RENE' DESCARTES - Cartesio

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RENE' DESCARTES (CARTESIO) (1596-1650)

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RENE' DESCARTES (CARTESIO)

LA METAFISICA

Cartesio era persuaso che "tutta la filosofia [ossia tutto il sapere] sia come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che procedono dal tronco sono tutte le altre scienze ..." e questo lo portò a costruire una metafisica che potesse rispondere alle esigenze della sua fisica.

Cartesio espose il suo pensiero metafisico in quattro opere diverse nel giro di quindici anni circa:

+ nel "piccolo trattato di metafisica", redatto in latino nel 1629 ma non portato a termine, e comunque non pervenutoci,

+ nella IV parte del Discours de la méthode (1637, vers. lat. 1644),

+ nelle Meditationes de prima philosophia (1641-2, trad. fr. 1647),

+ nella I parte dei Principia philosophiae (1644, trad. fr. 1647).

Stando alle sue esplicite dichiarazioni, uno stretto rapporto lega fra loro queste successive esposizioni, con una posizione preminente delle Meditationes.

Negli anni 1628-29, che segnano il passaggio dal soggiorno parigino al definitivo stabilirsi in Olanda, matura l'interesse di Cartesio per i problemi fondamentali della metafisica. Negli ultimi anni trascorsi a Parigi, frequentando il circolo di Mersenne e mantenendosi i rapporto con personalità religiose, come i padri dell'Oratorio, dovette interessarsi al movimento apologetico che cercava di contrastare il diffondersi di quella cultura libertina, dalla complessa e non sempre definibile caratterizzazione.

A questo riguardo è importante il gruppo di lettere che C. scambiò con Mersenne nel 1630 sul tema della "creazione delle verità eterne": coinvolto dal religioso parigino nella confutazione di certa libellistica libertina, chiarisce la sua concezione della "Divinità" nei limiti dei poteri della conoscenza umana e nel contempo definisce i fondamenti della concezione meccanicistica della natura, che veniva assumendo un rilievo preminente nella sua riflessione filosofica.

Da rilevare innanzi tutto l'incerta determinazione dell'ambito di queste verità eterne: da una accezione lata, comprensive di ogni verità necessaria che non si identifichi o faccia riferimento all'essenza divina (si tratti di principi razionali o di essenze o proprietà di sostanze create), ad una accezione restrittiva, in cui verità eterne e verità matematiche diventano equivalenti. Nel definire lo statuto di queste verità Cartesio deve conciliare l'onnipotenza di Dio con le proprietà che derivano dalla caratterizzazione essenziale di queste verità, come la necessità, l'immutabilità. La soluzione cartesiana è rapportare tutte le verità eterne all'atto creativo di Dio. "E' certo che Dio è autore tanto dell'essenza che dell'esistenza delle creature. Ora quest'essenza non è altro che le verità eterne di cui discutiamo". "Le verità matematiche, da voi chiamate eterne, sono state stabilite da Dio e ne dipendono interamente, come tutte le altre creature". Le verità eterne in quanto create sono contingenti, ma se rapportate all'immutabilità della volontà divina di Dio che le ha volute tali possono dirsi eterne. Come conciliare la libertà della volontà divina con la sua immutabilità e la conseguente eternità di queste verità La mente umana è ora ai limiti delle sue capacità, non le rimane che costatarli.

La teoria della creazione delle verità eterne avrà un suo sviluppo nella filosofia naturale. Ma ad essa si richiamerà una delle interpretazioni circa l'origine dell'ipotesi del genio maligno nell'iter del dubbio metodico delle Meditationes.

Nel Discorso Cartesio riprendeva a trattare le tesi fondamentali del "piccolo trattato di metafisica", propriamente nella parte IV, nella quale, come egli stesso dichiara nel preambolo dell'opuscolo, "si troveranno le ragioni con le quali si prova l'esistenza di Dio e dell'anima umana, che sono i fondamenti della mia metafisica". Se la redazione del Discorso fu posteriore a quella dei tre Saggi, questa IV parte, che pur riteneva "la più importante", fu "la meno elaborata di tutta l'opera", essendosi deciso ad aggiungerla solo all'ultimo, dietro sollecitazione dell'editore a finire l'opera. Ciò aveva contribuito a renderla "oscura", oscurità che gli verrà contestata dalle prime conoscenze del testo manoscritto.

Una esposizione più analitica dell'iter delle riflessioni metafisiche maturate nel corso di un decennio fu la soluzione definitiva con la redazione delle Meditationes de prima philosophia, cui attese tra il 1639 e il 1640. I progetti editoriali dell'opera vennero a modificarsi nel tempo, soprattutto in dipendenza dal fatto che Cartesio volle sottoporre all'esame di alcuni studiosi il testo manoscritto e pubblicare unitamente alle sei meditazioni anche le obiezioni avanzate e le sue risposte.

Cartesio così esponeva l'ordine da lui seguito nelle sue opere, e in particolare nelle Meditationes: "Si deve notare, in tutto ciò che scrivo, che io non seguo l'ordine delle materie, ma solo quello delle ragioni: vale a dire, io non intraprendo a dire in uno stesso luogo tutto ciò che attiene ad una materia, per la ragione che mi sarebbe impossibile provarlo a dovere, dato che alcune ragioni devono essere dedotte molto più lontanamente di altre", ossia dato che le motivazioni di quanto si afferma di un determinato argomento si riportano a procedimenti dimostrativi diversi, o le cui premesse nelle serie deduttive sono tra loro dislocate a distanze diverse. "Ragionando invece per ordine dalle cose più facili alle più difficili, deduco ciò che posso ora per una materia ora per un'altra; è questo secondo me il vero cammino per trovare ed esporre debitamente la verità".

L'ordine irreversibile delle ragioni è l'ordine del nostro conoscere razionale, è l'ordine che si stabilisce nella ricerca umana della verità, nelle conoscenze che si succedono razionalmente dal più semplice al più difficile (ordo cognoscendi), non l'ordine che rispecchia la realtà delle cose quali sono in se stesse, indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere (ordo essendi). Tuttavia l'ordine del nostro conoscere non è svincolato dal reale stesso, per cui rappresenta anche un iter metafisico, è un disvelamento graduale e parziale dell'essere le cui tappe sono segnate dalle esigenze consequenziali della natura razionale del soggetto.

"Meditationes de prima philosophia" (Ia ed.:1641 e 2a ed.:1642)

I meditazione: Atteggiamento critico e dubbio metodico

Il riassunto (Synopsis) premesso da C. stesso alle Meditazioni dice che nella I meditazione sono esposte "le ragioni che abbiamo di dubitare generalmente di ogni cosa e particolarmente delle cose materiali, almeno finché non avremo altri fondamenti del sapere, diversi da quelli che abbiamo avuto finora". E aggiunge che il dubbio è utile per allontanare o distaccare lo spirito dai sensi. Si badi a quell'e particolarmente delle cose materiali e alla necessità del distacco dai sensi. Sappiamo infatti che l'esperienza sensibile è apparsa a Cartesio - fin dalle Regulae - la fonte più infida del sapere.

