HEGEL: L'AVVENTURA UMANA NELLA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO (SECONDA PARTE)

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HEGEL: L'AVVENTURA UMANA NELLA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO (SECONDA PARTE)

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Giuseppe Bailone

Con la coscienza della dignità e del valore del suo lavoro, il servo guadagna accresciuta quella stima di sé persa nel momento in cui, sconfitto da un’autocoscienza spiritualmente più forte, si è messo al suo servizio, e inizia il percorso della propria liberazione e della conquista dell’eguaglianza umana.

Riuscendo, attraverso il lavoro, a modellare la realtà esterna, il servo incomincia a sentirsi signore delle cose, a vedere nel lavoro l’oggettivazione di un suo valore interiore, a rendersi conto dell’importanza della sua interiorità, del suo pensiero, della sua spiritualità. Incomincia ad avere con il mondo esterno un atteggiamento in qualche misura simile a quello del suo signore nei confronti suoi, a ritenerlo cioè privo di valore, a non riconoscerne l’importanza. Avvia così quel distacco dal mondo delle cose destinato a durare fino alle soglie dell’età moderna.

In questo tratto dell’avventura umana, prende forma la figura dello stoicismo, nella quale tutte le condizioni esterne, anche la differenza istituzionale tra servo e signore, diventano irrilevanti: quel che conta ora è la libera spiritualità interiore (significativamente, infatti, troviamo tra i filosofi stoici sia uno schiavo, Epitteto, che un signore d’altissimo livello, l’imperatore Marco Aurelio). La saggezza stoica pratica la libertà interiore come dominio sui sentimenti, sulle passioni e come indipendenza totale dalle cose. Il saggio stoico basta a se stesso, non ha bisogno delle cose, è autosufficiente: la vera ricchezza è la sua forza interiore, la sua libertà dalle cose del mondo.

Questa libertà stoica, che si crede assoluta, è, in verità, astratta: è fatta di pensiero vuoto, destinato a produrre la figura successiva dello scetticismo.

Lo scettico si libera da ogni dipendenza, non solo dal mondo delle cose, ma, anche dalla verità, tenuta in gran conto dallo stoico. E se ne libera attraverso il dubbio. Dubitando di tutto, però, la coscienza scettica finisce per dubitare anche di se stessa, per contraddirsi nel vaniloquio, fino a sentirsi nulla.

I due poli spirituali opposti del signore e del servo, negati in queste due figure, ma, non ancora superati in una conciliazione dialettica, riemergono divisi nell’autocoscienza, determinando la figura successiva della coscienza infelice, propria del cristianesimo.

Nel cristianesimo, l’autocoscienza si divide in due poli contrapposti: un polo infinito, assoluto, onnipotente, trascendente, Dio, e un polo finito e mutevole, l’uomo, cui non resta che piegarsi devotamente in totale dipendenza da Dio. Il Signore Iddio, però, e il suo umile servo fedele, che si presentano come entità distinte e contrapposte, sono in realtà la proiezione dei due poli della coscienza divisa, che, sapendo impossibile la loro conciliazione in questa vita, cui ardentemente aspira, la vagheggia realizzata nell’aldilà.

Questa lacerazione interiore si presenta particolarmente acuta nel Medioevo, quando, con la pratica dell’ascetismo, l’autocoscienza cerca d’innalzarsi a Dio e di perdersi in lui. È il tempo in cui l’umanità si misura con l’infelicità e la miseria della carne e tende a liberarsene. In particolare, col misticismo la coscienza pratica una specie di unità con Dio, rovesciando quella posizione di abissale distanza da Dio, che ha aperto la fase della coscienza infelice.

Con quest’apparente unificazione-annullamento in Dio, la coscienza innalza il suo punto di vista e crede di comprendere in sé l’intera realtà. Anche il mondo terrestre non è più estraneo alla coscienza. Convinta di aver avviato l’incontro con il divino, la coscienza s’impegna ora a cercarlo nell’aldiquà. La natura torna a essere interessante per la coscienza, come se avesse ormai attraversato interamente il purgatorio dell’interiorità iniziato con il pensiero stoico. L’umanità riscopre la natura, il mondo esterno:

“L’autocoscienza viene a trovarsi in tal condizione come se il mondo le si presentasse per la prima volta”.1

In questa fase l’autocoscienza diventa ragione: la coscienza acquista, dice Hegel, il punto di vista idealistico, cioè non sente più come a lei estranei Dio e il mondo, perché li ha portati in qualche modo dentro di sé, ha superato il dualismo soggetto-oggetto.

