Berkeley: la conoscenza umana

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Berkeley: la conoscenza umana

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Giuseppe Bailone

“La filosofia non è altro che lo studio della saggezza e della verità: ci si dovrebbe, quindi, ragionevolmente attendere che quanti hanno dedicato a tale studio molto tempo e fatica godano di una maggiore quiete e serenità mentale, di una conoscenza più chiara ed evidente rispetto agli altri uomini, e siano meno turbati dai dubbi e dalle difficoltà. Accade, invece, che vediamo la massa degli uomini illetterati percorrere, senza difficoltà e a proprio agio, la strada maestra del buon senso, in obbedienza ai dettami della natura. A tali uomini, nulla di ciò che è familiare appare inspiegabile o difficile da comprendere; non si lamentano della mancanza di evidenza dei propri sensi, né corrono il rischio di diventare scettici. Ma, non appena ci allontaniamo dal senso e dall’istinto per seguire la luce di un principio superiore, e ragioniamo, meditiamo e riflettiamo sulla natura delle cose, subito mille dubbi sorgono nella nostra mente, riguardo a quelle cose che prima ci sembrava di comprendere perfettamente. I pregiudizi e gli errori dei sensi si svelano da ogni parte al nostro sguardo e, se cerchiamo di correggerli con la ragione, scivoliamo insensibilmente in strani paradossi, difficoltà e incoerenze, che crescono e si moltiplicano man mano che avanziamo nel ragionamento, sinché alla fine, dopo aver errato per tanti intricati sentieri, ci ritroviamo al punto di partenza o, peggio, ci adagiamo in un desolato scetticismo”.

Così si apre l’introduzione al Trattato sui principi della conoscenza umana.[1]

Berkeley non è certo un illuminista: è profondamente ostile alla filosofia di molti suoi contemporanei, ma non intende proporre la rinuncia alla filosofia. Vuole, invece, correggerla profondamente e dissolvere “Il polverone” che essa stessa ha sollevato, per poi lamentarsi “di non riuscire a vedere”. Vuole, cioè, “scoprire quali siano i princìpi che hanno portato tanti dubbi e incertezze, tante assurdità e contraddizioni nelle teorie delle varie fazioni filosofiche, così che anche gli uomini più saggi sono giunti a ritenere incurabile la propria ignoranza, nella convinzione che essa derivi dall’originaria ottusità e limitatezza delle nostre facoltà”.[2]

S’impegna, pertanto, a “compiere un’indagine rigorosa sui principi della conoscenza umana, vagliandoli ed esaminandoli da ogni lato”.[3] L’impresa è ardua, ma Berkeley è convinto di portarla a termine con successo, e, già nell’introduzione, ne anticipa l’idea di fondo: è “l’opinione secondo la quale la mente avrebbe il potere di formare idee o nozioni astratte” che crea tante difficoltà in quasi tutti i rami del sapere.[4]

Berkeley si misura con la teoria della conoscenza più nuova, quella di Locke, “un filosofo da poco defunto, e che gode a buon diritto di vasta fama”.[5]

Locke ha fondato la conoscenza umana sulle sensazioni, ma ha inteso le sensazioni come rappresentazioni di altro, della realtà esterna. Così, però, ha dato per scontato il risultato di un’opera di astrazione, cioè la separazione delle impressioni sensibili dalla loro presunta realtà esterna corrispondente. Berkeley, smonta la tesi di Locke contestando la possibilità di quest’attività di astrazione della mente umana.

Il primo risultato di questa critica è la demolizione della distinzione fra le qualità primarie e quelle secondarie delle cose, un fondamentale pilastro della metafisica di legittimazione della scienza moderna, embrionale in Galilei, ben sviluppata in Cartesio e ripresa in forma indebolita da Locke.

Se le qualità secondarie – colori, sapori, odori – mutano a seconda del soggetto che le percepisce, le qualità primarie – estensione, figura, solidità, peso, movimento e quiete – sono altrettanto relative. Infatti, ciò che all’uomo appare estremamente piccolo, al più minuscolo degli insetti sembra enorme; a soggetti diversi lo stesso movimento può apparire lento o veloce; cose dure per certi animali, sono molli per altri che abbiano membra più robuste.

