TEORICI
|
|
|
Berkeley: la materia non esiste, è una “finzione del nostro cervello”
“Secondo i princìpi comunemente accolti dai filosofi, non possiamo essere certi dell’esistenza delle cose per il fatto che queste vengono percepite. Ci viene insegnato a distinguere la loro reale natura da ciò che cade sotto i nostri sensi: per questo nascono lo scetticismo e i paradossi. Non basta vedere e toccare, gustare e odorare una cosa: la sua vera natura, la sua entità assoluta ed esterna rimane nascosta. Infatti, benché questa entità sia una finzione del nostro cervello, l’abbiamo resa inaccessibile a tutte le nostre facoltà. I sensi sono fallaci, la ragione è imperfetta; passiamo tutta la vita a dubitare di ciò che è evidente agli altri uomini, e a credere in cose che essi deridono e disprezzano”.[1] In effetti, la prima lezione che si trae dagli studi dei filosofi antichi e moderni è quella di diffidare delle sensazioni, di non fermarsi all’apparenza sensibile delle cose, oltre la quale ci sarebbe la loro vera realtà. Alcuni filosofi, coltivando questa diffidenza, sono diventati scettici o sono arrivati a “sognare nature sconosciute in ogni cosa”.[2] In età moderna, Cartesio ha prima messo in dubbio tutte le sue sensazioni e le sue idee, poi è approdato all’idea che esistano cose di natura spirituale e cose di natura materiale. Ha quindi cercato di spiegarsi come potessero le cose spirituali agire su quelle materiali e viceversa, data la loro natura radicalmente diversa. Ha costruito la teoria della ghiandola pineale, che, però, non ha convinto i molti filosofi che l’hanno invece seguito nella sua impostazione della filosofia a partire dalla propria soggettività pensante e nella sua divisione delle cose in materiali e spirituali. Tra questi, gli Occasionalisti hanno escogitato la teoria dell’intervento divino per accordare i movimenti materiali con i pensieri e viceversa.[3] A Berkeley va benissimo l’intervento divino per spiegare ogni cosa, ma con esso l’idea di materia si rivela un’inutile e perniciosa invenzione dei filosofi. Berkeley è un filosofo militante, un difensore della verità religiosa rivelata. Vive in un secolo in cui questa è messa in discussione da molti filosofi, che, o riducono le verità di fede a ciò che in esse ci sarebbe di razionale, o le rifiutano del tutto. È preoccupato per “le pericolose conseguenze dei dubbi ostentati da alcuni filosofi, e dalle concezioni fantasiose di altri”.[4] Tra queste, il materialismo è un’insidia filosofica particolarmente pericolosa. Ma, attenzione! Berkeley concepisce il materialismo in modo del tutto originale: materialista, per lui, non è solo chi, come Democrito o Epicuro, pensa che esistano solo gli atomi e che questi siano tutti di natura materiale, anche quelli della mente; per lui è materialista chiunque creda nell’esistenza della materia, dei corpi materiali. È quindi “materialista” Cartesio e lo sono gli Occasionalisti. In generale, è “materialistica” tutta la metafisica che ha accompagnato e legittimato la formazione della scienza moderna, perché ha individuato nella materia, strutturata geometricamente, la sostanza dei fenomeni fisici, rendendo in tal modo superfluo il ricorso a Dio per spiegare le cose e il loro ordine. La metafisica “materialistica” moderna, che ha in Galileo e in Cartesio i suoi fondatori, aprirebbe pericolosamente all’ateismo. Berkeley, “seriamente convinto del fatto che non esiste quella cosa che i filosofi chiamano sostanza materiale”,[5] si propone, pertanto, di demolire questa insidiosa fantasia filosofica. La gente comune, secondo Berkeley, non distingue l’oggetto della sensazione dalle sensazioni che ne ha; ritiene reale tutto ciò di cui abbia sensazione diretta e immediata. I filosofi, invece, dubitando del valore conoscitivo dei sensi, hanno creato questa distinzione e prodotto, di conseguenza, il concetto di materia, di sostanza materiale, di sostrato materiale, un’invenzione fantasiosa di chi, abbandonando il senso comune, si è perso nelle nebbie generate dal dubbio filosofico. Philonous (= amico della mente), il personaggio che, in tre dialoghi scritti per divulgare in termini accessibili la sua filosofia, esprime le posizioni di Berkeley, si presenta come uomo non corrotto da questa diffidenza filosofica. “Sono – dice – un uomo di stampo comune, abbastanza semplice da credere ai miei sensi, e da lasciare le cose come le trovo. In parole povere, io sono dell’opinione che le cose reali sono proprio le cose che vedo, tocco e percepisco con i sensi”.