Cartesio: dall’io a Dio

TEORICI
Politici Economisti Filosofi Teologi Antropologi Pedagogisti Psicologi Sociologi...


Cartesio: DALL'IO A DIO

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X

Cartesio allo scrittoio

Trovata la verità prima e indubitabile, Cartesio avvia la ricerca di tutte le sue implicazioni, applicando “la regola generale”.

E la prima implicazione è: l’espressione “io penso, o dubito” è uguale all’espressione “io ho delle idee che metto in dubbio”.

Questa equivalenza porta con sé la domanda sull’origine di queste idee: da dove vengono, da dove possono essermi arrivate?

Di queste idee, pensa Cartesio, alcune potrebbero essere il prodotto della mia immaginazione, ma altre no: sembrano aver avuto origine dall’esperienza di cose esterne o essere nella mia mente da sempre.

Esistono, si domanda, le cose esterne di cui mi sembra di avere esperienza?

Non solo: tra le mie idee, pensa Cartesio, c’è anche quella di Dio, di cui non penso di avere esperienza come delle altre cose.

Sono quindi tre i tipi di realtà cui si riferiscono le idee: quella dell’io, quella delle cose esterne all’io, quella di Dio.

Della realtà del proprio io Cartesio ha trovato la certezza nel dubbio stesso e ha fatto di essa il suo punto di partenza.

Gli resta da accertare l’esistenza delle cose esterne e di Dio.

Non può ricavare l’esistenza delle cose esterne dal pensiero che ne ha, come ha fatto con la propria esistenza: non può dire che l’idea che ha di calore prova l’esistenza del fuoco presso il quale pensa di trovarsi. Il dubbio iperbolico, che lo rende certo della propria esistenza, lo rende incerto sull’esistenza del fuoco, dello spazio, in cui pensa di trovarsi, e anche del suo corpo. L’idea del fuoco e quelle dello spazio e del proprio corpo potrebbero essere frutto della sua immaginazione, essere illusione, inganno divino o del genio maligno. Allo stesso modo si può pensare di tutte le altre idee delle cose esterne.

Cartesio lascia quindi sospesa la questione dell’esistenza delle cose esterne e del proprio corpo e prende in considerazione l’idea di Dio.

Cartesio non arriva all’idea di Dio muovendo dalle cose esterne, come hanno fatto tanti filosofi. Avendo messo in dubbio il mondo e tutte le sue cose, compreso il proprio corpo, non può arrivare a Dio come causa e principio di tutte queste cose.

Come può allora arrivare a Dio?

Cartesio non arriva a Dio. Parte dall’idea di Dio, che si trova ad avere e che, come tutte le altre, egli ha messo in dubbio.

Quest’idea, però, pensa Cartesio, è radicalmente diversa dalle altre: non posso pensare di averla prodotta io stesso.

Per creare un’idea, secondo Cartesio, bisogna avere, in misura maggiore o almeno uguale, la perfezione dell’ente che l’idea rappresenta.

Si tratta di un principio che, come tutti gli altri, il dubbio ha messo fuori uso. Cartesio, però, se ne serve per un passo decisivo. Evidentemente, lo ritiene ormai confermato in tutto il suo valore dalla “prima regola” ricavata dal cogito ergo sum, nonostante la residua “ben leggera” ragione di dubitare.

Nasce così, da questi presupposti, un’originale prova dell’esistenza di Dio, e l’ancor più originale idea che solo la dimostrazione dell’esistenza di Dio renda valida la fede nell’esistenza del mondo.

L’idea di Dio non posso averla fatta io, dice Cartesio, perché rappresenta la perfezione e l’infinito, mentre io sono imperfetto e finito.

“Col nome di Dio – scrive Cartesio – intendo una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso, e tutte le altre cose che sono (se è vero che ve ne sono di esistenti), siamo stati creati e prodotti. Ora queste prerogative sono così grandi e così eminenti, che più attentamente le considero, e meno mi persuado che l’idea che ne ho possa trarre la sua origine da me solo”.[1]

Si può, è vero, pensare il riposo e il buio come privazione del movimento e della luce, ma per pensare l’infinito e la perfezione non si può fare un’operazione analoga.

Io non posso aver tratto dalla nozione che ho di me, finito e imperfetto, l’idea di Dio, pensandolo privo di tutti i miei limiti e imperfezioni.

Sostiene Cartesio: “… vedo manifestamente che si trova più realtà nella sostanza infinita che nella sostanza finita, e quindi che ho, in certo modo, in me prima la nozione dell’infinito che del finito, cioè prima la nozione di Dio che di me stesso. Perché come potrei conoscere che dubito e che desidero, cioè che mi manca qualcosa, e che non sono del tutto perfetto, se non avessi in me idea di un essere più perfetto del mio, dal cui paragone riconoscere i difetti della mia natura?”.[2]

Se Cartesio pensa di avere in sé prima la nozione di Dio che di sé, perché è partito dall’io per arrivare a Dio?

Quel “prima” credo, però, che vada inteso più in senso logico che temporale.

