle ed altri avevano rivolto alla dottrina dell'armonia prestabilita ed all'ottimismo metafisico leibniziano.

+ 1714 Monadologia, un breve scritto in cui troviamo un sommario delle sue vedute metafisiche. Scrive inoltre Principi della natura e della grazia.

ASPETTO ANALITICO E SISTEMATICO

E' legittimo affermare che la caratteristica principale del pensiero filosofico di Leibniz si configurò nella volontà di condurre ad unità il molteplice di entrambe le sostanze cartesiane: della sostanza estesa, riportandone l'azione ai centri di forza puntuali, e della sostanza pensante, riportandone le idee a un principio dove i contenuti oggettivi non si trovino l'uno accanto all'altro, bensì (pur nella distinzione) l'uno in coincidenza con l'altro, in una unità inscindibile. Codesta esigenza di unità, connette e fa convergere l'una con l'altra le due vie che Leibniz percorre verso il concetto di monade: la via che passa per la fisica, e quella che passa per la logica (che entrambe percorse, senza fermarcisi).

La possibilità della mediazione fra "philosophia perennis" e "philosophi novi"

La rivoluzione scientifica, Bacone e soprattutto Cartesio avevano prodotto nella storia del pensiero occidentale una svolta radicale decisiva. Sembrava addirittura che non solo le soluzioni, ma anche le stesse problematiche della filosofia scolastica e antica fossero divenute obsolete al punto da non essere ormai più riproponibili.

Leibniz, invece, già dall'aprile 1669, in una lettera al suo maestro J. Thomasius, si propone di attuare una sintesi fra l'antico e il nuovo, cioè di mettere in valore, per un verso, tutte le scoperte dei moderni, ma non lasciar cadere neppure le ragioni di verità degli antichi; il che significava, in quel tempo, degli aristotelici.

Questo rappresenta il suo primo, ancora acerbo tentativo di conciliare le vedute dei philosophi novi - secondo cui tutti i fenomeni si devono spiegare con rapporti di numero, figura e movimento - con la concezione aristotelico scolastica (quella che Leibniz chiamava philosophia perennis), secondo cui la realtà è qualificata da certe "forme sostanziali" che, unendosi alla materia, la determinano e la rendono attiva.

La "figura" di cui parlavano i cartesiani era una determinazione geometrica dell'estensione; la "forma" degli aristotelici rappresenta invece il principio attuale e determinatore all'interno della teoria ilemorfica.

[La teoria ilemorfica]

Secondo questa teoria, punto centrale della cosmologia aristotelico-scolastica, ogni corpo naturale esistente è costituito di un principio attuale e determinatore, che è detto forma sostanziale, e di un principio potenziale e determinabile, detto materia prima. La forma sostanziale è ciò per cui un corpo è quello che è: uomo, gatto, ciliegio, ecc. E siccome solo ciò che è determinato può esistere, essa costituisce l'ente corporeo, è condizione del suo esse simpliciter.

La forma sostanziale si definisce anche atto primo di un corpo fisico.

Per Aristotele la psykhé, l'anima, cioè il principio vitale in genere, della vita vegetativa, sensitiva, intellettiva, è una forma sostanziale: una forma più perfetta di quelle dei non viventi, una forma che differisce da quelle dei non viventi non solo per grado di perfezione, ma sostanzialmente; ma pur sempre forma di un corpo.

Secondo Leibniz i due principi di spiegazione della realtà non si escludono; anzi, sono entrambi necessari, sebbene su piani diversi. Numero, figura e movimento sono le determinazioni esteriori, scientificamente misurabili della realtà; la quale, però non si riduce a questo suo aspetto geometrico, ma si radica in principi più profondi, a cui la scienza matematico-fisica non giunge, e che è compito della riflessione metafisica penetrare.

Per conciliare quelle due prospettive non basta, però, giustapporle. Occorre mostrare che esse rimandano l'una all'altra: che l'una ha bisogno dell'altra. E a ciò il Leibniz giunge gradatamente, attraverso una critica interna del sistema cartesiano, da lui seguito per qualche tempo (dopo una giovanile adesione all'atomismo), e poi abbandonato.

Tale critica tende a mostrare che la res extensa cartesiana rinvia necessariamente a principi di diversa natura, non potendo la pura e semplice estensione avere la concretezza della materia.

Così riassumiamo le tappe salienti di tale itinerario critico, in base a quello che Leibniz stesso dice nel Nuovo sistema della natura (1695):

a) liberatosi dal "giogo di Aristotele", Leibniz in un primo tempo aderisce all'atomismo rimesso in voga dal Gassendi, ma si accorge che "è impossibile trovare i principi di una vera unità nella materia presa da sé, vale a dire in ciò che è puramente passivo: perché questo non è che una collezione o aggregato di parti, all'infinito";

b) D'altro canto, la realtà e unità del molteplice non la si può ritrovare nemmeno nei punti matematici tipici dell'estensione cartesiana;

c) Leibniz quindi, scartato sia l'atomismo che il cartesianesimo, ricorse "a un punto reale e animato, per dir così, o a un atomo di sostanza, che deve implicare una certa forma o attività, per costituire un essere completo;

d) Leibniz quindi ritiene che le cosiddette "unità reali" siano da intendersi "ad imitazione" dell'anima, consistendo la loro natura nella "forza" e in qualcosa di analogo al sentire e all'appetire; da qui la necessità di riprendere le forme sostanziali, di cui l'anima rappresenta il caso più perfetto.

e) Leibniz, a questo punto, fa un'importante precisazione metodologica:

"come l'anima non deve essere impiegata per rendere ragione dell'economia del corpo dell'animale nei suoi particolari, così egualmente ritenni che tali forme non debbano venire applicate nella spiegazione dei problemi particolari della natura, mentre sono necessarie per stabilire veri principi generali". Qui sta la chiave che Leibniz propone per conciliare la philosophia perennis con i philosophi novi: la rigorosa distinzione fra ambito propriamente filosofico e ambito propriamente scientifico. Pertanto, ostinandosi nel basarsi sulle "forme sostanziali" nello spiegare i fenomeni scientifici, gli Aristotelici e gli Scolastici cadono in evidenti assurdità; ma i nuovi filosofi cadono in eccessi di segno opposto, negando in toto le forme sostanziali, che restano valide in altri ambiti di spiegazione.

f) Leibniz spiega inoltre che Aristotele chiama le forme sostanziali entelechie prime, mentre lui le chiama "forze primitive, che non contengono soltanto l'atto, o il complemento della possibilità, ma anche un'attività originaria".

Per comprendere queste delucidazione fatta da Leibniz bisogna far riferimento al concetto di entelechia in Aristotele, che ebbe nel latino scolastico, come traduzione consacrata, la parola actus (atto). In una delle sue accezioni esso indica la forma o la ragione che determina l'attualizzazione di una potenza: "La materia è potenza, ma la forma è atto (entelechia)"; "E la ragione dello sviluppo di ciò che è in potenza è l'entelechia". Quindi, per Aristotele, "l'anima è l'entelechia prima (cioè essenziale) di un corpo naturale (organizzato) che ha la vita in potenza".

Nell'altra accezione entelechia significa l'atto compiuto, in opposizione all'atto che sta compiendosi (energheia).

Leibniz ha cura di far notare nella Teodicea che dei due significati della parola, in Aristotele, egli prende il primo, cioè quello di entelechia prima.