Il dubbio nasce dall'esperienza dell'errore. Più volte C. si è soffermato ad analizzare i riflessi negativi della humana conditio nella formazione del conoscere, e in generale del comportamento, a partire dalla prima infanzia.

Tutta una serie di opinioni si è venuta formando senza il controllo della ragione; l'assuefazione e l'abitudine non solo hanno loro assicurato una parvenza di evidenza ma hanno ingenerato una persuasione difficile da rimuovere, al punto che la conclusione certa ed evidente di una dimostrazione razionale in contrasto con un'opinione radicata può indurre assenso ma non convincere ipso facto, ossia modificare l'atteggiamento complessivo del soggetto nell'adesione alla nuova idea.

Il superamento delle idee dubbie o solo probabili, si effettua gradualmente al confronto delle idee evidenti che emergono nel maturarsi della riflessione critica e segnano le tappe di uno sviluppo non sempre databili. Da questa evoluzione distesa nel tempo viene a distinguersi un momento cruciale, episodio emblematico nell'iter metafisico, insieme riassuntivo rispetto all'atteggiamento critico del passato e di svolta radicale rispetto al sapere tradizionale: l'instaurazione del dubbio metodico, che adombrato all'inizio dell'esposizione delle tesi metafisiche nella IV parte del Discorso, viene sviluppato nelle Meditationes (I Meditazione e inizio della seconda), in un contesto programmato che richiama quello delle riflessioni, nella solitudine della "stanza riscaldata" di Neuburg, sulle norme del metodo da seguire nella ricerca della verità e della morale provvisoria.

Il rovesciamento delle opinioni acquisite si effettua con un procedimento disposto ad arte, o dubbio metodico, che si basa sulla resistenza al dubbio nella ricerca dell'evidenza autentica, secondo la prima regola del metodo: "non includere nei miei giudizi se non ciò che si presenti nella mia mente con tale chiarezza e distinzione, da non avere motivo alcuno di metterlo in dubbio". Il dubbio metodico è radicale in quanto risale alle radici o fonti del conoscere, ed universale per la sua estensione. Un'altra nota lo contrassegna sin dall'inizio, anche se verrà accentuandosi: l'essere iperbolico, ossia l'eccedere nella valutazione delle ragioni del dubitare, nel ritenere che un errore sia sufficiente a screditare tutto un ordine di conoscenza, ma soprattutto nell'assimilare nel secondo tempo del procedimento dubitativo il dubbio al falso.

Questa impostazione del dubbio metodico, che nella IV parte del Discorso è drasticamente iperbolica sin dall'inizio, verrà contestata particolarmente da Gassendi e Leibniz.

Da rilevare inoltre un duplice cambiamento lungo il decorso del dubbio metodico. Il problema della verità subisce una modifica d'impostazione: nella fase relativa alle rappresentazioni sensoriali è in questione la loro corrispondenza alla realtà esterna, in quella riguardante le conoscenze di ordine intellettivo, come quelle matematiche, è in gioco la loro validità oggettiva, a prescindere da alcun riscontro in natura. Inoltre si passa dalle ragioni di dubbio di ordine naturale, in cui si considerano direttamente le capacità conoscitive quali si rivelano nella loro attività, a quelle di ordine metafisico, sull'origine della natura umana e sul suo autore; questo passaggio consente di distinguere due momenti nel procedimento dubitativo considerato nel suo insieme.

1) Le ragioni di dubbio che Cartesio adduce nel primo tempo sono desunte dai testi classici dello scetticismo, ma con diversa impostazione e con diversa finalità: "non che con questo imitassi gli scettici che non dubitano che per dubitare ed ostentano di essere sempre irresoluti; al contrario, tutto il mio disegno non tendeva che ad essere certo". Cartesio non intende affidarsi ad una certezza, senza esigerne i titoli di credito.

Cartesio non prende ad esaminare singolarmente ciascuna opinione, ma inizia con l'indagare "i principi sui quali si fondano tutte le opinioni ricevute", ossia le fonti del conoscere: "tutto ciò che finora ho ammesso per estremamente vero l'ho ricevuto dai sensi; ma ho costatato che talora i sensi mi ingannano, e la prudenza insegna a non fidarsi mai interamente di coloro che ci hanno ingannati sia pure una volta". Il dubbio esteso a tutte le rappresentazioni di ordine sensoriale, sia dei sensi esterni che dell'immaginazione che ne dipende, viene confermato dalla mancanza di "indizi sicuri per distinguere la veglia dal sonno", le rappresentazioni che riteniamo provocate dall'esterno dalle rappresentazioni oniriche o in generale dalle allucinazioni, e coinvolge in conseguenza tutte le scienze che si basano sulle rappresentazioni sensoriali che si presumono reali, come la fisica, l'astronomia, la medicina. E non si arresta neppure dinanzi alle rappresentazioni semplici, non soggette a indebita composizione dell'immaginazione, né alle proposizioni generali, come quelle dell'aritmetica e della geometria, non legate all'esistenza o meno di oggetti che le verifichino, per il porsi di una estrema ragione di dubbio, il dubbio sulla stessa origine sull'autore della natura umana, che l'avrebbe conformata in modo tale da ingannarsi anche rispetto a ciò che appare certo ed evidente. Quest'ultima istanza dubitativa, che riassume per la sua radicale impostazione tutti i dubbi precedenti, comporta una riformulazione del dubbio metodico con accentuazione del carattere iperbolico (si rigetta "tutto ciò che comporta il minimo dubbio come se [...] fosse risultato completamente falso") a partire dall'esistenza del mondo esterno e del proprio corpo fino all'evidenza intrinseca delle proposizioni matematiche.

2) In questo secondo momento del procedimento dubitativo che prende in considerazione l'autore della natura umana, Cartesio si richiama per prima a una vetus opinio: "ho impressa nella mente un'antica opinione, secondo la quale esiste un Dio che può tutto e dal quale sono stato creato così come sono". Nell'esposizione di questa opinione si sottolinea l'attributo della potenza illimitata, che comporterebbe anche il potere di ingannare. Alla vetus opinio Cartesio sostituisce l'ipotesi del "genio maligno": "supporrò [...] che non l'ottimo Dio, fonte di verità, ma un genio maligno, e per giunta estremamente potente e astuto, abbia posto in atto tutta la sua abilità nell'ingannarmi". Nel corso del dubbio iperbolico si deve quindi tener conto di tre figure: la vetus opinio di un Dio onnipotente, l'idea dell'ottimo Dio e l'ipotesi del genio maligno.