Cartesio inizia sì il processo di fondazione del sapere dalla propria esistenza, ma è su Dio che conta.

E’ Dio, non l’io, il suo punto d’Archimede, la sua solida roccia.

L’idea di Dio per Cartesio è tale che la sua esistenza nella mente egli se la spiega solo con la reale esistenza di Dio. Se egli pensa Dio, ciò vuol dire che Dio c’è ed è la causa di quel pensiero che non può aver prodotto da sé.

Non solo. La presenza dell’idea di Dio nella sua mente convince Cartesio anche di non essere l’autore del proprio essere. Se, infatti, si fosse fatto da sé, avendo con l’idea di Dio anche quella della perfezione assoluta, si sarebbe fatto perfetto, attribuendosi tutti gli elementi di perfezione di cui aveva nozione. Ma, non è perfetto, quindi, non si è fatto da sé.

Arrivato a questo punto, Cartesio potrebbe domandarsi perché Dio, perfetto e onnipotente, non lo abbia fatto perfetto.

Lo farà più avanti. Adesso accentua la propria dipendenza da Dio.

“Bisogna, dunque, solamente che io interroghi qui me stesso, per sapere se posseggo qualche potere e qualche virtù, capace di fare in modo che io, che ora esisto, esista ancora nell’avvenire: orbene, poiché io non sono altro che una cosa che pensa (o almeno, poiché finora precisamente si è trattato solo di questa parte di me), se tale potenza risiedesse in me, certo dovrei almeno pensarla ed averne conoscenza; ma io non l’avverto affatto in me, e da ciò conosco evidentemente che dipendo da qualche essere differente da me”.[3]

Dio non solo l’ha creato, ma lo conserva in essere.

“…dal fatto solo che esisto, io, che posseggo quest’idea [di Dio], concludo così evidentemente l’esistenza di Dio e l’intera dipendenza della mia esistenza da lui in tutti i momenti della mia vita, che non penso che lo spirito umano possa conoscere qualcosa con maggiore chiarezza ed evidenza. E già mi sembra di scoprire un cammino che ci condurrà da questa contemplazione del vero Dio (nel quale tutti tesori della scienza e della sapienza sono rinchiusi) alla conoscenza delle altre cose dell’universo”.[4]

Arrivato a Dio, Cartesio può credere nella verità.

“Poiché, in primo luogo io riconosco che è impossibile che Dio m’inganni mai, ché in ogni frode ed inganno si trova sempre qualche specie d’imperfezione. E sebbene sembri che potere ingannare sia un segno di sottigliezza, o di potenza, tuttavia voler ingannare testimonia, senza dubbio, debolezza o malizia. E, pertanto, ciò non può trovarsi in Dio”.[5]

L’ipotesi che Dio possa ingannarlo anche in ciò che gli è evidente è distrutta.

Arrivato a Dio, può annientare l’ipotesi catastrofica che gli ha offerto la prima evidenza da cui partire, il primo gradino della scala che l’ha portato a Dio.

Nella “Quinta meditazione” Cartesio riprende una prova dell’esistenza di Dio che già aveva presentato nel Discorso sul metodo. Si tratta dell’argomento proposto da Anselmo d’Aosta e respinto da Tommaso d’Aquino.

Esso parte dall’idea di Dio, come essere perfetto, e ne deduce l’esistenza come parte essenziale della sua perfezione.

Come nell’idea di triangolo è compreso che la somma dei suoi angoli interni è di 180°, così nell’idea di Dio è compresa la sua esistenza. Si tratta di certezza intuitiva e dimostrativa di tipo matematico, quella esemplare per Cartesio, che egli ha imparato a usare per lunga consuetudine.

Cartesio ha strappato al dubbio la certezza intuitiva della propria esistenza come cosa che pensa; ha trovato tra gli oggetti del suo pensiero un’idea che gli prova senza il minimo dubbio l’esistenza di Dio; ha accertato di non essersi fatto da sé, ma di essere stato creato e conservato in essere da Dio; ha così raggiunto la certezza di potersi fidare del proprio lume conoscitivo, perché gli viene da Dio che, essendo la perfezione, non inganna. Può allora procedere e far chiarezza intuitiva e dimostrativa sulle altre sue idee. 

La certezza intuitiva della propria esistenza come cosa che pensa l’ha portato all’idea di Dio; la dimostrazione, che egli ritiene rigorosa e indubitabile dell’esistenza di Dio e della sua perfezione, lo porta a ritenere attendibile la sua credenza di avere un corpo e che il mondo esista.

Ormai sicuro che Dio esiste e non fa scherzi, non inganna, Cartesio è certo della verità dei giudizi formulati nel rigoroso rispetto del metodo.

Se, al tempo del dubbio, aveva prospettato le difficoltà a distinguere la veglia dal sogno, adesso scrive: “Ma quand’anche io dormissi, tutto ciò che si presenta al mio spirito con evidenza è assolutamente vero. E così riconosco chiarissimamente che la certezza e la verità di ogni scienza dipende dalla sola conoscenza del vero Dio: in modo che, prima che io lo conoscessi, non potevo sapere perfettamente nessun’altra cosa. Ed ora che lo conosco, ho il mezzo di acquistare una scienza perfetta riguardo ad un’infinità di cose”.[6]

Bisogna essere sicuri dell’esistenza di Dio per fidarsi della scienza?