Esempio: l'anima mette il corpo organizzato, che ha la vita in potenza, in condizione di vivere (essa ne è l'atto primo, o entelechia prima), ma l'esercizio stesso delle funzioni della vita (la sensazione o il pensiero), è il secondo grado dell'atto (energheia), cioè l'atto che va compiendosi.

Leibniz così spiega in altri scritti il suo utilizzo della parola: "esso porta con sé non soltanto una semplice facoltà attiva, ma anche ciò che si può chiamare forza, sforzo, conatus, la cui azione stessa deve seguire, se nulla lo impedisce." (Teodicea, 1710); "La forza attiva contiene in sé un certo atto o entelechia, ed è qualcosa di mezzo tra la facoltà di agire e la stessa azione, implicando il conato: sicché è portata per se stessa ad operare, né richiede un aiuto, ma solo che sia rimosso l'ostacolo" (Dell'emendazione della filosofia prima e della nozione di sostanza, 1694).

La confutazione del meccanicismo e la genesi del concetto di monade

Abbiamo visto che secondo Leibniz estensione e movimento, figura e numero risultano solamente determinazioni estrinseche della realtà, che non vanno oltre il piano dell'apparire, ossia del fenomeno. L'estensione non può essere l'essenza dei corpi, perché non basta da sola a spiegare tutte le proprietà corporee. Il che significa che c'è qualcosa che è al di là dell'estensione e del movimento, che non è di natura puramente geometrico-meccanica e quindi fisica, e che, pertanto, è di natura metafisica, e questa è appunto la "forza". Da tale forza derivano sia il movimento che l'estensione. Il fatto che portò Leibniz a questa importante conclusione filosofica fu la scoperta e la correzione di un "errore memorabile" di Cartesio (Breve dimostrazione di un errore memorabile di Cartesio, 1686), in materia di fisica. La legge di conservazione, che Cartesio aveva scoperta, indicando nella quantità di moto (massa x velocità) la grandezza che rimarrebbe costante nei fenomeni di urto, va riferita, in realtà, alla forza viva o energia cinetica (massa x velocità al quadrato).

Le implicazioni metafisiche di questa nuova formula sono le seguenti: il prodotto della massa per la velocità (mv) è un "fenomeno", come il moto, che si sviluppa interamente nello spazio e si offre fino in fondo alla nostra esperienza. Ma se noi eleviamo al quadrato la velocità, troviamo qualcosa che non si riduce più a un mutamento di posizione nello spazio: troviamo una forza, i cui effetti si fanno bensì sentire sul piano fenomenico, ma che non è un fenomeno essa stessa. E poiché codesta forza è indispensabile a costruire una teoria fisica soddisfacente, è chiaro che il fenomeno fisico rinvia, già come tale, a una radice non più puramente fisica e fenomenica.

[I centri di forza]

Possiamo notare che in questo percorso che Leibniz traccia per descrivere la maturazione della sua concezione filosofica, il problema centrale è rappresentato dalla costituzione della materia. Il suo problema si riduce in fondo al seguente: "Come può la materia, che è estesa, essere composta di elementi indivisibili?"

Leibniz parte dal fatto che la materia è estesa, e che l'estensione non è altro che ripetizione; ora si tratta per lui di decidere quali siano gli elementi che si ripetono a comporre l'estensione.

Leibniz esclude come possibili candidati i punti matematici, perché sono puramente astratti, non sono degli enti e quindi non possono comporre l'estensione, i punti fisici, che sono un'estensione infinitesima, del tipo usato nel calcolo infinitesimale; essi infatti non sono veramente indivisibili, perché sono, dopotutto, una piccola estensione. Anche gli atomi di materia, non rispondono ai requisiti richiesti, perché contrari alla ragione, in quanto dovrebbero essere degli indivisibili la cui essenza è la divisibilità. Essi, come unità materiali estese, non esistono, perché tutto ciò che è materiale è sempre divisibile all'infinito. I costituenti della materia che Leibniz cerca non sono materiali, posto che ciò che è materiale deve essere esteso, ma inoltre devono anche essere discernibili, il che non vale in special modo per i punti matematici e per gli atomi. L'ultima istanza che Leibniz pone per la sua nozione di "elemento indivisibile" è che essa sia dotata di attività.

Raccolte queste indicazioni, non troviamo niente, tra gli oggetti dell'esperienza, che possa essere queste sostanze, se non qualcosa di analogo all'anima. Le anime sono degli enti concreti, o sostanze, che si differenziano tra di loro e sono inestese. Esse devono essere, pertanto, i costituenti di ciò che sembrano essere i corpi. Le monadi (a differenza degli atomi) non sono i costituenti della materia: infatti, suddividendo in parti piccole quanto si vuole una porzione di materia, non si troverebbe mai una monade. Esse ne sono, però, il fondamento, senza il quale le proprietà della materia non si spiegherebbero.

Abbiamo visto, quindi, che i centri unitari di attività su cui si fonda la realtà della materia non si incontrano sul piano fisico: essi sono puntuali, inestesi e, quindi, fuori dello spazio, solo il risultato della loro efficacia, sotto forma di forza. Il fondamento della realtà fisica è dunque un principio di diverso ordine, metafisico, a cui Leibniz darà (dopo il 1695) il nome di "monade".

Le conseguenze della scoperta leibniziana

Ma, prima di trattare della dottrina delle monadi, dobbiamo rilevare alcune conseguenze molto importanti che scaturiscono da quanto Leibniz ha stabilito.

a) Lo "spazio" non può coincidere con la natura dei corpi, come voleva Cartesio, e meno che mai può essere sensorium dei come voleva Newton, o addirittura proprietà assoluta di Dio come voleva il newtoniano Clarke. Lo "spazio" diventa, per Leibniz, un fenomeno, ossia un modo di apparire a noi della realtà, anche se non si tratta di mera illusione, bensì di phaenomenon bene fundatum.

Lo spazio altro non è che l'ordine delle cose che coesistono nello stesso tempo, ossia qualcosa che nasce dalla relazione delle cose fra loro. Non è, dunque, una entità o proprietà ontologica delle cose, ma una risultanza del rapporto che noi cogliamo fra le cose.

Pertanto, è fenomeno bene fundatum, perché si basa su effettive relazioni fra le cose; ma è fenomeno perché non è di per sé ente reale. In conclusione: lo spazio è un modo di apparire soggettivo delle cose, pur con fondamento oggettivo (le relazioni fra le cose). Analoghe conclusioni valgono, mutatis mutandis per il tempo.

Questa è una tappa molto importante nella discussione circa la natura fenomenica dello spazio e del tempo; anzi è addirittura una tappa indispensabile per comprendere la successiva "rivoluzione" che Kant compirà a questo riguardo.

b) Se così è, le leggi elaborate dalla meccanica perdono il loro carattere di verità matematiche, ossia dotate di verità logica incontrovertibile, per assumere il carattere di "leggi della convenienza", leggi fondate sulla regola della scelta del meglio, secondo la quale Dio ha creato il mondo e le cose del mondo. E così, il meccanicismo si frantuma, per dar luogo ad un superiore finalismo.

c) Cade la visione cartesiana del mondo e dei corpi viventi come "macchine" meccanicisticamente intese: il mondo è, sì, come una "grande macchina" nel suo insieme, e macchine sono altresì tutti i singoli organismi fin nelle più piccole loro parti; ma la macchina dell'universo, così come le macchine-parti, sono la realizzazione del volere divino, l'attuazione di una "finalità" voluta da Dio con la "scelta del meglio", di guisa che il meccanicismo non è altro se non il modo attraverso cui si realizza il superiore "finalismo".