Con l’eliminazione di questa importante distinzione, anche lo spazio e il tempo diventano relativi. Come l’estensione, lo spazio è ricondotto alla relazione tra la percezione del nostro corpo e quella degli altri oggetti. Il tempo, come il movimento, è determinato dalla velocità con cui le idee si succedono nella nostra mente.

Molti elementi di questa critica sono già presenti nel Saggio per una nuova teoria della visione, pubblicato l’anno prima. In esso, Berkeley critica l’idea che con la vista e con il tatto si colgano le cose nello spazio. Fa notare che le sensazioni della vista e del tatto sono completamente distinte ed eterogenee. La vista offre soltanto sensazioni di luce e di colore, mentre il tatto presenta sensazioni di grandezza e distanza delle cose. Se, infatti, collochiamo a una distanza di cento metri una sfera rossa del diametro di un metro, la vista ci presenta soltanto un dischetto colorato, mentre la distanza, la grandezza e la sfericità del dischetto ci vengono dall’operazione psicologica che associa l’idea del dischetto colorato con le idee precedenti del tatto. La collocazione nello spazio delle cose è, pertanto, tutta mentale. È un’elaborazione dell’esperienza. Non è immediata. Infatti, osserva Berkeley, un cieco dalla nascita, se fosse guarito da un intervento chirurgico, dovrebbe imparare lentamente, come fanno i bambini, con l’esperienza a prendere le distanze delle cose: “Il Sole e le stelle, gli oggetti più lontani come quelli vicinissimi, gli sembrerebbero tutti nel suo occhio, o piuttosto nella sua mente. Gli oggetti introdotti dalla vista gli sembrerebbero (come in verità sono) nient’altro che un nuovo insieme di pensieri o di sensazioni, ciascuno dei quali è tanto vicino a lui quanto le sensazioni di dolore e di piacere, o le più intime passioni dell’anima”.[6] Se fosse vera la teoria della percezione della distanza elaborata da Keplero e da Cartesio, questo cieco, appena guarito, dovrebbe percepire immediatamente le distanze degli oggetti, come risultato matematico, oggettivo e universale, delle leggi ottiche. Le idee di distanza sono, invece, regole di comportamento che s’imparano con l’esperienza e che ci risparmiano, ad esempio, di cadere in un precipizio o di andare a sbattere contro un muro. Considerazioni analoghe valgono per il movimento. Con l’esperienza, cioè, impariamo il linguaggio della natura, “il linguaggio universale dell’Autore della natura, per mezzo del quale ci viene insegnato come regolare le nostre azioni al fine di ottenere quelle cose che sono necessarie alla conservazione e al benessere dei nostri corpi, come pure di evitare tutto ciò che potrebbe danneggiarli e distruggerli”.[7]

Locke, inoltre, secondo Berkeley, pretende, partendo da un oggetto sensibile dotato di estensione, movimento e colore, di isolare ciascuna di queste qualità e di ricavarne le relative idee astratte di estensione, di movimento e di colore. Quindi, facendo un’ulteriore astrazione, partendo da particolari estensioni, da particolari colori e da particolari movimenti, vuole ricavare l’idea astratta di ciò che sarebbe comune a tutte le estensioni, di ciò che sarebbe comune a tutti i colori e di ciò che sarebbe comune a tutti i movimenti. A un terzo livello di astrazione, poi, partendo, ad esempio, da idee complesse di determinati individui, pretende di ricavare l’idea generale astratta di uomo. “Per esempio, scrive Berkeley, avendo osservato che Pietro, Giacomo e Giovanni, si assomigliano per certi aspetti della loro forma e per altre qualità, la mente esclude dall’idea complessa o composta che ha di Pietro, di Giacomo e di ogni altro uomo particolare, ciò che è proprio di ciascuna, e conserva soltanto ciò che è comune a tutte. […] Sembra che in questo modo possiamo ottenere l’idea astratta di uomo o, se si preferisce, di umanità o natura umana”.[8]