Il dubbio metodico trova il suo limite proprio nell'accentuazione massima del suo carattere iperbolico con il conseguimento della prima verità incontrovertibile, ossia di una verità che gli resiste incondizionatamente: "[...] vi è un impostore estremamente potente, estremamente astuto, che si adopera ad ingannarmi sempre. Dunque non vi è dubbio che anch'io esisto, se egli mi inganna; e mi inganni quanto può, tuttavia non sarà mai in grado di far sì che io non sia nulla, finché penserò di essere qualcosa. Di modo che, esaminata attentamente ogni cosa più del dovuto, in definitiva si deve ritenere saldamente che questa proposizione io penso, io esisto è necessariamente vera ogniqualvolta viene da me espressa o concepita con la mente".

II meditazione: "Cogito" e "regola generale" dell'evidenza.

Spazzato così il terreno da ogni residuo di sapere tradizionale, C., nella II meditazione, comincia a costruire il nuovo edificio del sapere. Anche nell'ipotesi che vi sia "non so quale ingannatore, sommamente potente e astuto", non posso dubitare della mia esistenza.

Lo statuto dell'affermazione: io penso, io esisto, che emerge dal dubbio metodico come prima verità assoluta irrefutabile, è quello di pura intuizione e non di conclusione di un ragionamento. In altre parole: nella coscienza del pensare è implicita la coscienza d'essere. "Quando qualcuno - osserva Cartesio agli autori delle II Objectiones - dice: "io penso, dunque sono o esisto", non conclude la sua esistenza dal suo pensiero come in virtù di un sillogismo, ma l'apprende come una cosa di per sé nota con la semplice intuizione della mente". Se così non fosse, se si trattasse invece di sillogismo, allora presupporrebbe, contrariamente all'impostazione del dubbio universale, delle premesse valide.

Pertanto le locuzioni donc, ergo che ricorrono in alcune formulazioni del cogito non possono avere valore illativo, ma essere segni di una presa di coscienza del nesso necessario tra il mio pensare e il mio esistere attuale, non in una considerazione astratta, ma nella mia esperienza diretta.

L'incidenza nel cogito della dimensione ontologica, per lo stretto connubio tra pensiero ed essere, comporta non una sua semplice analisi formale, ma il suo configurarsi in una realtà sostanziale. "Ora io non ammetto altro se non ciò che è necessariamente vero; sono quindi precisamente soltanto una cosa pensante, cioè una mente o animo o intelletto o ragione [...] E che cos'è una cosa pensante? E' una cosa che dubita, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente".

[Che cosa sono io]

A questo punto si tratta di vedere che cosa sono, o meglio, che cosa sono certo di essere. E' necessario vedere innanzitutto di che cosa io possa o meno dubitare in me stesso.

Il secondo tema prende l'avvio dal persistere della persuasione che le cose corporee, ossia ciò che cade sotto i sensi si conosca più distintamente della parte di me stesso che non cade sotto l'immaginazione. Cartesio svolge una serie di considerazioni in cui mette in evidenza la possibilità di dubitare di tutto il dominio del sensibile, giungendo però a distinguere tra il carattere dubbio del sentito dall'evidenza in atto del sentire: anche se ciò che sento non esiste, è pur vero che mi par di vedere, udire, sentir caldo. Ma in questo senso il sentire si riduce al pensare. C. quindi ritorna a ribadire l'originaria affermazione del cogito. Il percepire qualsiasi corpo conferma l'esistenza del soggetto che la percepisce, ma comporta anche e soprattutto un'affermazione di principio: se "i corpi vengono percepiti non per la ragione che si tocchino o si vedano ma soltanto perché vengono colti dall'intelletto (intelligantur) [...] nulla può essere percepito da me più facilmente o più evidentemente della mia mente". "Sono certo di essere una cosa pensante". Questa conoscenza che si sottrae ad ogni possibilità di dubbio mi consente a sua volta di conoscere cosa si richieda perché io sia altrettanto certo di altre conoscenze. "In questa prima conoscenza non si riscontra altro che una percezione chiara e distinta di ciò che affermo; ora, questa percezione non sarebbe sufficiente a rendermi certo della verità della cosa, se si potesse dare che fosse falso ciò che venissi a percepire così chiaramente e distintamente. Pertanto mi sembra di poter stabilire come regola generale che è vero tutto ciò che percepisco molto chiaramente e distintamente".

III meditazione: Dimostrazione dell'esistenza di Dio "ab effectibus".

[Il criterio di verità]

Nella terza meditazione, prima di procedere ad indagare se esistano altre realtà, oltre a me come soggetto pensante, C. si domanda perché è certo di essere una cosa pensante. E risponde: perché percepisco chiaramente e distintamente quello che affermo.

Dunque posso assumere come regola generale che tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente è vero.

Ma anche le verità matematiche sono chiare e distinte, eppure C. le ha sottoposte al dubbio. Perché? Per quell'ipotesi del Dio onnipotente e ingannatore. Certo, un tale Dio o genio, non potrebbe mai "fare in modo che io non sia mentre penso", ma sulla possibilità di estendere la regola generale o principio dell'evidenza oltre la certezza dell'io pensante grava tuttavia l'ipotesi, non ancora dissolta, di un dio ingannatore. Per quanto possa essere tenue la ragione di dubbio che poggia su questa ipotesi, non si potrà essere certi di alcun'altra conoscenza se non si avrà risposto a questi interrogativi fondamentali: esiste Dio? ammesso che esista, può ingannare e ingannarmi?.

Due sono in definitiva le prove con cui Cartesio dimostra l'esistenza di Dio:

1) la prima viene da lui denominata ab effectibus ed esposta nella III meditazione,

2) la seconda, abitualmente detta ontologica, nella V meditazione. Entrambe partono dalla considerazione dell'idea di Dio presente insieme ad altre idee nella res cogitans. Ma mentre la prima si basa sul raffronto dell'idea di Dio con quella della res cogitans e sul ricorso al principio di causalità, nella seconda si considera l'idea di Dio in se stessa e si tien conto delle due categorie: essenza ed esistenza.

[L'esistenza di Dio - Primo argomento]

Il punto di partenza non potrà essere che l'io con le sue cogitationes, poiché il resto non si sa ancora se esista.

L'indagine su Dio, sulla sua esistenza e la sua natura, si inquadra quindi in un contesto più generale di ricerca: "esistono fuori di me" - cosa pensante che ha delle idee - "alcune delle cose di cui ho in me le idee?", e costituisce la tappa ulteriore dell'iter metafisico cartesiano, in cui si tende al superamento della barriera del solipsismo e ad affermare una realtà transubiettiva, che trascenda l'io pensante, partendo dall'esame delle idee stesse, non in quanto sono puri e semplici "modi di pensare", ma quanto al loro contenuto o alla loro apparente origine.