La sostanza individuale

[Monade come soggetto ultimo]

Ciò in cui consiste, in ultima analisi, la realtà, si può chiamare, aristotelicamente, "sostanza". Ora, già per Aristotele, al concetto metafisico di sostanza si può arrivare, oltre che muovendo dalla fisica, anche muovendo dalla logica, cioè dall'analisi del discorso. Sotto questo rispetto, la sostanza è "ciò che non si può predicare di un'altra cosa", e che costituisce, per contro il soggetto ultimo, a cui ogni predicato si riferisce, mediatamente o immediatamente. Lo stesso vale delle "monadi" leibniziane: "sostanze individuali" e fondamento di ogni realtà, le monadi sono anche il soggetto ultimo di ogni proposizione, un soggetto in senso logico, oltre che in senso metafisico.

Ora, se io dico qualcosa di vero di una sostanza individuale - se dico, ad esempio, di Cesare che "passò il Rubicone" - questo predicato, appunto perché vero, deve appartenere al soggetto, inerire ad esso: "praedicatum inest subiecto". Anzi, esso concorre a costituirlo. La sostanza "Cesare", infatti, non è altro che l'unità di tutti i predicati veri che la qualificano. Cioè (come dice Leibniz nel Discorso di metafisica (1686)): ogni sostanza contiene nella propria unità l'intera sua storia, e l'esistere della sostanza non è altro che lo svilupparsi progressivo di questa storia, già contenuta implicitamente nella sostanza.

Questa conseguenza si desume dal fatto che ogni predicato vero inerisce al suo soggetto.

[Tutto l'universo nella monade: la monade come microcosmo]

Ma non basta. Direttamente o indirettamente, ciascuna sostanza è in relazione con tutto il resto dell'universo. Questo insieme di relazioni è esprimibile, anch'esso, in proposizioni vere (affermative o negative), che concorrono a determinare ciò che quella sostanza è. E poiché tutte le proposizioni vere (che concorrono a determinare la sostanza), ineriscono al loro soggetto, cioè alla sostanza medesima, si ha che tutto l'universo è contenuto in ciascuna sostanza individuale o monade, sebbene solo in riferimento ad essa: cioè secondo il suo particolare "punto di vista".

Tale è l'immagine metafisica che il Leibniz maturo ha del mondo: un insieme di monadi, ossia di centri unitari di riferimento, in ciascuno dei quali si rispecchia l'intero universo da un punto di vista particolare. Un insieme di sostanze, cioè, che consistono nel loro reciproco rispecchiarsi: poiché l'"universo", contenuto in ciascuna sostanza, non è altro che il riferirsi di ciascun centro a tutti gli altri.

[Infiniti pensieri in un punto]

Ma come può una sostanza semplice, indivisibile, contenere in sé una molteplicità infinita, - quale quella che costituisce la somma di tutti gli avvenimenti della sua vita - e, anzi, riferirsi indirettamente all'intero universo? La risposta del Leibniz è questa: la sostanza semplice ha la stessa natura del nostro spirito, capace di contenere nella sua semplicità infiniti pensieri. Ciò significa che l'universo è contenuto nelle sostanze in forma di "rappresentazione". L'essere della sostanza è un rappresentare; è percezione, ed è passaggio da una percezione all'altra in virtù di una appetizione, per cui il presente della sostanza tende verso il futuro.

[Il tempo e le percezioni oscure]

Sebbene, dunque, l'universo sia sempre tutto presente nella sostanza, sotto forma di rappresentazione, pure la sostanza evolve e si sviluppa progressivamente. La rappresentazione dell'universo, nella sostanza individuale, è in massima parte oscura, e si va chiarendo solo a poco a poco, in alcune parti, perché la sostanza illumina progressivamente qualche zona del proprio contenuto e sposta via via il centro della propria attenzione. La sostanza finita, insomma. vive nel tempo, e il suo "presente" (in senso stretto) si sposta di continuo. Tuttavia, poiché anche il resto è sempre tutto contenuto nella monade, per quanto in forma oscura, il presente della monade è sempre "carico del passato e gravido dell'avvenire".

I capisaldi della metafisica monadologica

La natura della monade come forza rappresentativa

Abbiamo visto che le due attività fondamentali che caratterizzano la monade, da concepirsi, in generale, analogamente alla nostra attività psichica, sono:

a) quella della percezione o rappresentazione;

b) quella dell'appetizione, o tendenza a successive percezioni.

Sono queste, per Leibniz le attività che individuano e distinguono le varie monadi fra loro.

Quando Leibniz dice che la natura delle attività di tutte le monadi sta nel percepire (o rappresentare) non intende parlare di percezione (o rappresentazione) accompagnata da consapevolezza o coscienza. Fra a) il semplice percepire a b) il percepire consapevolmente c'è una grande differenza, che Leibniz sottolinea anche lessicalmente, chiamando quest'ultimo col termine "appercezione".

Ora, l'"appercezione" è propria solo di certe monadi particolari, ossia degli spiriti e delle intelligenze, sicché si può dire che tutte le monadi percepiscono, e solo alcune (oltre che percepire) anche appercepiscono. Ma anche nelle monadi che hanno appercezioni il numero delle percezioni inconsapevoli rimane infinitamente superiore al numero delle percezioni consapevoli.

Quindi, a chi obiettasse che è assurdo concepire il fondamento di una realtà fisica come un insieme di "centri di rappresentazione", perché la materia è incosciente, Leibniz risponde che non ogni "percezione" è necessariamente cosciente. Nei Nuovi saggi dell'intelletto umano (1704) si parla di piccole percezioni, che sono "percezioni insensibili", ossia percezioni di cui non abbiamo consapevolezza, di cui è intessuta la nostra vita quotidiana: si può "percepirle" senza "appercepirle", cioè senza accorgersene (dal francese s'apercevoir, "accorgersi di").

Ebbene, la materia "bruta" ha una forma di percezione ancora più oscura: in essa le "piccole percezioni" non giungono mai a costituire un'"appercezione" cosciente; e tuttavia è precisamente questo percepire inconscio ciò che costituisce l'essere delle monadi su cui la materia si fonda.

Il principio degli indiscernibili

Dalle cose dette scaturisce un problema: se tutte le monadi rappresentano tutto l'universo, come si possono differenziare tra loro? Ciascuna monade rappresenta tutto l'universo, ma con differente (maggiore o minore) distinzione delle percezioni e sotto diversa angolazione. Ciascuna monade rappresenta il mondo in una differente prospettiva ed è appunto questa prospettiva che fa ciascuna monade diversa da tutte le altre. Anzi, secondo Leibniz, è tale la varietà di prospettive nelle rappresentazioni, che non solo differiscono le cose fra loro diverse per specie, ma perfino nell'ambito di una medesima specie non esistono due sole cose assolutamente eguali fra loro.

