Cavalleria rusticana, di GIOVANNI VERGA

La verità di Giovanni Verga

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Dario Lodi


Giovanni Verga (1840-1922) è uno dei grandi della novellistica italiana. Questa grandezza va ben oltre la Penisola perché Verga, con il suo verismo, riuscì a superare il provincialismo italiano. E’ una rarità assoluta. Per quanto riguarda il linguaggio narrativo, sicuramente Manzoni e parte della Scapigliatura non si fermarono all’accademismo e alla retorica di buona parte della letteratura italiana dopo la perdita della centralità di Roma, e cioè dopo il Concilio Tridentino, ma Verga varcò il Rubicone, lasciando ogni forma di conservatorismo italiano.

La Controriforma aveva spinto i Protestanti a intraprendere un’avventura espressiva priva d’intermediazioni di sorta. L’Italia, con la Chiesa ripulita, ma pur sempre attiva come potere temporale, rimase sostanzialmente ferma alla mentalità precedente, come se il mondo medievale non fosse finito. Le eccellenze furono frutto d’intraprese intellettuali solitarie: Leopardi, ad esempio. E Verga, con pochi altri.

Verga è tuttora attuale perché, in molte sue novelle, si occupa del carattere originale dell’uomo. La sua è un’operazione analitica impietosa e precisa, coraggiosa, disincantata. La sua prosa attrae immediatamente grazie ad una narrazione spiccia, essenziale, muscolare. Lo scrittore siciliano sta costantemente sul pezzo, è concentrato sulla morale di fondo che vuole semplice ed emblematica, così come inevitabile. Ecco come si fa ad arrivare all’osso delle cose, sembra dire.

Il ventennio milanese, dal 1872 al 1893, salvo viaggi e soggiorni nella sua Sicilia, fu determinante per la formazione del suo pensiero e del suo stile. Nelle novelle milanesi a volte prevale la maniera e questo per la semplice ragione che Verga non capì mai il modo di vivere degli abitanti di Milano. Nella capitale lombarda, nella Lombardia in genere, il vecchio latifondismo era stato, o stava per essere, sostituito dall’impresa produttiva e commerciale. In Sicilia, invece, il sistema era bloccato su un conservatorismo asfissiante che, di fatto, impediva ogni evoluzione sociale e individuale.

Il laboratorio siciliano era sicuramente più facile da studiare da un punto di vista antropologico in quanto, per così dire, fermo. Ad aiutare la perspicacia di Verga provvedeva, inoltre, l’avvento del Positivismo, ovvero la sua diffusione. In letteratura, i francesi, per primi, non si fecero scappare l’occasione: generarono il Naturalismo di Flaubert, Balzac e soprattutto Zola.

Specialmente il Naturalismo di Zola è una cosa chiusa in sé, con verdetti prefabbricati. L’autore osserva i casi umani come uno scienziato prevenuto, è freddo e lucido secondo freddezza e lucidità studiate a tavolino. Zola è un borghese che osserva i soggetti delle classi subalterne quasi come fossero insetti. Si batte per un borghese suo pari (caso Dreyfus) non per i nullatenenti, forse ritenendo sufficienti le sue superficiali e compiaciute disamine (quasi morbose) per aiutarli. Verga passa invece a una sorta di studio antropologico, puntando sull’individuazione delle manchevolezze umane, a prescindere dalla condizione sociale.

Lo scrittore siciliano s’ispira al darwinismo e, forte della condizione siciliana, insiste, sino ad avvitarvisi sopra, sulla legge del più forte, trascurando volutamente la complessa teoria di Darwin per cui, detto molto volgarmente, la forza vincente è fatta di tante potenzialità (soprattutto mentali) espresse meglio di altre in presenza delle medesime occasioni espressive. La monotematicità di Verga riguarda il mito della “roba” da ottenere a tutti i costi: era uno spettacolo che egli aveva sotto gli occhi, che considerava radicata e dalla quale ricavava l’essenziale e imbattibile brutalità dell’uomo.

Quella di Verga era una tesi facilmente perseguibile, ma certo non a modo suo. Lo scrittore siciliano trasmette un dolore profondo per lo stato delle cose e alla vanità di riuscire a individuarne i motivi – l’uomo in genere è quello che è, cioè un povero materialista – egli antepone un’amarezza che alla fine lo sconcerta e lo rende fieramente pessimista.

Tutto ciò spiega la posizione politica di Verga. Ormai ritirato definitivamente nelle sue terre, nella sua Sicilia, egli seguiva di lontano le vicende italiane e internazionali e interveniva per porre la sua qualificata opinione. La qualifica veniva dalla reputazione che lo scrittore si era fatto nel corso degli anni con le sue novelle e i suoi romanzi, ma in esse e in essi si trattava di trasfigurazioni veristiche sempre più incollate a un disagio: quello di non vedere una via d’uscita alla rincorsa al possesso personale.

Leggendo Verga s’imparano molte cose sugli uomini, ma non si vede la possibilità di una palingenesi che pure è sottesa come risposta ideale alla follia dell’avere. La risposta è tuttavia flebile e non regge alla implacabilità di una denuncia che vuole essere frutto di uno studio antropologico avanzato, mentre è un’interpretazione personale, sanguigna, dell’antropologia: non c’è posto per la razionalità nobile (che pure esiste, altrimenti la storia sarebbe finita già all’epoca dell’uomo delle caverne) nelle sue disamine: la vicenda particolare viene promossa ad esempio generale, ma è un’evidente forzatura, per quanto istruttiva.

Verga tenne per Crispi e il suo imperialismo da due soldi, tenne per l’interventismo sia nella guerra libica sia nella prima guerra mondiale e fece in tempo ad apprezzare Mussolini, dopo essere stato con Giolitti sino a un certo punto (per lui era troppo tiepido). Ma non tifava per nessuna di queste situazioni: le considerava la prova provata della sua disillusione sulle virtù dianoetiche dell’uomo. Amaramente bollava queste virtù favole e sperava di avere torto, lui tanto orgoglioso della sua prodigiosa mente. Lo sperava segretamente, ma di sicuro intensamente: una cosa sua che avrebbe voluto di tutti.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019