Delle idee che sono in me alcune si presentano come immagini o rappresentazioni di cose e sono esse a doversi chiamare propriamente idee. Altre invece esprimono un modo d'essere od operare dell'io, quali sono le idee di passioni, volizioni, giudizi.

Delle idee propriamente dette alcune sembrano essere innate, ossia provenire dalla mia stessa natura, come l'idea di verità, quella di pensiero; altre sembrano derivate dal di fuori; altre sembrano essere fatte o formate da me stesso. Queste tre categorie di idee vengono chiamate rispettivamente idee innate, idee avventizie, idee fattizie. Cartesio individua nell'esame delle idee, se si prescinde da quelle che sono palesemente formate o inventate dall'io, le idee fattizie, la "via per indagare se esistono altre cose fuori di me". E le esamina dal punto di vista del loro contenuto, ricorrendo - con un procedimento innovativo - a due categorie scolastiche ma con accezione diversa: realitas objectiva e realitas formalis, e al principio di causalità, che estende ed applica in contrasto con il pensiero tradizionale.

Tutte le idee possono essere considerate o in quanto sono "modi di pensiero" o in quanto mi rappresentano qualche cosa. C., seguendo la terminologia scolastica, chiama realtà formale quella delle idee come modi cogitandi e realtà oggettiva quella delle idee in quanto rappresentano un oggetto. In altri termini: se la "realtà formale" di un'idea è quella di essere un modus cogitandi, la sua "realtà oggettiva" è quella di essere un cogitatum. Ora, in quanto modi cogitandi, le idee sono tutte della medesima stoffa; nella loro realtà oggettiva, invece, sono molto diverse fra loro: quelle che mi rappresentano sostanze hanno più "realtà oggettiva" di quelle che mi rappresentano modificazioni; l'idea di Dio ha più realtà oggettiva dell'idea di una sostanza finita.

Ora C. applica alle idee un principio che ritiene evidente, e cioè che la causa deve contenere in sé almeno tanta realtà quanta ne contiene l'effetto, e argomenta così: la causa di una idea deve contenere in sé almeno tanta realtà formale quanta è la realtà oggettiva dell'idea. Ora io, che sono una sostanza pensante, contengo in me tanta realtà quanta è quella contenuta in tutte le cose delle quali ho idee - all'infuori di una: l'idea di Dio.

L'estensione del principio di causalità alla realtà oggettiva delle idee postula cause che siano ad essa adeguate. - Potrei quindi essere io stesso la causa delle idee dei corpi, degli altri uomini, degli angeli; ma non posso essere io la causa dell'idea di Dio che è l'idea di una sostanza infinita, mentre io sono finito. Dunque deve esistere una sostanza infinita sommamente intelligente e potente, come causa dell'idea che ne ho.

L'idea di Dio che sottende alla dimostrazione dell'esistenza di Dio non è da confondersi con quell'"antica opinione, secondo la quale esiste un Dio che può tutto e dal quale sono stato creato così come sono". Questa opinione sarebbe, nella terminologia cartesiana, un'idea avventizia, acquisita "solo per il fatto che abbiamo udito enunciare su Di alcuni attributi", ma essa rimanda inevitabilmente ad una idea innata che mi si rivela nell'esperienza della mia imperfezione e finitezza, quale è attestata dal mio dubitare. Per Cartesio la consapevolezza della propria finitezza e imperfezione è riflesso della stessa idea innata di Dio. L'idea di Dio, non avventizia, né fatta da me, è nata con me, è innata, come l'idea di me stesso, non nel senso che sia una rappresentazione chiaramente formulata sin dall'inizio del mio essere come pensiero e sempre presente come tale alla mente, ma nel senso che "abbiamo in noi stessi la facoltà di produrla". Non si tratta certo del produrre arbitrario, e quindi intenzionale, che caratterizza la formazione dell'idea fattizia avvalendosi di elementi precostituiti, ma dell'attività, direi spontanea, della res cogitans conforme alla sua natura come creata da Dio a sua somiglianza.

[Rilievi critici]

A questa prova cartesiana dell'esistenza di Dio, muove obiezioni il teologo olandese Johan de Kater (Caterus), l'autore delle Prime obiezioni. Catero domanda: che cos'è la realtà oggettiva di una idea? cosa vuol dire essere oggettivamente nell'intelletto? Per Catero non è altro che l'essere pensato di una cosa, l'essere termine, a modo di oggetto, di un atto di intellezione. - Ora l'essere pensato non aggiunge nulla alla cosa pensata, non è un ente reale, q quindi non ha causa. C. risponde: se si presuppone già l'esistenza di cose distinte da me che le penso, si potrà dire che la loro presenza nel pensiero non aggiunge loro nulla, che è una denominatio estrinseca alle cose stesse; ma se si parte dalle idee, si deve ammettere che il loro "essere oggettivamente" è qualche cosa; è un "modo di essere molto più imperfetto di quello per cui le cose esistono al di fuori dell'intelletto, ma tuttavia non è un nulla". Dice inoltre C.: se uno pensa questo piuttosto che quest'altro, se uno pensa, ad es., una macchina molto ingegnosa, debbo chiedermi perché la pensa, e non sarei soddisfatto se uno mi rispondesse: siccome l'esser pensato non è un essere reale, non c'è una causa, un perché di esso. Dovrei invece dare una di queste risposte: o perché ha visto la macchina reale, o perché ne ha vista una simile, o perché l'ha inventata con le sue conoscenze di meccanica; ossia perché l'ha prodotta o è capace di produrla. Ora io pensante, imperfetto, non posso produrre Dio.

IV meditazione: Del vero e del falso.

Riflettendo sulla certezza della propria esistenza come res cogitans, C. ha ricavato il criterio di verità (chiarezza e distinzione); adoperando questo criterio ha formulato un principio (l'effetto non può contenere più realtà di quanta ne contenga la causa), e, applicando tale principio all'idea che abbiamo dell'essere infinito, ha dimostrato l'esistenza di un tale Essere, cioè di Dio. Ora dall'esistenza di Dio cercherà di inferire altre verità.

Ma prima ancora di inferire altre verità indaga nella IV meditazione, sulla conoscenza della verità in generale e sul motivo dell'errore.