Si tratta, però, di presunti risultati di operazioni che la nostra mente non può fare. Locke ha ragione a sostenere che gli animali non possono arrivare all’astrazione, ma sbaglia quando attribuisce all’uomo questo potere e ne fa il fondamento della sua teoria della conoscenza. Scrive, infatti, Berkeley:

“Se qualcuno possiede questa meravigliosa facoltà di formare idee per astrazione, nessuno può dirlo meglio di lui: per quanto mi riguarda, mi accorgo di possedere la facoltà di immaginare, o di rappresentarmi le idee delle cose particolari da me percepite, e di essere in grado di comporle e di separale in vari modi. Posso immaginare un uomo con due teste, oppure il busto di un uomo unito al corpo di un cavallo; riesco anche a considerare la mano, l’occhio e il naso, ciascuno di per se stesso, astrattamente o separatamente dal resto del corpo. Ma qualsiasi mano o occhio io immagini, deve avere una forma e un colore particolari. Così, l’idea di uomo che mi formo deve essere quella di un uomo bianco o nero, bruno, eretto o curvo, alto, basso o di media statura; per quanti sforzi io faccia, non riesco a concepire l’idea astratta sopra descritta”.[9]

La tesi che l’uomo sia capace di astrarre dalle sue idee particolari delle idee generali viene dai filosofi argomentata con il suo possesso della parola.

“La ragione che viene addotta per giustificare l’opinione secondo la quale i bruti non possiedono idee generali astratte è l’assenza, presso gli animali, dell’uso di parole o di altri segni generali”.[10] Avendo, invece, l’uomo delle parole generali (es. uomo, animale, triangolo, ecc.), queste segnalerebbero delle idee altrettanto generali. Così la pensa Locke, forte di una tradizione di pensiero che radici antiche, ma sbaglia.

Locke dice che i bambini e le menti poco esercitate non possiedono idee generali astratte, come quella di triangolo; che ci vuole non poco esercizio per acquisirle. Ma, per Berkeley, si tratta di esercizio impossibile e vano.

Egli cita la definizione del triangolo generale di Locke: “Non deve essere né obliquo, né rettangolo, né equilatero, né isoscele, né scaleno, ma allo stesso tempo tutti e nessuno di questi”. E, poi, osserva: “Se qualcuno avesse il potere di formare nella mente un’idea di triangolo come quella sopra descritta, sarebbe inutile pretendere di discutere con lui, e non ci proverei neppure. Tutto ciò che desidero è che il lettore si accerti se possiede o meno un’idea simile: credo che questo non sia per nessuno un compito difficile da eseguire. Cosa c’è di più semplice che esaminare un poco i propri pensieri, per stabilire se possediamo, o siamo in grado di formare, un’idea corrispondente alla descrizione che è stata appena fornita dell’idea generale di triangolo: né obliquo, né rettangolo, né equilatero, né isoscele, né scaleno, ma allo stesso tempo tutti e nessuno di questi?”.[11]

Tutte le nostre idee sono particolari. Universali sono solo i nomi.

“Non è vero che ad ogni nome generale sia unito un significato preciso e determinato: i nomi generali possono significare indifferentemente un gran numero di idee particolari. […] Un conto è assegnare a un nome sempre la stessa definizione, un altro conto è far sì che esso significhi sempre la stessa idea: la prima cosa è necessaria, la seconda è inutile e impossibile”. Ad esempio, nella definizione che si assegna al nome generale di triangolo “non si dice se la superficie sia grande o piccola, bianca o nera, né se i lati siano lunghi o corti, eguali o diseguali, né quale sia l’ampiezza degli angoli: sotto tutti questi aspetti può esserci un gran varietà, e quindi non c’è nessuna idea determinata che circoscriva il significato della parola triangolo”.[12]

Berkeley fa suo il nominalismo che nel tardo Medioevo venne elaborato da Duns Scoto e da Guglielmo di Occam.[13]

Il linguaggio, inoltre, non serve solo per comunicare idee: serve anche per “suscitare passioni, incitare all’azione o far desistere da essa”. Non sempre le parole sono segni d’idee. Soprattutto, non possono essere segni d’inesistenti idee generali astratte.