[6] Ecco come parla dell’esperienza della ciliegia: “Io vedo questa ciliegia, la tocco, ne gusto il sapore, e sono certo che un nulla non può essere visto, toccato o gustato: dunque questa ciliegia è reale. Togli le sensazioni di morbidezza, di succosità, di rosso, di aspro, e toglierai anche la ciliegia. Questa non è un essere distinto dalle sensazioni; una ciliegia, dico, non è altro che una congerie di impressioni sensibili, o di idee percepite dai diversi sensi. Queste idee vengono unite in una sola cosa (ovvero ad esse è attribuito un unico nome) dalla mente, perché si è osservato che vanno sempre insieme: quando il palato è affetto da un particolare gusto, la vista è affetta da un colore rosso, il tatto dalla rotondità e dalla morbidezza, e così via. Perciò, quando vedo, tocco e gusto in determinati modi diversi, sono sicuro che la ciliegia esiste, è reale: la sua realtà infatti, a mio giudizio, si riduce interamente a quelle sensazioni. Ma, ove con la parola ciliegia si designi una natura sconosciuta, distinta da tutte quelle qualità sensibili, e con la sua esistenza si intenda qualcosa di diverso dal suo essere percepita, in questo caso ammetto che né tu né io, né nessun altro potremo mai essere sicuri che esista”.[7] Berkeley è realista, come l’uomo della strada, perché crede reali le cose sensibili di cui ha esperienza; ma, come filosofo, dà una spiegazione idealistica di quella realtà. Sostiene, cioè, che essa consiste nelle percezioni che se ne hanno, che esse est percipi (cioè, il verbo attivo essere è la stessa cosa del verbo passivo essere percepito). “Le cose percepite dai sensi sono percepite immediatamente, e le cose percepite immediatamente sono idee; ma le idee non possono esistere al di fuori di una mente; dunque la loro esistenza consiste nell’essere percepite; perciò, ove esse vengano effettivamente percepite, non possono esservi dubbi riguardo alla loro esistenza. Basta, dunque, con lo scetticismo, con tutti quei ridicoli dubbi filosofici!”.[8] L’esistenza delle cose sensibili è passività: esistono perché c’è una mente attiva che le pensa. La causa dell’esistenza delle cose è sempre una mente, la mia, quella degli altri esseri pensanti e, soprattutto, quella di Dio. Infatti, per spiegare il fatto che le sensazioni delle cose s’impongono alla nostra mente ed hanno stabilità e regolarità, Berkeley ricorre a Dio, come ha fatto Malebranche, ma in modo logicamente più rigoroso. È Dio, spirito onnipotente ed eterno, che ha creato le cose e le rende stabili pensandole secondo un ordine, che a noi si presenta come ordine naturale. “Quando nego alle cose sensibili un’esistenza esterna alla mente, non intendo la mia mente in particolare, ma tutte le menti. Ora, è chiaro che le cose sensibili esistono al di fuori della mia mente, perché so per esperienza che sono da essa indipendenti; dunque deve esserci qualche altra mente nella quale esistono, negli intervalli di tempo durante i quali io non le percepisco: allo stesso modo, le cose sensibili esistevano prima della mia nascita, ed esisterebbero dopo la mia presunta annichilazione [Si riferisce ad un’ipotesi appena fatta nel corso del dialogo]. Lo stesso vale per tutti gli altri spiriti finiti creati: ne segue necessariamente che esiste una Mente onnipresente ed eterna, la quale conosce e comprende tutte le cose, e le mostra al nostro sguardo in un certo modo, secondo le regole che essa stessa ha stabilito e che noi chiamiamo Leggi di Natura”.