Abbiamo già visto che, per Cartesio, l’ateo “non può sapere nulla con certezza e sicurezza”.

L’ateo può, per Cartesio, arrivare alla certezza della propria esistenza, ma resta poi impigliato in dubbi mai del tutto superabili.

I dubbi sollevati dalla prima ipotesi, quella che Dio lo possa ingannare, in verità, sono anche più profondi di questi prodotti dall’ateismo, ma, Cartesio pensa di averli superati.

La sua fondazione della scienza avviene in due momenti: non basta accertarsi della propria esistenza, bisogna togliere ogni dubbio sull’esistenza di Dio e fare della sua perfezione il fondamento della verità.

La filosofia cartesiana parte dalla centralità dell’io, ma si fonda sulla centralità di Dio, in perfetto spirito agostiniano.

Il Dio di Cartesio è onnipotenza, sovranità assoluta.

Dio è sovrano anche della verità. E’ garante ultimo della verità, perché è lui a determinarla, non perché essa, come pensa Galileo, s’imponga alla ragione, umana e divina, per il suo intrinseco valore.

In Risposte alle seste obbiezioni sul rapporto tra le verità matematiche e Dio, Cartesio scrive a chiare lettere: “Quanto alla libertà d’arbitrio, è certo che in Dio è ben differente che in noi, poiché ripugna che la volontà di Dio non sia stata da tutta l’eternità indifferente a tutte le cose che sono state fatte o che si faranno mai, non essendovi nessuna idea, che rappresenti il bene o il vero, ciò che bisogna credere, ciò che bisogna fare, o ciò che bisogna omettere, che si possa fingere sia stato oggetto dell’intelletto divino prima che la sua natura sia stata costituita tale dalla determinazione della sua volontà. Ed io non parlo qui d’una semplice priorità di tempo, ma, di più, dico che è stato impossibile che una tale idea abbia preceduto la determinazione della volontà di Dio per una priorità di ordine, o di natura, o di ragion ragionata, come è chiamata nella Scuola, sì che questa idea del bene abbia portato Dio a scegliere l’una cosa piuttosto che l’altra. Per esempio, non è già per aver visto ch’era meglio che il mondo fosse creato nel tempo e non nell’eternità, ch’egli ha voluto crearlo nel tempo; e non ha voluto che i tre angoli d’un triangolo fossero uguali a due retti poiché ha conosciuto che ciò non poteva essere fatto altrimenti, ecc. Ma, al contrario, poiché ha voluto creare il mondo nel tempo, per questo esso è migliore così che se fosse stato creato nell’eternità; e poiché ha voluto che i tre angoli di un triangolo fossero necessariamente uguali a due retti, adesso è vero che questo è così, e non può essere altrimenti; e così di tutte le altre cose … E così una totale indifferenza in Dio è una prova grandissima della sua onnipotenza”.[7]

La verità non s’impone a Dio; è Dio che la impone.

Cartesio l’aveva già scritto con nettezza a Mersenne il 27 maggio 1630: “Voi domandate chi ha necessitato Dio a creare queste verità; ed io dico che egli è stato libero di fare che non fosse vero che tutte le linee tirate dal centro alla circonferenza fossero uguali, come è stato libero di non creare il mondo”.

All’alternativa dell’Eutifrone (il bene è ciò che piace agli dei o esso piace agli dei perché è bene?)[8] Cartesio risponde in modo diametralmente opposto a Platone e, in generale, ai Greci. Agisce in lui l’idea biblica di Dio onnipotente creatore dal nulla di tutte le cose, anche del bene e del vero.

Il vero e il bene non sono assoluti. Assoluto è il potere di Dio, che determina con la sua onnipotente volontà ciò che deve essere considerato vero e bene.

Solo Dio è assoluto: la verità è un suo prodotto. Immutabile perché è il decreto dell’essere onnipotente e perfetto.

Prima che ragione assoluta, Dio è per Cartesio volontà, potere assoluto.

E’ nella volontà libera, più che nella ragione che l’uomo si avvicina a Dio. Abbiamo, infatti, da poco letto in Cartesio che “essa principalmente mi fa conoscere che reco l’immagine e la rassomiglianza di Dio”.

Nella ricorrente battaglia filosofica tra razionalisti e volontaristi, Cartesio si schiera nettamente con i volontaristi.


[1]Ib., p. 43.

[2]Ib., p. 43.

[3]Ib., p. 46.

[4]Ib., p. 50.

[5]Ib., pp. 50-51.

[6]Ib., pp. 65-66.

[7]Ib., pp. 399-400.

[8] Su questo tema si veda il mio Viaggio nella filosofia, La filosofia greca, Università popolare di Torino editore 2009, p. 77.


Torino 5 marzo 2012

Giuseppe Bailone


Testi di Cartesio

Testi su Cartesio


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26-04-2015