Di qui Leibniz, trae il suo principio dell'"identità degli indiscernibili", secondo il quale, appunto, non esistono due sostanze indiscernibili (ossia assolutamente indifferenziate e quindi identiche), o, per dirla in altri termini, posto che ci fossero due sostanze indiscernibili, esse coinciderebbero, e sarebbero un'unica ed identica sostanza. Questo principio è, secondo Leibniz, importantissimo e tale da mutare "lo stato della metafisica". Esso fonda, infatti, due dottrine essenziali nel sistema leibniziano: a) fornisce un nuovo modo di spiegare l'individualità di ciascuna sostanza e b) dà ragione dell'infinita varietà delle sostanze e dell'armonia dell'universo.

Infine, è da rilevare che la differente angolazione secondo le quali le monadi rappresentano l'universo e il differente livello di coscienza delle rappresentazioni che esse hanno, permettono a Leibniz di stabilire una gerarchia delle monadi. Al grado più basso stanno le monadi in cui nessuna percezione giunge al livello di appercezione; seguono via via monadi in cui progressivamente i livelli di percezione si fanno più netti fino a pervenire alla memoria, su su fino alla ragione. In Dio tutte le rappresentazioni hanno il livello di assoluta chiarezza e consapevolezza. Pertanto Dio vede in modo perfetto tutto in tutto.

Le monadi e la costituzione dell'universo

[La creazione delle monadi e la loro indistruttibilità]

Solo Dio è l'unità o monade primitiva o sostanza originaria e semplice. Tutte le altre monadi sono prodotte o "create" da Dio: "esse nascono per così dire da fulgurazioni continue della divinità". "Fulgurazione" è termine neoplatonico, qui usato da Leibniz per esprimere la creazione dal nulla.

Inoltre, una volta create, le monadi non possono perire: potrebbero perire solo per annichilazione da parte dello stesso Dio che le ha create.

Leibniz si trova quindi a dover dedurre l'universo intero da queste sostanze metafisiche quali le ha caratterizzate. In particolare, egli deve chiarire i seguenti punti della massima importanza:

1) come nasce a) la materia della monade che di per sé è immateriale e b) come nasce la corporeità della monade che di per sé non è corpo;

2) come si formano gli animali nella loro complessità organica dalla monade che è semplice;

3) come e perché, stante il principio della continuità (la legge secondo cui la natura non fa salti) sussista una netta distinzione tra gli spiriti (gli esseri dotati di intelligenza) e tutte le altre cose.

[Spiegazione della materialità e corporeità delle monadi]

a) La monade, come abbiamo visto, è principio di forza e di attività. Ma questa attività non è attività pura e assoluta se non in Dio. In tutte le altre monadi l'attività è, pertanto, limitata, ossia imperfetta: e questa è appunto la sua "materialità". Dunque, la "materia prima" delle monadi non è altro che quell'alone di "potenzialità" che impedisce loro di essere puro atto. Si può anche dire che la "materia prima" della monade consiste nelle percezioni confuse che ha e che appunto questo è l'aspetto passivo proprio della monade.

E' evidente che, intesa in questo nuovo senso, ossia come il fondo oscuro di ciascuna monade, come limite dell'attività percettiva, la materia prima diventa qualcosa di completamente nuovo: i suoi attributi, ne diventano un "effetto", una "manifestazione". L'oscurità delle percezioni della monade si manifesta in essi.

b) la corporeità e l'estensione (che Leibniz chiama anche "materia seconda") e in genere quelli che chiamiamo "corpi", sono "aggregazioni di monadi". Ma si noti bene: la corporeità non ha una consistenza ontologica, una realtà in sé; essa è fenomeno che ha un fondamento nelle monadi che entrano in relazione tra loro, è un "fenomeno ben fondato", come lo spazio e il tempo.

[Spiegazione della costituzione degli organismi animali]

Ogni sostanza corporea per Leibniz, in generale, non è un aggregato di monadi puro e semplice, ma è un aggregato unificato da una monade superiore, che costituisce come l'entelechia dominante. Questa entelechia dominante negli animali è l'anima, intesa nel senso classico di principio di vita, mentre nell'uomo la monade dominante è l'anima intesa come spirito.

Inoltre, siccome sono innumerevoli le monadi che costituiscono ogni aggregato, è possibile immaginare, in ogni aggregato, una serie di aggregati sempre più piccoli, che riproducono le stesse caratteristiche sempre più in piccolo.

Questa concezione leibniziana degli organismi comporta tre conseguenze:

a) in primo luogo, non si può parlare di generazione assoluta né di morte assoluta. Quelle che noi chiamiamo "generazioni" sono accrescimenti e sviluppi, mentre quelle che noi chiamiamo "morti" sono diminuzioni e involuzioni.

b) In secondo luogo, non si dovrà parlare di epigenesi, ossi di generazione dell'animale, ma di preformazione.

c) In terzo luogo, si dovrà parlare di una certa indistruttibilità dell'animale (per altro diversa dall'immortalità personale, che è propria dell'uomo).

[La differenza delle monadi spirituali rispetto alle altre monadi]

Siamo giunti all'ultimo dei problemi sopra posti: come si differenziano gli spiriti o sostanze pensanti da tutte le altre monadi? Per Leibniz, vi sono, in primo luogo, tra grandi classi nella gerarchia delle monadi. Tali classi non si distinguono nettamente, ma si confondono l'una nell'altra. Vi sono le monadi pure, le anime e gli spiriti.

a) Le monadi pure hanno il minimo di percezione e desiderio; esse hanno qualcosa di simile all'anima, ma niente che possa dirsi anima in senso stretto.

b) Le anime si distinguono dalla prima classe per la memoria, la sensibilità e l'attenzione. Gli animali hanno le anime, ma gli uomini hanno gli spiriti o anime razionali.

c) Gli spiriti comprendono una gerarchia infinita di geni e angeli superiori all'uomo, ma che non si differenziano da esso che nel grado. Essi sono definiti dall'autocoscienza o appercezione, dalla conoscenza di Dio e delle verità eterne, e dal fatto di possedere ciò che si dice ragione. Gli spiriti rispecchiano non solo l'universo delle creature, come le anime, ma anche Dio. Essi compongono dunque la Città di Dio.

Gli spiriti, inoltre, sono immortali: essi conservano un'identità morale, che dipende dalla memoria di sé, mentre le altre monadi sono semplicemente incessanti, cioè restano numericamente identiche senza saperlo.

L'armonia prestabilita

Una caratteristica fondamentale delle monadi (e alla luce della quale, solamente, risulta comprensibile l'intero sistema leibniziano) è la loro reciproca indipendenza - anzi, isolamento. Ciascuna monade è come un mondo chiuso in sé medesimo, non suscettibile di alcuna sollecitazione o influsso che derivi dall'esterno. In altri termini: nessuna monade agisce su un'altra e nessuna monade patisce ad opera di un'altra.

Qui si ripropone il problema classico del dualismo cartesiano, ma in una nuova formulazione, dato che i termini della questione sono mutati, infatti:

a) Da un lato, avendo introdotto un numero infinito di monadi, come centri autonomi di forze (infiniti centri isolati) doveva spiegare come siano pensabili, pur stante tale isolamento, le relazioni fra le monadi.

b) Dall'altro, avendo concepito i corpi come aggregati di monadi retti da una monade egemone, che negli animali è l'anima, doveva, di nuovo, dar conto dei rapporti fra anima e corpo, e, per di più, in maniera enormemente dilatata, giacché per Leibniz tutti i corpi sono viventi e animati.