Il dubbio metodico con le acquisizioni delle prime verità fondamentali sull'io pensante e su Dio ha perduto gradualmente il suo carattere di universalità, di estendersi a tutte le opinioni. Il dubbio comunque persiste, anche se non più radicale ed iperbolico nella formulazione imposta dall'ipotesi del genio maligno, almeno finché non si risolve il problema della natura e dell'origine dell'errore nella conoscenza con il quale il dubbio è strettamente connesso. La soluzione va cercata nell'analisi delle conoscenze certe già conseguite nell'iter che riguardano l'io e il suo creatore.

Dio, infinitamente perfetto, non può ingannarci; dunque quando adoperiamo la facoltà di giudicare - che ci è data da Dio come tutto il nostro essere - non possiamo ingannarci, se la adoperiamo bene.

E allora come mai qualche volta sbagliamo?

Un primo tentativo di risposta è che noi siamo realtà finite, ed essere finiti vuol dir essere, in certo modo, fra Dio e il nulla; ora in quanto abbiamo l'essere, abbiamo solo qualità positive, ma in quanto partecipiamo del nulla possiamo cadere in errore. Ma questa risposta non soddisfa, perché l'errore non è una semplice negazione, ma una privazione; ossia: il mio essere limitato può spiegare la mia ignoranza, ma non spiega l'errore, che è l'assenso dato a ciò che non è "chiaro" (non è dato, non è presente).

Allora, dice C., riflettendo meglio su me stesso mi accorgo che l'errore dipende da due cause: dalla facoltà di conoscere e dal libero arbitrio: dall'intelletto e dalla volontà.

L'intelletto presenta soltanto idee, quindi non può sbagliare. Con il solo intelletto percepisco le idee con cui posso formare un giudizio, le idee che posso affermare e negare. In esso in quanto tale non può riscontrarsi in quanto tale alcun errore. L'intelletto percepisce o no, ha delle idee o non ne ha. Che la realtà sia immensamente più ampia delle mie idee, che io ne abbia quindi pochissime rispetto alla realtà, non è un errore, ma solo un limite della mia conoscenza. La mia libertà, invece, in certo senso, non ha limiti: la libertà non è maggiore in Dio che in me, "poiché consiste solo in questo: nel poter fare o non fare una cosa (cioè nel poter affermare o negare, perseguire o fuggire un oggetto) ... sì da non sentirci determinati da nessuna forza esterna". Quello che è essenziale alla libertà è il non essere determinati da una forza esterna; una propensione che venga da me, dall'interno, non toglie la libertà: anzi, una conoscenza evidente che mi determini all'assenso o una grazia divina che mi disponga a voler non tolgono la libertà, ma la rafforzano. Quanto più la libertà è decisa, tanto più è libera; l'indifferenza (cioè l'esitazione) è l'infimo grado di libertà.

Ora, proprio perché la volontà ha una sfera più ampia dell'intelletto, essa può assentire anche a ciò che l'intelletto non vede: posso voler affermare più di quello che vedo. L'errore è dovuto, dunque, da una trasgressione della volontà: è un fatto ateoretico.

La causa dell'errore non può risiedere nelle facoltà per sé considerate che hanno Dio per autore: ciascuna esplica una attività specifica, nella quale non può errare, se debitamente svolta, ossia in conformità alla sua natura. Atteso che "come sappiamo per luce naturale la percezione dell'intelletto deve sempre precedere la determinazione della volontà", la causa dell'errore è nel modo indebito da parte mia di usare le due facoltà nel giudizio, nel non contenere la volontà che è più ampia dell'intelletto nei limiti delle percezioni chiare e distinte presentate dall'intelletto, nell'estenderla anche alle cose che non intendo o che percepisco confusamente e rispetto alle quali non dovrei non essere che indifferente. Da questa analisi dell'origine e della causa dell'errore segue una indicazione metodologica fondamentale. Quando non percepisco chiaramente e distintamente qualcosa, se mi astengo dal giudicare agisco rettamente e non corro alcun rischio di sbagliare.

V meditazione: Dell'essenza delle cose materiali e della dimostrazione dell'esistenza di Dio "a priori".

Dopo aver indicato la causa dell'errore, C. si domanda nella V meditazione cosa possiamo sapere con certezza delle cose materiali.

Chiara e distinta è l'idea dell'estensione, delle sue parti, figure, posizioni; del moto locale, della durata. Su queste idee posso formulare proposizioni evidenti, posso dedurre da queste altre proposizioni particolari e conoscere quindi moltissime verità che sono indipendenti dall'esistenza di oggetti fuori di me: anche se, infatti, non esistesse nulla fuori di me, sarebbero sempre validi i teoremi della geometria. Queste verità dipendono dalla natura di certe idee, le quali non sono foggiate da me, ma hanno "vere ed immutabili nature".

In questa meditazione appare riformulata schematicamente la concezione meccanicistica della natura corporea, ma questa volta sulle basi ontologiche dell'evidenza - "ho già dimostrato ampiamente che tutte le cose che conosco chiaramente [e distintamente] sono vere" -. Qui occorre tener presente la dimensione ontologica che Cartesio attribuisce all'idea chiara e distinta e che ribadisce nella conclusione della IV meditazione: "ogni percezione chiara e distinta è senza dubbio qualcosa [di reale e di positivo] e perciò non può essere dal nulla, ma necessariamente ha Dio come autore - quel Dio, dico, sommamente perfetto, che ripugna che possa ingannare -, e perciò è senza dubbio vera".

Questo sviluppo di considerazioni sulla natura o essenza delle "cose materiali" sulla base dell'evidenza delle loro idee, occasiona un'altra possibilità di dimostrare l'esistenza di Dio. "Ora, se per il solo fatto che io posso tirar fuori dal mio pensiero l'idea di una cosa, ne segue che tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente appartenere a quella cosa le appartiene in realtà, potrò desumere di qui un altro argomento per dimostrare l'esistenza di Dio. Ho infatti l'idea di Dio, cioè dell'essere perfettissimo, non meno di quanto abbia l'idea di una qualsiasi figura o numero, e vedo non meno chiaramente e distintamente che alla sua natura compete l'esistere sempre"; dunque l'esistenza di Dio è evidente come sono evidenti le verità geometriche.

A prima vista questo argomento sembra un sofisma, dice C., perché in tutte le altre cose l'essenza si distingue dall'esistenza; ma in Dio no; l'essenza di Dio implica l'esistenza come l'essenza del triangolo implica un certo rapporto tra gli angoli. L'esistenza è una perfezione; ora Dio ha tutte le perfezioni, dunque Dio esiste. E questa comprensione di tutte le perfezioni nell'idea di Dio non è un'idea fattizia, ma è un'idea innata.