[9] Con la sua filosofia, Berkeley pensa di ottenere “la distruzione totale dell’ateismo e dello scetticismo, il chiarimento di molte questioni intricate, la soluzione di gravi difficoltà, l’eliminazione di molte parti inutili delle scienze, la connessione tra la speculazione e la pratica, e la conversione degli uomini dai paradossi al senso comune”. E, spiegando, questo suo fine, aggiunge: “Anche se a qualcuno potrà dar fastidio pensare come tutti, dopo essersi aggirato a lungo tra nozioni sofisticate e non comuni, credo tuttavia che questo ritorno ai semplici dettami della natura, dopo aver vagato attraverso i labirinti selvaggi della filosofia, non sia spiacevole. È come tornare a casa dopo un lungo viaggio: si riflette con piacere sulle numerose difficoltà e situazioni incerte in cui ci si è trovati, ci si rilassa e da allora in avanti si gode della vita con maggior soddisfazione”.[10] Egli vuole liberare le persone dalle pericolose insidie della filosofia, portarle fuori dal “procedere tortuoso e inconcludente” dei libertini, la cui libertà di pensiero consisterebbe nel non tollerare “i freni della logica più di quelli della religione e del governo”.[11] La filosofia deve tornare con i piedi per terra, camminare a fianco delle persone comuni e non dissolvere le loro certezze e la loro solidità morale con i suoi dubbi e i suoi labirinti. “Non pretendo – scrive Berkeley a conclusione del terzo dialogo – di aver creato nozioni nuove; ho solo cercato di unificare e di presentare sotto una luce più chiara una verità che sino ad ora è sempre stata divisa tra la gente comune da una parte, e i filosofi dall’altra. La prima è dell’opinione che le cose che percepisce immediatamente siano le cose reali; i secondi sono convinti che le cose immediatamente percepite siano idee che esistono solo nella mente. Mettendo insieme questi due principi, si ottiene il nòcciolo della mia posizione”.[12] Ecco il punto: invece di divergere dal senso comune, la filosofia deve tenerlo presente come terreno sicuro in cui muoversi. Berkeley costruisce uno dei sistemi filosofici più paradossali e geniali della storia occidentale e lo presenta come perfettamente in sintonia con il senso comune, come “abbandono di sublimi nozioni” filosofiche “a favore di opinioni volgari”, come “ritorno dalle nozioni metafisiche ai piani dettami della Natura e del senso comune”.[13] Si rende perfettamente conto, però, di quanto il suo sistema possa apparire “stravagante” e generare “riluttanza”; ma, come farà poi anche Fichte, egli presenta il suo idealismo come perfettamente in sintonia con il realismo dell’uomo della strada e in grado di spiegarlo. Tuttavia, filosofi suoi contemporanei come Hume e Diderot continuano a consideralo inaccettabile. Il primo sostiene che gli argomenti a favore dell’esse est percipi “non ammettono risposta e non producono convinzione”. Il secondo definisce l’idealismo “un sistema che, ad onta dello spirito umano e della filosofia, è il più difficile da combattere, pur essendo il più assurdo di tutti”. Bertrand Russel, nella sua autobiografia, scrive: “Non vedo come lo si possa confutare, ma provo per esso un’istintiva repulsione”.[14] Questi filosofi la pensano proprio come Hylas (nome che viene dalla parola greca che indica la materia), l’interlocutore di Philonous: riconoscono straordinario rigore logico e consistenza imbattibile degli argomenti di Berkeley, ma respingono la sua filosofia. Questa filosofia esercita, infatti, un fascino molto forte, ma suscita resistenze altrettanto forti, e per molti insuperabili. È l’estrema e più coerente conseguenza del dubbio cartesiano. Per venirne fuori bisogna fare i conti con quel dubbio e con la strada che Cartesio ha aperto nel superarlo. Berkeley vede che Cartesio porta all’Occasionalismo. Trova, però, che la soluzione occasionalistica di Malebranche renda superflua