Quindi il problema si pone nei seguenti termini: come spiegare il rapporto e l'accordo fra due monadi in generale (fra le rappresentazioni di due monadi) e in particolare fra la monade anima e le monadi corpo?

Al riguardo si prospettano tre possibili ipotesi

1) quella di supporre una azione reciproca, biunivoca;

2) quella di postulare un intervento di Dio in tutte le occasioni, quale artefice di accordo;

3) quella di concepire le sostanze (le varie monadi in generale, così come le monadi anima e quelle che costituiscono il corpo) come strutturate in maniera tale che esse traggano tutto dal loro interno e in maniera tale che ciò che ciascuna trae dal proprio interno coincida con ciò che ciascun'altra trae dal proprio interno con una corrispondenza e armonia perfette, in quanto questo fa parte della loro stessa natura voluta dal loro Creatore.

Leibniz si avvale dell'efficace esempio di due orologi a pendolo (il pendolo era una scoperta del secolo). Dati due orologi a pendolo, la loro perfetta sincronia potrebbe aver luogo in tre modi:

1) costruendoli in modo che uno influisca sull'altro,

2) incaricando l'orologiaio di sincronizzarli in ogni momento,

3) precostruendoli in modo così perfetto che possano poi autonomamente segnare sempre lo stesso tempo in perfetto accordo.

La prima soluzione è quella della filosofia volgare, che urta contro l'incomunicabilità delle monadi e l'impossibilità di ammettere un influsso fra due sostanze che seguono nelle loro azioni leggi eterogenee. Qui Leibniz si dimostra d'accordo con i cartesiani, anzi, più coerentemente di Cartesio, esclude che l'anima possa mutare anche solo la direzione del moto del corpo senza poterne variare la velocità.

La soluzione proposta da Leibniz è ancora un ricorso all'onnipotenza divina alla maniera degli "occasionalisti", (come Malebranche) che propugnavano la seconda soluzione. Tuttavia, del loro sistema - che Leibniz chiama dell'assistenza - egli non accetta che si abbassino gli eventi corporei a semplici "occasioni" di una corrispondente azione di Dio sulle menti (e viceversa), facendo continuamente intervenire la divinità per generare via via gli eventi, e per far corrispondere lo stato dei corpi a quello delle anime.

La terza soluzione, quella dell'"armonia prestabilita", evita il "miracolo continuo" degli occasionalisti ed arriva a dimostrare la possibile comunicazione tra le monadi attraverso la seguente argomentazione: dato che ogni anima rispecchia lo stesso mondo da un punto di vista diverso da quello delle altre, è sufficiente che tutti questi punti di vista siano coordinati l'uno con l'altro, nel loro insieme e nel loro interno sviluppo, perché tra loro si stabilisca una relazione. Questa relazione è posta (prestabilita) da Dio, non dall'anima stessa all'atto della creazione.

Sostanzialmente Leibniz dice: ogni monade rappresenta sempre l'intero universo, e pertanto gli stati di tutte le monadi ad ogni istante corrispondono, perché rappresentano lo stesso universo.

La natura della percezione

Tenendo sempre presente che per Leibniz la relazione tra spirito e "realtà esterna" è una relazione tra molte monadi, e non tra due sostanze radicalmente diverse, l'armonia prestabilita garantisce, dunque, la perfetta corrispondenza fra le rappresentazioni, le percezioni delle varie classi di monadi, tra quelle che compongono la cosiddetta "realtà esterna" e quelle che costituiscono gli spiriti, le anime razionali.

Con ciò egli ha quindi risolto la situazione paradossale a cui sembrava costretta la sua teoria della percezione.

[La percezione non è dovuta all'azione dell'oggetto sul soggetto percipiente]

Tra le soluzioni prima elencate, che Leibniz prospetta ed in seguito esclude, prima di giungere alla affermazione dell'armonia prestabilita, la prima avanza la possibilità di una influenza reciproca fra anima e corpo. Ma questa supposizione contrasta con i capisaldi della monadologia leibniziana. Infatti, se è vero che le monadi sono inestese, esse non possono essere in contatto fra loro, né subire trasposizioni di parti nel loro interno: "Le monadi non hanno finestre dalle quali possa entrare o uscire qualche cosa" (Monadologia, 1714). Questo significa che ciascuna monade è come un mondo chiuso in se medesimo non suscettibile di alcuna sollecitazione o influsso che derivi dall'esterno. In altri termini: nessuna monade agisce su un'altra e nessuna monade patisce ad opera di un'altra. E così affermata la reciproca indipendenza e impossibilità di interazione tra le monadi.

Dall'isolamento delle monadi deriva una conseguenza molto importante circa la teoria della percezione in Leibniz: la percezione è meravigliosa perché non può essere pensata come un'azione dell'oggetto sul soggetto percipiente. La percezione, dunque, non è in alcun modo dovuta all'oggetto, ma solo alla natura del soggetto percipiente. L'occasionalismo aveva preparato la strada a questa concezione, con la teoria secondo cui lo spirito percepisce la materia, benché l'uno e l'altra non possano interagire. Leibniz non fece altro che estendere a un numero infinito di sostanze una teoria ideata per due sole sostanze. Eliminato il dualismo di res cogitans e res extensa, egli, anziché eliminare il problema dell'influsso di una sostanza sull'altra, se lo ritrova moltiplicato alla seconda potenza.

La teoria della percezione di Leibniz è resa singolare dal fatto che egli nega qualsiasi azione delle cose esterne sul soggetto percipiente. Tale teoria può essere considerata l'antitesi di quella kantiana. K. penserà che le cose in sé sono le cause (o i fondamenti) delle rappresentazioni, ma non possono essere conosciute mediante le rappresentazioni. Leibniz, al contrario, negava la relazione causale, ammettendo però la conoscenza. Il rifiuto della relazione causale era dovuto al generale rifiuto dell'azione transitiva, conseguenza a sua volta, della sua concezione di una sostanza individuale che contiene eternamente tutti i suoi predicati.

Per spiegare come le percezioni diano la conoscenza delle cose esterne attuali, sebbene non siano dovute ad esse, Leibniz ideò la concezione con la quale egli caratterizzò il suo sistema. Infatti egli amava definirsi "l'autore del sistema dell'armonia prestabilita".

Rilievi critici

[Fenomenismo]

Attraverso l'idea dell'"armonia prestabilita", Leibniz fa in modo che le monadi, pur non avendo "né porte, né finestre", abbiano rappresentazioni esattamente corrispondenti a ciò che sta fuori della loro porta e delle loro finestre, perché, creandole, Dio le ha intrinsecamente armonizzate una volta per tutte, fondando l'accordo di ciascuna con tutte nella loro stessa natura. Dio è il vero legame di comunicazione fra le sostanze ed è per lui che i fenomeni di una monade s'accordano con quelli dell'altra e le nostre percezioni sono oggettive.

Tuttavia, bisogna pur sempre riconoscere che le monadi, pur avendo tra loro questa generale corrispondenza, non hanno rapporti esterni, cioè non possono interagire tra loro. Da qui nasce la domanda su come possano costituire il mondo materiale, che dovrebbe risultare appunto dal loro insieme, cioè dal comporsi di ciò che deriva dalla loro attività. Le risposte di Leibniz a questo quesito sono piuttosto imbarazzate.

