Piante trasmigrate


Home
La Geografia
Risorse energetiche
Sviluppo-Sottosviluppo
Sviluppo sostenibile
Carte geografiche
Piante trasmigrate
Il riso
Fonti
Ricerche

Il ruolo delle società umane per le trasmigrazioni delle piante da un continente all’altro

La storia delle trasmigrazioni delle piante da un luogo all’altro della terra è antica di millenni. E’ noto infatti che nel mondo vegetale le aree di maggior ricchezza genetica, capaci cioè di produrre molte varietà di piante, sono un numero limitato.

E’ stato il genetista russo Nikolai Vavilov ad individuare, all’inizio del nostro secolo, queste aree e le piante originarie di ognuna di esse. Da queste poche aree le piante si sono diffuse in tutto il mondo e si sono modificate, grazie soprattutto all’intervento umano.

www.fotomulazzani.com

Di questa lunga storia prenderemo in considerazione solo alcuni aspetti: quelli che ci paiono poter offrire spunti in grado di aiutarci a ricostruire i nessi tra interventi nei confronti delle piante alimentari da parte di alcuni gruppi della società occidentale, consapevoli obiettivi economici e politici di questi gruppi, e loro conoscenze scientifiche.

Tralasceremo pertanto di considerare tutte le trasmigrazioni che hanno avuto luogo in epoca remota, in età classica e nel Medioevo e ci concentreremo invece sulle trasmigrazioni in epoca moderna e contemporanea. E’ infatti solo a partire dal Cinquecento che la trasmigrazione delle piante si fa più intenzionale, più razionale e più sperimentale; essa diventa fondamentale per l’economia, addirittura per la sopravvivenza di alcuni Stati europei.

Alla trasmigrazione moderna si accompagnano inoltre, diversamente che in precedenza, descrizioni e relazioni da parte di botanici e naturalisti, che hanno lasciato in questo modo materiale più abbondante per il lavoro dello storico. Inoltre, con la scoperta dell’America, che segna appunto l’inizio dell’età moderna, si apre improvvisamente una nuova grande ricchezza e varietà vegetale, che determina grandi mutamenti nell’economia europea e mondiale: da questi mutamenti vale la pena di prendere le mosse.

  • Possiamo suddividere il periodo che prenderemo in esame in quattro parti:
  • dal Cinquecento all’inizio del Seicento;
  • dal Seicento al Settecento, che potremmo definire lil periodo delle piante e degli schiavi;
  • dall’età dell’Illuminismo all’Ottocento, caratterizzato dal nesso definitivamente intenzionale tra piante e scienza;
  • il Novecento, nel corso del quale assume importanza sempre maggiore il ruolo del denaro come mezzo per la ricerca tecnologico-scientifica.

a) Dal Cinquecento all’inizio del Seicento. Durante quest’epoca le trasmigrazioni cominciano a essere caratterizzate da una modalità sperimentale e intenzionale, anche se per un vero e proprio intervento scientifico e razionale occorrerà aspettare i secoli successivi. Nel Cinquecento e nel Seicento la conoscenza delle piante è infatti ancora limitata. Esse vengono ancora studiate esclusivamente per le loro caratteristiche curative: il botanico, colui che studia le piante, è sempre un medico, e se non lo è, è comunque uno studioso al servizio di un medico.

Conoscenza limitata dunque, ma non inesistente.

Un esempio: la descrizione scientifica della banana da parte del naturalista veneto Prospero Alpino. Egli vide la banana in Egitto nel corso del viaggio scientifico da lui compiuto tra il 1580 e il 1584. Originaria dell’India, essa era a quel tempo già passata ai Caraibi e in America del Sud, dopo essere trasmigrata dall’Africa e dalle Canarie. Nel Nuovo Continente essa si adattò talmente bene che per molto tempo gli scienziati la credettero indigena.

Nel corso di questo primo periodo parecchie altre piante, oltre alla banana, furono portate dagli europei in America. Infatti, appena arrivati in America, gli europei cominciarono a trasformare il più possibile il Nuovo mondo in una copia del Vecchio. Furono trasferiti fin da subito: grano, piselli, meloni, cipolle, insalata, viti, olivi e semi di frutta. Ognuna di queste piante trovò la zona adatta, e tutte insieme si estesero dagli umidi bassipiani delle coste atlantiche fino agli altipiani asciutti andini.

In particolare, per quanto riguarda il frumento si può dire che, clima permettendo, gli spagnoli riuscirono a coltivarlo in quasi tutte le zone colonizzate dei loro possedimenti americani: a Rio de la Plata, a Nuova Grenada, in Cile, sugli altipiani dell’America Centrale. Già all’inizio del Seicento i coloni spagnoli erano in grado di disporre quasi ovunque di pane di grano.