l’idea di sostanza materiale e applica ad essa il rasoio di Occam: se l’onnipotenza divina è la causa di tutto, che ragione c’è per credere che essa abbia bisogno della materia per agire sulla nostra mente? Sviluppa un’articolata critica a Malebranche[15] e conclude. Come si può pensare “che uno spirito perfettissimo, dalla cui volontà dipendono in modo assoluto e immediato tutte le cose, abbia bisogno di uno strumento per le sue operazioni, o che faccia uso di uno strumento di cui non ha bisogno? A questo punto, mi sembra che tu sia costretto ad ammettere che l’uso di uno strumento inattivo e senza vita è incompatibile con l’infinita perfezione di Dio. […] Noi che siamo esseri dotati di poteri finiti, siamo costretti a fare uso di strumenti; l’uso di uno strumento rivela che l’agente è limitato da regole di prescrizione altrui, e che può ottenere il suo scopo esclusivamente in quel modo e a quelle condizioni. Se ne deduce che l’agente supremo e illimitato non si serve di nessun mezzo o strumento. La volontà di uno spirito onnipotente viene eseguita nel momento stesso in cui si esercita, senza l’applicazione di mezzi”.[16] Elabora un’originale e tutta sua prova dell’esistenza di Dio. “Gli uomini di solito credono che Dio conosca o percepisca tutte le cose perché credono nell’esistenza di Dio, mentre io concludo immediatamente, e con necessità, che Dio esiste perché tutte le cose sensibili devono essere percepite da lui. […] I teologi e i filosofi hanno dimostrato al di là di ogni dubbio – dalla bellezza e dall’utilità delle diverse parti della creazione – che questa è opera di Dio. Ma solo chi abbia fatto questa semplice riflessione: che il mondo sensibile è quello che percepiamo con i nostri sensi; che niente viene percepito dai sensi se non le idee; che nessuna idea o archetipo di un’idea può esistere, tranne che in una mente: solo chi abbia fatto questa semplice riflessione ha il vantaggio peculiare di poter dedurre, dalla semplice esistenza del mondo sensibile, l’esistenza di una mente infinita, anche senza ricorrere all’aiuto dell’astronomia e della filosofia naturale, o alla contemplazione del disegno, dell’ordine e della adeguatezza delle cose. Adesso – dice Philonous a Hylas – sei in grado di combattere e di confondere i più accaniti avvocati dell’ateismo senza impegnarti in faticose ricerche scientifiche, senza ricorrere a sottigliezze dialettiche e senza discorsi lunghi e noiosi”.[17] A Dio si può arrivare facilmente. La gente comune non si è mai allontanata da Dio e dai suoi principi morali. La filosofia, se resiste alle sirene del dubbio e del “libero pensiero”, può tornare facilmente a conciliarsi con il pensiero dell’uomo comune, invece di agitarsi per metterlo in crisi. George Berkeley, questo sorprendente filosofo, nasce nel 1685 a Kilkenny, in Irlanda, un paese in cui convivono, con forti tensioni, una maggioranza autoctona, di religione cattolica e politicamente sostenitrice degli Stuart deposti, e una minoranza di origine inglese, dominante, di religione anglicana e politicamente sostenitrice del nuovo ordine politico inglese. Lui è di famiglia inglese. Nel 1700 s’immatricola al Trinity College di Dublino, dove studia matematica, logica, filosofia e letteratura classica, legge i filosofi moderni, in particolare Locke e Malebranche. Fin da ragazzo manifesta curiosità e vivo interesse a fare esperienze nuove. A quattordici anni, con alcuni compagni, esplora la grotta di Dunmore. A quindici, avendo assistito all’esecuzione pubblica di un’impiccagione, vuole provare le sensazioni di un condannato a morte: assistito da un compagno di studi, che deve salvarlo appena in tempo e poi fare anche lui la stessa cosa, s’impicca al soffitto della sua camera. L’amico, però, poi preferisce evitare l’esperimento. Nel 1707 inizia la carriera accademica al Trinity College, come insegnante di greco, teologia ed esegesi biblica. Nel 1710 diventa pastore anglicano. Pubblica in età