Le monadi, egli dice giustamente, non sono "parti" che, sommandosi, costituiscano la materia: infatti, se anche la loro somma fosse pensabile, essendo inestese non darebbero mai luogo a corpi estesi. Esse non sono dunque "ingredienti" dei corpi, bensì "requisiti": cioè, sono un fondamento di cui il corpo "ha bisogno". Ed esse, a loro volta, hanno in sé un'"esigenza" del corpo: cioè, tendono a dar luogo al corpo. Ma come intendere codesta "esigenza" e "tendenza", se la monade è tutta chiusa all'interno delle proprie rappresentazioni?

Due sono le soluzioni principali che il Leibniz offre al problema, senza mai optare tra esse con una scelta definitiva, e senza riuscire a conciliarle, d'altro canto, in una dottrina coerente.

[La composizione è soltanto rappresentata]

Per un verso egli dice: il mondo materiale non è altro che un fenomeno interno a ogni singola monade; la composizione infinita di parti da cui risulta non è che la rappresentazione di una composizione di parti. La composizione, però, non intercorre tra una monade e l'altra, ma è sempre tutta interna a ciascuna monade. Tra l'una e l'altra c'è solo una corrispondenza, in virtù dell'armonia prestabilita.

Con ciò si accorda anche la dottrina leibniziana dello spazio e del tempo: i quali, secondo Leibniz, non sono, come per Newton, recipienti indipendenti dalle sostanze che contengono, ma presuppongono anzitutto l'esistenza delle sostanze, di cui esprimono solo certi rapporti: rapporti di coesistenza lo spazio, di successione il tempo. Questi rapporti sono ideali, pure rappresentazioni di rapporti, interne a ciascuna singola monade e corrispondenti solo per l'armonia prestabilita.

Questa soluzione è abbastanza coerente, ma toglie ogni consistenza al mondo corporeo, riducendolo a pura rappresentazione; e Leibniz non si assoggetta volentieri a ciò. Quando viene a sapere che, in Irlanda, Berkeley sosteneva che l'essere della materia si riduce al suo essere percepita, rifiuta di accogliere tale dottrina.

[Inverificabilità della corrispondenza]

Ma c'è una difficoltà ancor più grave. Se davvero le monadi non hanno comunicazione con l'esterno, la corrispondenza tra le loro rappresentazioni, fondata sull'armonia prestabilita, rimane inverificabile da parte delle monadi stesse: pertanto, o che ci sia, o che non ci sia, esse non hanno modo di accorgersene. Ora Leibniz sa benissimo che ammettere l'esistenza di qualcosa che, per principio non si può verificare, è un'ammissione vuota di senso.

L'universo leibniziano

[La realtà è razionale]

Scienza e filosofia, per Leibniz, devono servire a riorganizzare la vita dell'umanità su vasi razionali. Ma la ragione potrà far presa sulla realtà, e trasformarla, solo a patto che la realtà sia tale da assoggettarvisi: cioè che sia essa stessa, fin da principio, razionale. Leibniz, infatti concepisce la realtà in un modo per cui essa si presta ad essere conosciuta fino in fondo dalla ragione, e quindi anche ad essere padroneggiata fino in fondo dalla scienza, secondo i dettami della filosofia.

[La logica combinatoria]

Leibniz pensa che la realtà sia interamente ricostruibile a partire da elementi semplici primitivi, non ulteriormente analizzabili, e che dovrebbero costituire tutto con la loro combinazione. Quali siano codesti elementi semplici, Leibniz non dice mai: ma presuppone che ci siano; e, per lo meno da giovane, ritiene che sia possibile darne un elenco il più possibile completo. Fatto l'elenco, a ciascuno degli elementi si farà corrispondere un "carattere", e più precisamente un numero: ciò permetterà di ricostruire col pensiero ogni realtà possibile come una combinazione di numeri, e quindi anche di risolvere ogni possibile problema per mezzo di un calcolo. Quando due persone saranno in disaccordo su un punto qualsiasi, dice il Leibniz, potranno sedersi a un tavolo e dire: calcoliamo. Sul risultato di un calcolo il disaccordo non è più possibile.

A questo ideale rispondono diversi scritti giovanili del Leibniz, alcuni editi, altri incompiuti, e in particolare gli abbozzi di una Caratteristica universale (per far corrispondere i caratteri ai dati reali) nonché la Dissertatio de arte combinatoria (1666): un'arte che il Leibniz riprendeva dal Lullo e dal gesuita A. Kircher, dandole però una veste scientifica più rigorosa, e la funzione di ricostruire, attraverso un calcolo combinatorio, tutti i composti a partire da concetti primitivi.

Grazie a questa "scienza generale" l'universale pacificazione, perseguita dal Leibniz, sarebbe divenuta possibile: il calcolo avrebbe messo tutti d'accordo. Tanto che, ancora nell'84, il Leibniz sperava, per mezzo della sua logica combinatoria, di fornire la base per la conciliazione delle Chiese. In seguito, pur dovendo accantonare in parte il suo programma, il Leibniz continuò a concepire la realtà come una combinazione di elementi primitivi semplici, perché una realtà siffatta era la sola su cui la logica potesse far presa perfettamente.

Possibili e compossibili

I concetti semplici, di cui si è parlato, sono i possibili primitivi, pensati dalla mente divina, e con cui Dio costituisce il mondo. La loro possibilità è data, secondo il Leibniz, dal fatto di essere possibili senza contraddizione, possibile essendo "tutto ciò che non si contraddice". L'intelletto divino è il "luogo ideale" di tutti questi possibili, che hanno sede in esso, e che quindi, come pensieri attuali di Dio, non sono soltanto possibili, ma anche, in un certo senso, reali, e quindi tendono a porsi nell'esistenza, come entità reali anche di fatto.

Non tutti i possibili, però, secondo Leibniz, possono esistere insieme nella realtà di fatto: non tutti, cioè, sono "compossibili", perché dalla loro compresenza nascerebbero contraddizioni. Tutti i possibili che Dio pensa si organizzano allora in insiemi, che il Leibniz chiama "mondi", ciascuno dei quali è tutto compossibile in se stesso, ma non è compossibile con gli altri, nel senso che l'esistenza dell'uno esclude quella dell'altro e viceversa.

[Il migliore dei mondi]

Alcune di queste combinazioni di possibili, o mondi, sono più ricche, altre meno; e Dio, potendo farne passare all'esistenza una e non più, sceglie naturalmente la più ricca, e cioè il migliore dei mondi possibili. Su questa perfezione relativa (non assoluta come quella di Dio) del nostro mondo si fonda il famoso "ottimismo" leibniziano. E la "perfezione" consiste nel racchiudere la massima varietà possibile nella minima complessità: una sorta di "problema dei massimi e dei minimi", del tipo di quelli di cui Leibniz, con il calcolo infinitesimale, aveva insegnato a trovare la soluzione.

La teodicea

Quanto si è detto serve a Leibniz ai fini della "Teodicea", cioè della giustificazione di Dio dall'accusa di aver creato il male. Dio non ha creato il male, ma lo ha permesso, ossia ha permesso nel mondo una certa mancanza di perfezione, perché senza di essa il mondo non si sarebbe potuto distinguere da Dio stesso. Ma tale mancanza di perfezione è, nel mondo reale, la minima possibile: cioè, in nessun caso Dio avrebbe potuto far di meglio. Avrebbe potuto non far nulla; e avrebbe potuto anche (ma solo in un certo senso) scegliere un mondo meno perfetto, essendo la sua scelta del tutto libera. Tuttavia entrambe queste ipotesi sono del tutto irreali, perché, essendo Dio perfettissimo, è chiaro che, potendo creare qualcosa e potendo scegliere, ha scelto il meglio.