Quando uso la parola universale triangolo, io ho in realtà in mente un triangolo particolare cui faccio fare, indicandolo con il nome generale di triangolo, la funzione di rappresentare tutti i triangoli particolari. Anche quando cerco di dimostrare delle proprietà universali dei triangoli, l’idea sulla quale lavoro è sempre quella di un triangolo particolare.

Berkeley prevede un’obiezione e vi risponde.

“Come facciamo a sapere che una proposizione è valida per tutti i triangoli particolari, se non l’abbiamo prima dimostrata per l’idea astratta di triangolo? Infatti, posto che si dimostri una proprietà per un determinato triangolo particolare, non ne segue che tale proprietà appartenga egualmente a tutti gli altri triangoli, i quali differiscono dal primo sotto ogni aspetto. Ad esempio, se ho dimostrato che i tre angoli di un triangolo rettangolo isoscele sono uguali a due retti, non sono autorizzato a concludere che tale proprietà valga per tutti gli altri triangoli, che non hanno né un angolo retto, né due lati uguali. Sembra dunque che, per essere certi che tale proposizione sia vera universalmente, si debba svolgere una dimostrazione particolare per ogni triangolo particolare (ciò che è impossibile), oppure dimostrare quella proposizione per l’idea astratta di triangolo, della partecipano indifferentemente tutte le idee particolari, e dalla quale tutte sono egualmente rappresentate. A questa obiezione rispondo che, anche se l’idea che prendo in considerazione quando compio una dimostrazione è, ad esempio, quella di triangolo isoscele e rettangolo, i cui lati hanno una determinata lunghezza, posso tuttavia essere certo che tale dimostrazione si può estendere a tutti gli altri triangoli, di qualsiasi tipo e di qualunque grandezza. Questo perché né l’angolo retto, né l’eguaglianza dei due lati, né la loro particolare lunghezza sono in qualche modo rilevanti ai fini della dimostrazione. È vero che il disegno che considero include tutti questi particolari, ma nella dimostrazione di quella proposizione essi non vengono minimamente menzionati: non si afferma che i tre angoli sono uguali a due retti perché uno di essi è un angolo retto, o perché i lati che lo comprendono hanno la stessa lunghezza. Questo dimostra a sufficienza che l’angolo retto in questione avrebbe potuto anche essere obliquo, e i lati diseguali, e nonostante ciò la dimostrazione sarebbe valida. È per questo motivo, e non perché io abbia dimostrato quella proposizione per l’idea astratta di triangolo, che concludo che ciò che ho dimostrato per un particolare triangolo isoscele e rettangolo vale per ogni altro triangolo, obliquangolo o scaleno. A questo punto, si deve riconoscere che è possibile considerare una figura solo come triangolare, senza badare alle particolari qualità degli angoli, o ai rapporti tra i lati. Si può astrarre fino a tal punto: ma questo non proverà mai che si possa formare un’idea astratta, generale, inconsistente di triangolo. In modo analogo, possiamo considerare Pietro soltanto come uomo, o come animale, senza formare le idee astratte di uomo e di animale: infatti, non tutto ciò che è percepito viene preso in considerazione”.[14]

La capacita della mente umana di fare astrazione ha, quindi, un limite invalicabile: può sì prescindere, nella considerazione di un’idea, da alcuni suoi aspetti, ma non può uscire dalla particolarità dell’idea. Può con i nomi universali far svolgere a un’idea particolare la funzione di rappresentare tutte le altre che abbiano una caratteristica comune, ad esempio quella di essere l’idea di un triangolo, o di un uomo, ma non può produrre un’idea generale astratta.

Tra i principi falsi che creano difficoltà inestricabili al sapere, Berkeley indica quello delle idee astratte come il più insidioso. Si tratta di un errore che nasce da una concezione falsa del linguaggio e dall’uso non corretto delle parole.