L'argomento, che si basa in generale sulla considerazione dell'essenza di Dio, viene denominato, da Kant in poi, ontologico. Ebbe una sua prima formulazione nel II cap. del Proslogion di S. Anselmo, partendo dall'idea: "l'Essere del quale non si può pensare nulla di più grande", argomentazione già contestata dai suoi contemporanei, in particolare dal monaco Gaunilone nel Liber pro insipiente. Nello scritto precritico L'unico fondamento possibile di una dimostrazione dell'esistenza di Dio (1763) Kant nel confutare il tipo di argomentazione "in cui si conclude dal possibile come principio all'esistenza di Dio come conseguenza" si richiama "a una celebre prova che è costituita su questo principio, cioè la cosiddetta prova cartesiana", ma nella Critica della ragion pura (II. Dialettica trascendentale), nella ripresa della confutazione del procedimento dimostrativo che denomina ontologico, cade ogni riferimento esplicito a Cartesio.

Nella V meditazione Cartesio non si è limitato a proporre una nuova dimostrazione dell'esistenza di Dio, ma si è soffermato a rilevare l'incidenza fondamentale che la certezza della sua conoscenza ha in tutto l'ambito della scienza, ossia della conoscenza chiara e distinta con cui attingiamo ala realtà: "non solo sono certo di essa come di ogni altra cosa che mi sembra certissima, ma rilevo inoltre che proprio da essa dipende la certezza delle altre cose così, che senza questa non si può saper nulla perfettamente [...] Vedo chiaramente che la certezza e la verità di ogni scienza dipende unicamente dalla conoscenza del vero Dio, di modo che prima di conoscere Dio, non avrei potuto sapere nulla perfettamente di alcuna cosa".

In questo sviluppo di considerazioni si è ravvisato un circolo vizioso: la "regola generale" dell'evidenza preordina e legittima le successive illazioni dell'iter metafisico e quindi della dimostrazione dell'esistenza di Dio, ora nella conoscenza certa dell'esistenza di Dio si riconosce il fondamento di ogni altra certezza, circolo vizioso contestatogli dai sui critici.

Per Cartesio il circolo vizioso non sussiste se si tiene conto dell'ordine analitico da lui seguito nell'iter metafisico. Il ricorso a Dio, una volta dimostrata la sua esistenza nella III meditazione attraverso il principio dell'evidenza, interviene in un secondo momento per garantire le deduzioni o conclusioni la cui evidenza non è più in atto, perché passate nel dominio della memoria. A tale ricorso si sottrae il principio dell'evidenza e ancora prima il cogito, non solo perché raggiunto prima che risultasse l'esistenza di Dio, ma perché non è conclusione di una dimostrazione, ma una intuizione. Dio allora si rende garante non del retto funzionamento del conoscere, in quanto legato alla responsabilità ed accortezza dell'io nell'uso delle norme metodologiche, ma dell'evidenza che anche se memorizzata conserva la sua connotazione ontologica: Dio che ha creato e conformato la mente umana non può deluderla o ingannarla e quindi "anche se non penso più alle ragioni per cui ho giudicato che ciò è vero, purché mi ricordi di averne avuto una percezione chiara e distinta non si può addurre alcuna ragione contraria che mi induca a dubitarne, ma ne ho una scienza vera e certa".

Quando ho presente una verità evidente non posso non dare l'assenso ed essere convinto che in realtà è così - dice C. -; ma poiché non posso sempre aver presenti tutte le verità che ho conosciute con evidenza; siccome per la maggior parte di esse debbo affidarmi alla memoria, potrei essere fuorviato da obiezioni contro tali verità, quando non ho attualmente presente la verità conosciuta, se non sapessi che esiste Dio, dal quale dipende ogni cosa e che egli non mi può ingannare, perché è infinitamente perfetto.

VI meditazione: Della esistenza delle cose materiali e della distinzione reale della mente dal corpo.

"Resta da esaminare se le cose materiali esistano", così comincia la VI meditazione.

La dimostrazione cartesiana dell'esistenza dei corpi è assai laboriosa.

Le tappe di questa ricerca sono le seguenti:

1) Le cose materiali, nei limiti e sotto gli aspetti in cui sono oggetto della matematica pura, sono possibili, perché le loro idee sono chiare e distinte. Tali aspetti sono: numero, estensione, figura, moto locale (tutto ciò che C. ha ritenuto oggetto di autentico sapere fin dalle Regulae)

2) L'immaginazione dimostra che l'esistenza di cose materiali è probabile. E' probabile almeno l'esistenza di una cosa materiale: il mio corpo. E questo a) perché l'immaginazione è diversa dal pensiero, b) e perché le caratteristiche dell'immaginazione rimandano, almeno con probabilità, all'esistenza, in me, di qualcosa che non sono io, ma appartiene a me, cioè il mio corpo.

a) Altro è pensare, altro immaginare. Pensare un triangolo vuol dire definirlo esattamente, immaginarlo vuol dire aver presente una figura che non è mai esattamente triangolare. La differenza fra pensare e immaginare si coglie bene a proposito di realtà che non riusciamo a immaginare: p. es. il chiliogono, che pure posso definire esattamente e del quale posso dimostrare tanti teoremi.

b) Ora si tratta di interpretare questa differenza fra immaginazione e pensiero. Io sono pensante, sono res cogitans, ma non sono necessariamente dotato di immaginazione: potrei essere io anche se non sapessi immaginare; dunque l'immaginazione non appartiene alla mia essenza. Ora se l'immaginazione è in me, ma non appartiene alla mia essenza, non le è costitutiva, vuol dire che è l'effetto in me di qualche cosa che è diverso da me. Ora può darsi che questo qualche cosa sia il corpo. Posso dunque congetturare che esista il mio corpo.

3) Poiché siamo arrivati ad una conclusione soltanto probabile, proviamo a rivolgerci altrove: alle qualità sensibili, che percepisco non così distintamente come percepisco l'oggetto della matematica, ma li percepisco con quel modus cogitandi che chiamo senso.

Prima di mettermi a filosofare ritenevo vero (ossia esistente indipendentemente da me) quello che percepivo sensibilmente.

Ora, per vero so solo di essere pensante - e poiché so che Dio può fare tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente così come io lo percepisco, ed io mi percepisco pensante senza percepire in me altri attributi, concludo che la mia essenza consiste soltanto nell'essere una cosa pensante. Anche se sono unito a un corpo, questo corpo è distinto da me, è qualcosa senza cui posso esistere, perché l'idea della sostanza corporea, che è pura estensione, è distinta dall'idea di sostanza pensante, che è puro pensiero.

Trovo in me le facoltà di immaginare e di sentire che implicano il pensare, che sono un certo modo di avere coscienza. E poiché il modo fondamentale di aver coscienza, quello che mi definisce, quello che è il mio "attributo", è il pensare, dirò che immaginare e sentire sono i miei "modi", come la facoltà di mutar luogo, di assumere figure diverse ecc., sono "modi" della sostanza estesa.