Questo è precisamente il motivo per cui Leibniz ammette la possibilità di molti mondi, tuttavia "incompossibili" tra loro: se non vi fossero molti mondi possibili, non si potrebbe dire che Dio scelga, non si potrebbe farne un essere intelligente, buono, provvidente, ma solo una necessità cieca ed assoluta, come per Spinoza. D'altro canto, se Dio potesse scegliere più di un mondo, e non lo facesse, si potrebbe sempre accusarlo di "non aver fatto tutto il possibile". Dunque, Dio è giustificato solo se è costretto a scegliere un mondo e uno soltanto: perché in tal caso sceglierà il massimo, cioè il meglio.

La libertà umana

[Il mondo è copia di un pensiero divino]

La teodicea leibniziana, oltre a lasciare alcune difficoltà rispetto a Dio (perché, tra l'altro, è difficile ammettere che ci sia un limite determinato alla perfezione di ciò che Dio può fare), pone il mondo in una strana condizione: di essere la copia esatta di un pensiero divino, e non potersi svolgere se non in un modo prefissato da tutta l'eternità.

Il nostro mondo, infatti, è la posizione nell'esistenza di un insieme di possibili a cui nulla può essere sottratto (perché ne nascerebbe un'imperfezione) e nulla può essere aggiunto (perché ne nascerebbe un'incompossibilità). Dunque, è un insieme di possibili che non può assolutamente essere variato. Allora, se ogni diversità è impensabile negli avvenimenti del mondo, come potrà l'uomo essere libero? Ove un uomo si comportasse diversamente da come fa, il mondo reale non corrisponderebbe più esattamente al mondo scelto da Dio, che è il migliore possibile, e non può esser diverso: dunque, la libertà è impensabile.

[Contingenza, non libertà]

Leibniz risponde che la relativa perfezione del mondo non gli toglie di essere "contingente", perché il nostro mondo è pur sempre soltanto uno degli infiniti mondi possibili, e Dio "avrebbe potuto" anche sceglierne un altro. Ma, per considerare libero un uomo che agisce nel nostro mondo, non basta ammettere che, in linea teorica, sarebbe potuto esistere un altro mondo al posto del nostro, in cui un altro individuo, più o meno simile (ma non identico) a questo, si comporterebbe in modo diverso, etc. Per considerare libero l'uomo bisogna che questo individuo, di questo mondo possa comportarsi diversamente: ciò che, nell'impostazione leibniziana, è impensabile.

Il panlogismo

C'è dunque un groviglio di difficoltà, che è opportuno vedere dove nascano. Il fatto è che la libertà umana (e, a ben vedere, anche la divina) riesce incompatibile con la concezione che il Leibniz ha del reale. Per un verso egli (a differenza di Spinoza) vuole che l'agire umano e l'operare divino siano liberi (e quindi passibili di giudizio morale), non frutto di assoluta necessità. Ma per un altro verso concepisce la realtà come tutta preordinata, nel suo contenuto nel su svolgimento, da una sorta di calcolo combinatorio automatico, che si svolge nella mente di Dio: e, questo, perché Leibniz vuole avere una realtà tutta perfettamente padroneggiabile dalla ragione, e quindi dal calcolo che della ragione è strumento. Nulla può esservi d'incerto nel risultato di un calcolo; nulla può prodursi di nuovo, se non relativamente alla nostra ignoranza: tutto discende con necessità dai dati iniziali. E, in una libertà siffatta, la libertà non può trovare posto.

E' questo l'aspetto per cui il pensiero di Leibniz vien considerato un "panlogismo": dottrina di una realtà interamente fondata sulla logica.

Tale tendenza è, senza dubbio, feconda di scoperte, perché induce Leibniz a presupporre, e quindi a cercare dappertutto, un ordine definibile matematicamente (vedi il calcolo differenziale e delle probabilità). Tuttavia, per un latro verso, il panlogismo leibniziano si lascia sfuggire aspetti della realtà di cui Leibniz, per primo, riconosceva l'importanza: Esso minaccia di appiattire il reale su un piano di pure essenze logiche, dove ciò che caratterizza l'esistente di fatto, in quanto distinto dal possibile, svanisce.

Verità di fatto e verità di ragione

Una prima distinzione, che può servire a superare il panlogismo, è quella che Leibniz fa tra "verità di ragione" e "verità di fatto". Le verità di ragione sono i rapporti eterni, che legano tra loro i possibili nella mente di Dio. Esse non dipendono affatto dal volere di Dio, che non può non riconoscerle, così come sono. Verità di questo genere sono, ad es., tutte le proposizioni della matematica; oppure le regole che distinguono in senso assoluto il giusto dall'ingiusto (le quali non dipendono dall'arbitrio divino, ma sono approvate da Dio perché valide, anzitutto, per se stesse). Tutte queste verità di ragione sono eternamente valide e immutabili, quindi fuori del tempo.

Le verità di fatto concernono invece gli accadimenti che si producono in un cero momento. Ad es., che Cesare passò il Rubicone, etc., è una verità di fatto. Ora, dato il modo in cui la sostanza "Cesare" è costituita - in un mondo perfettamente determinato dalla condizione di dover essere il migliore possibile - l'intelletto di Dio, che vede la pura essenza di Cesare quale sussiste da tutta l'eternità nella sfera dei possibili, non ha bisogno di apprendere come un fatto o un evento, il passaggio del Rubicone, etc., come accade invece a noi, che facciamo esperienza a poco a poco. I rapporti di "Cesare" con tutto il resto del mondo si presentano a Dio come rapporti necessari, fissati da tutta l'eternità, e quindi come "verità di ragione".

Se, dunque, cancellassimo la differenza tra verità di fatto e verità di ragione, tutta la storia, cioè lo sviluppo successivo dell'esistente nel tempo, scomparirebbe, riducendosi a un insieme di rapporti logici astratti, sussistenti nell'eternità. Ma Leibniz ci avverte che, per noi, è impossibile cancellare tale differenza: perché, per questo, dovremmo essere capaci di analizzare perfettamente tutta la realtà, e vederla tutta insieme di fronte a noi, come Dio solo può fare.

Virtualità del reale

Abbiamo visto che il mondo esistente differisce dal corrispondente "mondo possibile" solo perché è prospettato da infiniti punti di vista diversi (le monadi) che si distinguono l'uno dall'altro, non per il contenuto (che è sempre l'intero mondo), ma unicamente per la maggiore o minore "chiarezza e distinzione" con cui colgono questo identico contenuto, nelle sue varie parti. Ebbene, la relativa "oscurità" e "confusione", per cui le monadi si distinguono l'una dall'altra, non è, per definizione, riducibile in termini di idee chiare e distinte: è un principio irriducibile ai puri rapporti logici. Dunque, solo in virtù di un principio irriducibile ai rapporti logici qualcosa esiste, distinguendosi dal mero possibile.