Inizia l’età moderna, aperta dall’umanesimo rinascimentale, in cui l’uomo si attribuisce caratteri divini e tenta la riconciliazione nel mondo della storia.

Alla mistica medievale succede la ragione rinascimentale.

“La ragione è la certezza della coscienza di essere ogni realtà”.2

Torna qui, nel testo hegeliano, il termine “certezza”, per caratterizzare questo primo momento della vita della ragione, proprio com’era già avvenuto con la “certezza” della coscienza sensibile. La certezza è l’inizio di un’esperienza spirituale che porta sì alla conoscenza piena, assoluta, ma dopo un lungo e tormentato percorso. La certezza, che sembra tanto ricca, è solo l’inizio dell’avventura della conoscenza. È la certezza di avere un mondo reale da scoprire, un mondo che si ripresenta come per la prima volta, un mondo di cui si sa solo che c’è, ma non ancora che cosa sia. Inizia, allora, “un inquieto cercare”, teso a giustificare la certezza iniziale e a trasformarla in verità.

Di fronte a una realtà avvertita non più come estranea, la ragione crea la sua prima figura facendosi ragione osservatrice. Siamo alla nascita della scienza moderna: la ragione cerca se stessa nella natura, tentando di cogliere nei dati forniti dall’esperienza un ordine razionale, delle leggi sue. Il metodo scientifico s’impone rapidamente e diventa un modello anche per la ricerca intorno alla vita psichica. Nascono due strane scienze: la fisiognomica, tesa a cogliere il carattere di un individuo con l’analisi dei tratti della sua fisionomia, e la frenologia, tesa a conoscere il carattere di una persona attraverso la forma e le protuberanze del cranio. Con questo grottesco “tentativo di far passare un osso per l’effettuale esserci della coscienza”, la ragione, in questa sua ricerca di sé estenuante e deludente, rinnega se stessa e raggiunge il suo “ultimo” e “peggiore” gradino.

“Ma, appunto per questo – scrive Hegel – la sua conversione è necessaria”.3

Un risultato così negativo è dovuto al modo intellettualistico, analitico ed esteriore, della ricerca che la ragione fa di sé nel mondo.

A questo momento oggettivo segue, per rovesciamento dialettico, quello soggettivo: la ragione cerca d’imporsi sulla realtà con l’azione, come nel Faust goethiano.

Si hanno allora esperienze spirituali quali l’edonismo e il sentimentalismo romantico della legge del cuore; esperienze destinate a scontrarsi con il corso del mondo.

La ricerca faustiana del piacere finisce presto travolta dal destino. La legge del cuore si scontra contro un mondo ritenuto malvagio e dominato da “preti fanatici e despoti corrotti”.

Sorge allora il “cavaliere della virtù”, che vuol imporre la sua idea individuale di bene. Questi, però, per preservare la purezza della sua virtù, deve combattere solo per finta, perché, al primo scontro con il corso del mondo, questa virtù rivelerebbe la sua natura astratta e la sua totale inefficacia.

“Per la coscienza virtuosa l’universale è verace nella fede o in sé; e non è ancora un’universalità effettuale, ma astratta […]. La virtù non somiglia soltanto a quel contendente che nella lotta era tutto occupato a mantenere immacolata la spada, essa è anche entrata in lizza per preservare le armi […]. La virtù vien dunque vinta dal corso del mondo perché suo fine è in effetto l’essenza astratta e ineffettuale […]. Così il corso del mondo ottiene la vittoria su ciò che, in contrapposizione a lui, costituisce la virtù […]. Ma esso non trionfa di alcunché di reale […]; trionfa di tale pomposo discorrere del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa; di tale pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; – simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un eccellente essenza; – ma è invece una gonfiatura che fa grossa la propria testa e quella degli altri, la fa grossa di vento”.4

La ragione pratica fallisce sia nella sua ricerca edonistica, sia cercando di imporre la legge del cuore, sia provando a imporre al mondo la sua virtù. E fallisce perché si oppone al mondo come pura individualità. Toccando con mano che il corso del mondo ha sempre ragione, l’imperativo categorico diventa privo di senso e la morale, vertice umano per Kant, trova il suo superamento nell’etica, che per Hegel è quel momento della vita dello spirito in cui l’individuo si riconosce nel contesto oggettivo di un popolo e vede il suo dovere espresso nelle sue istituzioni, come avveniva nel mondo greco classico. Hegel oppone qui alla tensione morale individualistica l’etica antica.