Ora questi "modi" dell'attributo pensiero, che sono l'immaginare e il sentire, implicano una certa passività. Non sono io, dunque, la causa di ciò che è sentito. La causa deve essere distinta dall'io e non potrebbe contenere in sé in modo soltanto virtuale la realtà dei corpi (ossia non può essere Dio stesso, o uno spirito creato) perché, se così fosse, Dio mi ingannerebbe. Non mi ha dato infatti nessuna facoltà per conoscere che la causa delle mie idee dei corpi sia una causa di natura spirituale; anzi mi ha dato una grande inclinazione a credere che le idee delle cose corporee siano prodotte in me da corpi realmente esistenti. "E perciò, le cose corporee esistono".

Ma non esistono così come le sentiamo, perché la percezione sensibile è in molti casi oscura e confusa; esistono con quelle proprietà che conosco chiaramente e distintamente, cioè con quelle che sono oggetto della matematica. La percezione sensibile non ha, secondo C., una funzione conoscitiva, ma una funzione pratica: quella di dirigerci verso la conservazione e il benessere del nostro corpo: ci fa conoscere gli aspetti per cui i corpi ci possono essere utili o nocivi. Le idee delle qualità sensibili non hanno dunque un corrispondente nella realtà corporea, ma sono soltanto modi cogitandi.

LA MORALE. LE PASSIONI DELL'ANIMA.

Cartesio non compose alcuno scritto organico o trattato di morale, per quanto gli argomenti afferenti a questo campo di ricerca lo abbiano interessato sin dalle prime fasi della sua ricerca filosofica e la stessa impostazione di indagine sin dall'inizio sia stata caratterizzata da un atteggiamento pratico, dall'esigenza di definire criteri e norme di orientamento nella vita. Non vi è dubbio che il progetto di una esposizione sistematica di questa parte del suo pensiero che doveva costituirne il coronamento rientrava nelle intenzioni programmatiche di una visione filosofica integrale. Più di un motivo comunque lo rese incerto e perplesso a tradurlo in atto o lo indusse a rinviarne la realizzazione, e la morte che lo colse prematuramente nel periodo in cui più direttamente era impegnato nella trattazione di argomenti morali dovette troncare ogni eventuale progettazione in corso.

Nel 1647, in una lettera, adduceva i seguenti motivi, per cui era venuto nella determinazione di non scrivere, ossia di rendere pubblica ragione i suoi pensieri sulla morale: il timore di calunnie e la convinzione che fosse compito dei sovrani regolare i costumi. Questo secondo motivo rifletteva una considerazione già avanzata nel Discorso.

Nella riflessione filosofica di Cartesio si delineano sostanzialmente tre prospettive morali, l'una come superamento o soluzione succedanea dell'altra.

1) Una prima "idea di morale" è concepita come scienza deduttiva, ultimo sviluppo della fisica e della medicina concepite meccanicisticamente. E' la morale delineata nella Lettera-prefazione dei Principi della Filosofia (1647) con cui si consegue il più alto grado di saggezza. Essendo l'ultima nella catena delle scienze, poiché la volontà non può astenersi dall'agire, per sottrarci da un atteggiamento di irresolutezza che è il peggiore dei mali dell'intelletto deve proporsi una "morale par provision", destinata ad essere accantonata non appena raggiunta la morale definitiva. Ma questa morale esatta e perfetta Cartesio non l'ha mai scritta. Invece della cosiddetta "morale provvisoria" ci restano solo alcune norme, come quelle che vengono presentate nella III parte del Discours.

Negli intenti di C. esse rappresentano ragionevoli norme di comportamento da proporsi "per non restare irrisoluto nelle azioni durante il tempo in cui la ragione l'avrebbe obbligato a esserlo nei suoi giudizi" e vanno a costituire il nucleo di quella "morale par provision" (una morale "di attesa") resa necessaria dalle esigenze della vita pratica, indilazionabili, in attesa dei risultati di una ricerca filosofica alla cui luce queste massime possono risultare fondatamente valide.

a) "La prima massima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, continuando ad aderire saldamente alla religione nella quale Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dalla mia infanzia, e orientandomi in ogni altra cosa secondo le opinioni più moderate e più lontane dall'eccesso, che fossero seguite in pratica dalle persone più sensibili fra quelle con cui avrei dovuto vivere";

b) La seconda massima prescrive di "essere il più fermo e il più risoluto possibile nelle azioni di seguire le azioni più dubbie, una volta determinatisi per esse, con non minore risolutezza che se fossero certe".

c) La terza massima, che risente chiaramente dell'influenza stoica, così recita: "cercare sempre di vincere me piuttosto che la fortuna e di mutare i miei desideri piuttosto che l'ordine del mondo, e in generale di abituarmi a credere che non vi è nulla che sia interamente in nostro potere oltre ai nostri pensieri, di modo che dopo aver fatto del nostro meglio riguardo alle cose a noi esterne, quanto non riusciamo a fare esorbita del tutto dalle nostre possibilità".

2) La seconda idea di morale rimanda al Trattato delle passioni dell'anima, dal quale risulta una morale tratta dalla conoscenza di fatti essenzialmente psicofisici: le passioni. Qui si rimane ancora nell'ambito di una ricerca strettamente razionale, perseguendo una conoscenza chiara e distinta, la cui certezza è interamente assicurata, "dal momento che si distingue accuratamente fra i tre elementi della natura umana [la sostanza nella sua composizione unitaria, l'intelletto e l'estensione ciascuno dei due presi a sé] e ciò che proviene da ognuno di essi"; tuttavia questa scienza delle passioni "viene così a mettere insieme evidenze di ordine diverso, le une puramente razionali relative sia alla sola estensione (meccanismi fisiologici) sia alla sola anima (diverse funzioni dell'anima, emozioni che derivano dalla sola anima, come la contentezza di sé di origine puramente interna, etc.), le altre soprattutto sensibili, che riguardano il sentimento stesso della passione".

Il trattato Le passioni dell'anima, la cui stesura iniziata nell'inverno 1645-6 si accompagna alla corrispondenza epistolare sulla morale scambiata con la principessa Elisabetta, l'amico Chanut e Cristina di Svezia, affronta "questioni particolari della morale", legate alla problematica dell'unione dell'anima con il corpo, nel contesto dello sviluppo della filosofia naturale dalla pura e semplice concezione meccanicistica ad una più attenta considerazione delle complesse interazioni delle due parti del composto umano. Si deve alle istanze delle principessa Elisabetta, perplessa sulla possibilità dell'unione di una sostanza immateriale con il corpo, e soprattutto per il condizionamento che l'anima subisce nelle sue operazioni dalle disposizioni organiche, se Cartesio, dopo aver risposto occasionalmente a vari quesiti che gli venivano proposti, si risolse a dare una esposizione sistematica delle passioni, che sono espressione diretta dell'unione sostanziale e parte fondamentale del comportamento umano ("sono principalmente le passioni a doversi conoscere per conseguire il sommo bene".