“Non si può negare che le parole siano assai utili, poiché per loro mezzo tutto il bagaglio delle conoscenze, acquisite grazie agli sforzi congiunti degli studiosi di ogni età e di ogni nazione, può divenire patrimonio di una sola persona. Nello stesso tempo, però, si deve ammettere che in molti campi del sapere l’abuso delle parole, e il modo generico in cui sono state usate, hanno prodotto dubbi, errori e oscurità. Poiché dunque le parole possono ingannare l’intelletto con tanta facilità, mi sforzerò di esaminare ogni idea tenendola presente nella sua nudità, senza pensare, per quanto è possibile, ai nomi che un uso prolungato e costante ha unito così strettamente alle idee”.[15]

Limitando i suoi pensieri alle sue idee spogliate delle parole, egli pensa

  • di evitare le dispute puramente verbali, che, “simili a erbacce cresciute quasi in ogni scienza, hanno costituito un ostacolo fondamentale per la crescita di una conoscenza certa e sicura”;
  • di liberarsi “da quella rete fine e sottile di idee astratte, che ha così miseramente confuso e intrappolato le menti degli uomini”;
  • di evitare gli errori.

Infatti, spiega: “Gli oggetti che considero, li conosco chiaramente e in modo adeguato: non è possibile che mi inganni, pensando di possedere un’idea che non ho, né mi è possibile immaginare che alcune idee siano simili o dissimili, se non lo sono realmente. Per discernere l’accordo o il disaccordo tra le idee, per vedere quali siano incluse in un’idea composta e quali no, non c’è bisogno d’altro, tranne che di un’attenta percezione di quanto accade nel mio intelletto”.[16]

Berkeley sa bene di non essere il primo a ritenere necessaria la separazione delle idee dalle parole. Si rende conto di quanto questa sia difficile. Pensa che gli altri non siano riusciti adeguatamente nell’impresa, perché “ritenevano che l’uso immediato delle parole fosse quello di significare le idee, e che il significato immediato di ciascun nome generale fosse una determinata idea astratta”. Credendo a quel legame tra nome generale e idea astratta, non hanno trovato strano usare le parole al posto delle idee. Anche perché “non sarebbe stato possibile tralasciare la parola e conservare l’idea astratta, visto che quest’ultima era, in se stessa, assolutamente inconcepibile”.

Il punto è rendersi conto che noi possediamo soltanto idee particolari. Acquisita questa verità, sarà possibile liberare le idee “da quell’ingombrante rivestimento di parole, che tanto contribuisce ad accecare il giudizio e a disperdere l’attenzione”. Se riusciremo a sollevare “la cortina delle parole, scorgeremo con estrema nitidezza l’albero della conoscenza, i cui frutti sono eccellenti, e a portata di mano”.[17]


[1] In Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 179.

[2] Ib. p. 180-1.

[3] Ib. p. 181.

[4] Ib. p. 181.

[5] ib. p. 185.

[6] Saggio per una nuova teoria della visione, § 41, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 107-8. In conclusione dell’Appendice all’opera, inserita nella seconda edizione, Berkeley dice di aver avuto notizia che, vicino a Londra, “è stata restituita la vista a un uomo di circa vent’anni, cieco dalla nascita”. E aggiunge: “Si può supporre che costui sia il giudice più adatto a decidere in che misura i principi esposti in molti luoghi di questo saggio siano conformi alla verità. Se qualche curioso avrà occasione di interrogarlo a riguardo, sarei lieto di vedere le mie teorie smentite o confermate dall’esperienza”.

[7] Ib. § 147. P. 161.

[8] Trattato sui principi sella conoscenza umana, Introduzione § 9, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 183.

[9] Ib. § 10, p. 184.

[10] Ib. § 11, p. 186.

[11] Ib. § 13, p. 188.

[12] Ib. § 18, p. 192.

[13] Cfr. il mio quaderno Da Duns Scoto a Giordano Bruno, al cap. sul nominalismo medievale.

[14] Trattato sui principi sella conoscenza umana, Introduzione § 18, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 189-91.

[15] Ib. § 21, p. 195.

[16] Ib. § 22, pp. 195-6.

[17] Ib. § 24, p. 197.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 2 dicembre 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

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Aggiornamento: 26-04-2015