Ne viene che è irriducibile a puri rapporti logici anche lo sviluppo di ciascuna monade: cioè il passaggio progressivo dall'oscurità alla chiarezza, per cui la monade svolge il proprio contenuto poco a poco, trascorrendo da una rappresentazione all'altra, per una congenita "appetizione", e tendendo, per quanto sta in lei, a rappresentazioni sempre più chiare e distinte. Questo appetere, questo tendere, è anch'esso un principio che non rientra nelle dimensioni del panlogismo, e caratterizza, per contro, l'esistenza di fatto.

Ed è un principio di questo genere ancora l'esigenza, che le monadi hanno, di possedere un proprio corpo esteso, o organismo; e che, reciprocamente, i corpi estesi hanno di radicarsi nelle monadi, attive ed inestese.

Tutti questi principi, che non consistono di rapporti logici, si possono ricondurre alla nozione generale di virtualità: ovvero di una attività spontanea per cui la monade tende ad un fine, già oscuramente contenuto in lei, ma che la vita della monade ha il compito di rendere via via più esplicito. Questa attività oscura, tendente alla chiarezza e alla perfezione, non consiste, né in un particolare contenuto della monade, né in un rapporto logico tra i suoi contenuti: atteggiamento che il Leibniz chiama variamente, con i nomi di conato, impulso, appetizione, etc., che comunque designano tutti, non le rappresentazioni che la monade ha, bensì un modo particolare di averle: cioè di averle imperfettamente, e insieme con l'aspirazione a possederle in un modo sempre più perfetto. Tale concetto di virtualità è la particolare interpretazione leibniziana della nozione aristotelica di entelechia (l'avere "il fine in sé": ma nella forma di tendere a un fine).

La teoria della conoscenza

Innatismo virtuale

Il concetto che abbiamo esposto di "virtualità" è fondamentale anche per la teoria leibniziana della conoscenza, presentata dai Nuovi Saggi sull'intelletto umano (1704), in cui Leibniz riporta testualmente lunghi brani del Saggio del Locke, per discuterli e confutarli.

Leibniz esamina, in particolare, la critica lockiana dell'innatismo, condotta in base all'osservazione che nei bambini e nei selvaggi mancano tutti i concetti che alcuni ritengono innati: ciò che induce a concludere che "non c'è nulla nell'intelletto che prima non sia stato nel senso". Leibniz risponde: "sì, salvo lo stesso intelletto". Poiché l'intelletto non è una capacità puramente passiva di ricevere impressioni, come una tavoletta di cera (del resto, neppure il Locke lo aveva propriamente pensato così): bensì una potenza attiva di sviluppare certe potenzialità che ha in sé. Questi caratteri potenziali dell'intelletto (e questo spiega perché non si trovino sviluppate nei selvaggi e nei bambini) prefigurano già quali saranno le conoscenze effettive.

In che cosa consistono le potenzialità virtuali dell'intelletto? In un senso più stretto, sono le "verità di ragione", cioè quei rapporti, validi eternamente, secondo cui non potranno non configurarsi le conoscenze di fatto, che l'esperienza via via fornisce. Ma in un latro senso, più ampio, considerando che ogni monade ha già in sé tutta la propria storia, la quale coincide con l'intero mondo visto in una particolare prospettiva, si può dire che sono innate, per Leibniz, anche tutte le verità di fatto: giacché l'intelletto non le apprende di fuori, ma le sviluppa dal proprio fondo.

Vedendo così le cose, Leibniz vorrebbe opporre un "tutto è innato" al "nulla è innato" di Locke. Tuttavia, pur entro questo innatismo generale, una differenza rimane: perché le verità di ragione hanno, bensì, una genesi psicologica in noi, ma, in sé, sono eterne e ingenerate; per contro le verità di fatto sono tali perché si presentano come accadimenti nel tempo: e quindi, rispetto ad esse, si può parlare ancora di "esperienza", sia pure intendendo l'esperienza non come un contatto diretto con l'esterno, bensì come di un'esperienza tutta interiore.

Contraddizione e ragion sufficiente

La differenza su esposta induce Leibniz ad ammettere due principi fondamentali del conoscere: il principio di non contraddizione, da cui dipendono tutte le verità di ragione, e che determina quel che è "possibile" e quel che non lo è; e il principio di ragion sufficiente, da cui dipendono tutte le verità di fatto, e che quindi determina l'esistente in quanto si distingue dal puro possibile.

Il principio di non contraddizione basta da solo a fondare tutte le scienze matematiche, e i principi di tutte le altre scienze, i quali dipendono dalle verità eterne.

Il principio di ragion sufficiente serve a fondare le scienze della natura, e si può esprimere così: "Di tutto ciò che accade, vi è una ragione per cui accade, e per cui accade in un dato modo anziché in un altro". Questa ragione Dio, che vede distintamente tutti i mondi possibili, potrebbe trovarla nelle sole verità eterne; ma per noi questo è impossibile, sicché spesso dobbiamo cercare la ragione delle cose per mezzo dell'esperienza.

Altri principi generali del conoscere - meno fondamentali, e che dipendono dal modo dal modo particolare in cui Leibniz imposta il problema della realtà - sono il principio di "continuità" e quello degli "indiscernibili".

La continuità non è una legge che appartenga alla sfera dei puri concetti (ossia dei puri possibili): poiché qui abbiamo visto che il Leibniz ammette infiniti semplici primitivi, dunque una pluralità "discreta" (discontinua) di elementi. Essa vige, per contro nella sfera del reale, e dipende dalla stessa virtualità delle monadi, per cui esse passano progressivamente da una rappresentazione all'altra, e tendono a rappresentazioni sempre più chiare e distinte. Appunto questa differenza nel modo di avere rappresentazioni è continua: cioè passa attraverso tutti i gradi intermedi, tra l'ottusità massima delle monadi costituenti la materia bruta, e la distinzione perfetta di tutti i possibili, colti in un unico in un unico atto mentale d'intuizione, che è propria solo dell'intelletto divino. Dato, poi, che da questa differenza dipende la pluralità delle monadi, e quindi anche l'esistenza di fatto, la legge di continuità viene a caratterizzare tutta l'esistenza di fatto.

Caratteristico del leibnizianesimo è pensare che la differenza tra il conoscere dei sensi e quello dell'intelletto sia precisamente una differenza di distinzione e, quindi, una differenza di grado (non di natura). Quindi, come tale, una differenza continua, capace di infinite sfumature. Entro questa scala continua, si può dire che il senso cominci a conoscere attualmente allorché le sue percezioni si fanno coscienti ("appercezioni"). A questo punto le rappresentazioni sono bensì già "chiare" (nel senso che si staccano da quel fondo oscuro della monade che sono le "piccole percezioni) ma non sono ancora "distinte", perché in esse non si distinguono ancora ad uno ad uno, gli elementi della cosa e i loro rapporti.

Gli indiscernibili

Il "principio degli indiscernibili" afferma che due entità qualsiasi non possono essere due (numericamente) se non sono anche diverse (qualitativamente). Nel caso dei concetti, la validità del principio è evidente: un concetto può essere distinto da un altro solo se ha in sé qualche nota diversa: altrimenti è lo stesso concetto. Nel caso delle monadi, è evidente del pari: due monadi il cui punto di vista sul mondo coincidesse perfettamente non sarebbero due, bensì una monade sola.

Angelo Papi - Contatto

Fonti

La critica

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015