Giova, a questo punto, prima di intraprendere una analisi del trattato, riepilogare i punti salienti del dibattito epistolare tra C. e la principessa Elisabetta, figlia dell'elettore palatino Federico V. Un primo scambio epistolare diretto si ebbe nel maggio 1643, relativamente a un tema cruciale - per il nostro trattato e per l'intera metafisica cartesiana - dell'unione delle due sostanze, la res cogitans e la res extensa, argomento peraltro basilare nelle definizione delle natura del soggetto della morale. Elisabetta non si limitava a proporre il quesito seguente: "come l'anima dell'uomo può determinare gli spiriti del corpo per compiere le azioni volontarie, non essendo che una sostanza pensante", ma adduceva un'argomentazione contro la possibilità dell'azione dell'anima sul corpo, tenendo conto delle proprietà essenziali delle due sostanze, come erano state definite da Cartesio.

Nella sua risposta Cartesio riconosceva che, mentre si era impegnato "a far bene intendere la distinzione tra l'anima e il corpo", non aveva detto quasi nulla sulla loro unione. Cercando ora "di esporre come concepiva tale unione e come l'anima ha la forza di muovere il corpo", ricorreva all'esistenza di "certe nozioni primitive, che sono come degli originali, sul cui modello formiamo tutte le nostre conoscenze". Sono ben poche: oltre le più generali che convengono a tutto ciò che possiamo concepire, come quelle dell'essere, del numero, della durata, per il corpo non si ha che la nozione di estensione, da cui seguono quelle della figura e del movimento, per l'anima quella del pensiero, nella quale sono comprese le percezioni dell'intelletto e le inclinazioni della volontà, in fine per l'anima e per il corpo insieme "non abbiamo che quella della loro unione, dalla quale dipende la nozione della forza che ha l'anima di muovere il corpo e il corpo di agire sull'anima causando le sue sensazioni e le sue passioni". Cartesio, replicando ancora ad Elisabetta, non convinta delle argomentazioni del filosofo, continua col rilevare con quali "operazioni dell'anima" si conseguono le tre nozioni primitive e come vengono rese familiari ed accessibili. L'anima la si conosce unicamente con l'intelletto puro; "il corpo, ossia l'estensione, le figure e i movimenti si possono anche conoscere con il solo intelletto, ma molto meglio con l'intelletto aiutato dall'immaginazione; e in fine le cose che appartengono all'unione dell'anima e del corpo non si conoscono che oscuramente con il solo intelletto, o con l'intelletto aiutato dall'immaginazione, ma si conoscono molto chiaramente con i sensi", per cui chi non filosofa e non si serve se non dei propri sensi non dubita minimamente dell'azione reciproca tra anima e corpo e della loro unione.

Il trattato Le passioni dell'anima fu pubblicato nel 1649, mentre Cartesio si trovava alla corte della regina di Svezia a Stoccolma. Si compone di tre parti. Nella prima parte si tratta delle passioni in generale e si riassumono le tesi sull'anatomia e la fisiologia umana; nella seconda parte della classificazione delle passioni e dell'esposizione delle sei passioni primitive; nella terza delle passioni particolari.

C. classifica le passioni fra le percezioni e le definisce come percezioni che si riferiscono all'anima stessa. Le passioni sono "percezioni, o sentimenti o emozioni dell'anima che is riferiscono particolarmente all'anima stessa e che sono causate, mantenute e rafforzate da qualche movimento degli spiriti". Sono percezioni perché sono subite, a differenza degli atti di volontà; ma non sono percezioni chiare e distinte, sono sentimenti, perché sono "ricevute nell'anima nel medesimo modo degli oggetti esterni"; sono emozioni perché muovono, ossia turbano l'anima. A differenza delle idee, non rappresentano oggetti esterni; a differenza di altri modi di sentire, come la fame e la sete, non sono da noi riferite al corpo: ecco perché C. dice che "si riferiscono particolarmente all'anima" - ossia ne abbiamo coscienza come modi di essere dell'io -, e tuttavia non sono causate dall'io, come gli atti della volontà, e perciò C. dice che sono causate dagli "spiriti" ossia dal corpo.

Poiché l'origine delle passioni è nel corpo, l'anima non ne è padrona; può tuttavia agire sulle passioni mediante la rappresentazione delle cose che suscitano le passioni. Le "armi dell'anima", o la forza d'animo, sono i "giudizi fermi e determinati" su ciò che è bene e male, giudizi sui quali l'anima può decidere di condurre le azioni. Con questi si può reagire alla forza delle passioni.

Alla teoria generale delle passioni segue una descrizione delle varie passioni. Respinta la distinzione scolastica in concupiscibile e irascibile - in nome della semplicità dell'anima - C. distingue sei passioni originarie, dalle quali dipendono le altre: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza.

Tutte le passioni sono reazioni dell'anima a ciò che giova o nuoce; ma, prima ancora di queste reazioni, C. mette l'ammirazione, suscitata da ciò che è nuovo o inconsueto negli oggetti. E' una passione che ha per oggetto la conoscenza, quindi i suoi moti restano nel cervello. L'ammirazione suscita il desiderio di conoscere, rinforza l'attenzione, è madre del sapere, ma anch'essa va moderata, perché potrebbe portarci a voler conoscere anche ciò che non ne vale la pena.

Le passioni sarebbero sufficienti a regolare la nostra vita se fossimo puri animali (ossia puri corpi, per C.); ma in noi la parte migliore è l'anima: di qui la necessità di giudicare con la ragione in base ad un determinato concetto di uomo, il valore degli oggetti ai quali ci porta la passione.

3) Nella riflessione di C. si profila inoltre una terza idea di morale, basata sul principio del meglio. Questo principio non ci prescrive più di cercare di conoscere il vero, in un modo o nell'altro, per agir bene, ma di contentarci di ciò che sembra vi si approssimi il meglio possibile. Per questa concezione della morale C. risente dell'influsso della morale stoica diffusa dai primi decenni del XVI sec. Lo stoicismo conosciuto in quest'epoca è quello moralizzante dei primi due secoli d.C., di Seneca, Epitteto e Marc'Aurelio. E' principalmente attraverso le numerose edizioni in latino e in volgare di Seneca che si era andato delineando uno stoicismo cristiano, differenziandosi in più orientamenti e versioni, nel tentativo di superare l'antinomia di fondo delle due concezioni.

Angelo Papi


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Aggiornamento: 26-04-2015