giovanile, ma con scarso successo, il Saggio per una nuova teoria della visione (1709) e il Trattato sui principi della conoscenza umana (1710), giudicato ridicolo quasi all’unanimità. Nel 1713 si trasferisce a Londra. L’amico Swift lo introduce a corte. Riespone la sua teoria in forma più accessibile, nei tre Dialoghi tra Hylas e Philonous. Nel 1714 visita Torino e Genova; si ferma cinque mesi a Livorno, per migliorare il suo italiano e visitare la Toscana. Nel 1716 accompagna il figlio di George Ashe in un Grand Tour in Europa. Il viaggio dura quattro anni, trascorsi soprattutto in Italia meridionale. Sviluppa così il gusto per le arti e assiste nel 1717 all’eruzione del Vesuvio, di cui invia un rapporto alla Royal Society. Nel 1723 espone per la prima volta, in una lettera a Sir John Percival, il progetto di fondare un collegio filosofico e missionario alle isole Bermuda, dove educare gli indigeni e i figli dei coloni. Nel 1724, in una pubblicazione, accetta la schiavitù, perché sancita dalla Bibbia, e propone il rapimento dei bambini indiani per farne dei missionari nelle loro terre. Nel 1728 riceve una consistente eredità, che considera provvidenziale e che gli permette, insieme a fondi privati che è riuscito a raccogliere, di partire per la sua missione filosofica. Conta su altri fondi e sullo stanziamento di ventimila sterline da parte del Parlamento. Lo accompagna la moglie, sposata da poco. Soggiorna a Rhode Island, vicino a Newport, fino all’ottobre del 1731. Il finanziamento del Parlamento non arriva e lui ritorna a Londra. Tra il 1729 e il 1739 gli nascono sette figli, ma quattro muoiono in tenera età. Nel 1732 pubblica l’Alcifrone, un dialogo che ha composto in America contro i liberi pensatori. Nel 1734 viene nominato vescovo di Cloyne, dove si cura sia dei fedeli protestanti che dei cattolici. Apre una scuola di filatura e tessitura, istituisce un carcere per i vagabondi, introduce le colture del lino e della canapa. Promuove le arti (tra l’altro, si assicura dipinti di Rubens e van Dyck). Nel 1740, in seguito a una carestia, in Irlanda, si diffondono vaste epidemie di vaiolo e di dissenteria: Berkeley sperimenta la cura con l’acqua di catrame. Convinto degli effetti prodigiosi della cura, scrive l’opera sua di maggior successo, la Siris o Catena di riflessioni e ricerche filosofiche intorno alle virtù delle acque di catrame e a diversi altri argomenti connessi insieme e sorgenti uno dall’altro. La filosofia di quest’opera rivela chiaramente un deciso avvicinamento del suo autore alle dottrine neoplatoniche. Nel 1752 si stabilisce a Oxford, dove muore nel 1753. [1] Prefazione ai Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, in George Berkeley, Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 286-7. [2] Dialogo terzo, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 362. [3] Cfr. il mio quaderno Viaggio nella filosofia. Da Montaigne a Pascal, pp. 87-115 e 123-128. [4] Dialogo primo, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 291. [5] Ib. p. 291. [6] Dialogo terzo, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 363. [7] Ib. pp. 387-8. [8] Ib. p. 364. [9] Ib. p. 365. [10] Prefazione ai dialoghi, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, pp. 287-8. [11] Ib. p. 288. [12] Dialogo terzo, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 404-5. [13] Dialogo primo, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, p. 291. [14] Questi giudizi sono citati in nota 1 a p. 356 delle Opere filosofiche di Berkeley, ed. Utet 1996. [15] Dialogo secondo, in Opere filosofiche, a cura di Silvia Parigi, UTET 1996, pp. 343-56. [16] Ib. p. 350. [17] Ib. pp. 341-2. Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO Torino 18 novembre 2013 Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino. Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca. Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf) Testi di Berkeley
La critica
|