“La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità [intesa] come una universale inversione, né contro un corso del mondo.5

A confronto dell’etica antica, la morale soggettiva rivela ancor più la sua inconsistenza. Anche l’interesse che aveva acceso si sta ormai spegnendo e lascia il posto alla noia.

“La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole; giacché dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia […].

Ecco dunque in effetto qual è il risultato di tale opposizione: la coscienza si sbarazza, come di un vano mantello, della rappresentazione del bene in sé che non avrebbe ancora effettualità alcuna. Nella sua lotta la coscienza ha sperimentato come il mondo non sia tanto malvagio quanto pareva: la sua effettualità è, infatti, la realtà dell’universale”.6

La ragione diventa spirito e si torna all’inizio, come nel gioco dell’oca: il percorso si ripete, però, a un livello più alto, quello dell’etica.

Si riparte dall’etica bella, naturale, espressa nella vita della polis, dove il cittadino vive come bene suo individuale il bene della sua comunità. Quella bella armonia, però, si rompe per la dialettica che anima il movimento reale.

Infatti, anche nel mondo greco, così idealizzato e così armonico, si apre un conflitto irriducibile di norme, come rappresenta con molta efficacia la tragedia, in particolare l’Antigone di Sofocle: le leggi scritte dello Stato confliggono con le leggi divine, non scritte, del culto familiare dei morti, senza alcuna possibilità di mediazioni.

L’etica della Grecia classica è naturale e bella, ma, non ancora messa alla prova, assomiglia alla certezza che deve farsi verità attraverso la dura e dolorosa ricerca. Assomiglia alla festa della domenica delle palme, che apre la settimana di passione, al termine della quale soltanto c’è la festa piena e conquistata con la sofferenza, la domenica della resurrezione.

Le lacerazioni tragiche nel mondo greco aprono la storia del mondo occidentale, una storia di passione, necessaria alla formazione di un’eticità matura, capace di conciliare, in modo non solo immediato, bensì attraverso la mediazione dialettica, bene individuale e bene comune.

Il conflitto tragico di leggi umane e divine, infatti, determina il tramonto dell’eticità greca e la sua frammentazione in persone giuridiche singole, governate dall’universalità astratta di una legge.

Si entra così nel mondo romano, segnato dalla divisione e contrapposizione fra individui e Stato. Qui la legge non è più la volontà individuale che ha trovato armonicamente espressione nelle istituzioni dello Stato, bensì è l’espressione di un potere universale, quello dell’imperatore, che sovrasta tutti.

Si apre, a questo punto, il “regno della cultura”, nel quale si rifiuta tutto ciò ch’è immediato e si assegna valore a ciò ch’è riflesso e mediato, frutto di pensiero. In questa nuova sezione, quella dello Spirito, Hegel ripensa la storia culturale europea, con particolare attenzione all’Illuminismo, visto come vittoria sull’oscurantismo clericale e superstizioso e sul dispotismo politico. Questa vittoria, però, spacciata come vittoria della ragione, è, in realtà una vittoria del solo intelletto.

In questa distinzione tra ragione e intelletto, Hegel rimprovera all’intelletto l’uso esclusivo della categoria dell’utilità, incapace di superare veramente i dualismi e le lacerazioni che prende di mira. La libertà illuministica, tesa a travolgere i vincoli della fede e della tradizione, risulta, allora, solo negativa e astratta e finisce nel delirio del Terrore della rivoluzione francese.

Hegel vede sorgere da quest’azione rivoluzionaria terroristica e autodistruttiva la nuova figura dello spirito morale. Si passa così agli ultimi sviluppi del pensiero tedesco.

Lo spirito sta arrivando a Hegel e al sistema che egli comincia a edificare. Lo spirito è arrivato alla pagina che sta ora scrivendo servendosi di Hegel.

Torino 17 maggio 2016

NOTE

1 Hegel, fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia 1960, p. 194.

2 Ib. p. 194.

3 Ib. pp. 283-85.

4 Ib. pp. 319-324.

5 Ib. p. 324.

6 Ib. p. 324.

ANNO ACCADEMICO 2015-16 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Cfr il saggio di Tony Smith


Testi di Hegel


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 04-12-2016