La vite fu coltivata a partire dalla metà del Cinquecento in Perù, e poi anche in Cile. Sempre in Cile e Perù (nelle valli costiere) l’ulivo venne piantato a partire, pare, dal 1560 (a questo anno, almeno, risale la prima testimonianza). Possiamo così dire che nel Seicento tutte le più importanti piante commestibili del Vecchio mondo erano coltivate in entrambe le Americhe.

Tragitto inverso fu invece quello compiuto dal mais che venne portato in Spagna da Cristoforo Colombo al ritorno, pare, già dal suo primo viaggio. Comune a tutti e quattro i popoli più antichi dell’America (atzechi, chibchas, maya, incas) la coltura del mais risaliva a epoche remotissime, come dimostra il ritrovamento, avvenuto in Perù, di semi di mais fossilizzato.

Il mais non si diffuse subito in Europa. Gli europei lo portarono invece in Asia. Fu Magellano a trasferirvelo, nel 1520. Esso ebbe un ruolo importante in Asia: contribuì all’incremento demografico avvenuto in Cina tra Cinque e Seicento. Grazie al mais fu possibile coltivare gli altipiani situati al di sopra del delta dello Yang Tse, altipiani non irrigabili e pertanto inadatti alla coltura del riso.

Una considerazione a parte merita lo zucchero di canna. Originario dell’India, esso era stato introdotto in Siria e in Egitto tra il X e l’XI secolo, poi in Sicilia. Nel Quattrocento il principe portoghese Enrico il Navigatore lo aveva fatto portare dalla Sicilia a Madeira, che in breve era diventata un’isola dello zucchero. Tra il Quattro e il Cinquecento esso era passato alle Canarie, alle Isole di Capoverde e alle Azzorre.

Queste isole, compresa la Sicilia, furono tutte quante devastate dalla coltura della canna: intere foreste vennero distrutte per far posto alle piantagioni e per fornire il combustibile necessario al funzionamento dei mulini per frantumare la canna. Lo zucchero passò allora dove c’era abbondanza di foreste: nel Nuovo Mondo, a S. Domingo e sulla costa nord del Brasile.

l trasferimento dello zucchero a Santo Domingo e sulla costa settentrionale del Brasile (ricordo che l’adattamento della pianta fu facile, mentre in Europa essa non avrebbe potuto crescere per via del clima troppo freddo) ci introduce al secondo periodo che considereremo qui.

b) Dal Seicento all’inzio del Settecento. Il periodo delle piante e degli schiavi. Allo zucchero e alla sua coltivazione oltreoceano si collega infatti la tratta degli schiavi dalle coste occidentali dell’Africa alle Antille e al Brasile. Ricordo che lo scopo era quello di impiegare la manodopera africana per sostituire nelle piantagioni di canna la popolazione indigena, che era stata decimata sotto i colpi delle spade, dei fucili e delle malattie portate dagli Europei a partire dal Cinquecento.

Fu la carenza di forza lavoro locale a determinare l’arrivo di masse di africani in America. Lo zucchero e la tratta degli schiavi diventarono interdipendenti prima nei Caraibi e poi in Brasile. Furono soprattutto i portoghesi ad approfittare della vantaggiosa combinazione fra la tratta degli schiavi e la coltivazione dello zucchero di canna. Poi nel commercio entrarono gli olandesi, che invasero e occuparono il nord del Brasile.

Infine arrivarono gli inglesi e i francesi che acquistarono parecchie isole dei Caraibi, estendendo così la coltivazione della canna e facendo inoltre salire la richiesta di schiavi. Il rilievo economico dello zucchero coltivato nelle piantagioni americane stava infatti notevolmente aumentando. A questo riguardo è opportuno tener presente che in Europa, proprio a partire dal Seicento, la produzione di miele era fortemente diminuita a causa dei diboscamenti, e della conseguente riduzione del numero degli alveari e delle api.

Lo zucchero veniva dunque a sostituire un alimento che si stava facendo raro, e rispetto al quale aveva anche il vantaggio di consentire la conservazione della frutta e di rendere possibile la manifattura di marmellate. A dimostrare l’importanza assunta dalla canna da zucchero a partire dalla seconda metà del Seicento ricordiamo che gli olandesi cedettero New York all’Inghilterra (1664) in cambio di campi di zucchero nel Suriname, mentre nel 1763 la Francia abbandonò il Canada agli inglesi in cambio della Guadalupa, atta alla coltivazione dello zucchero.

Aggiungo ancora che dal punto di vista della storia economica lo zucchero costituisce un esempio interessante dei rapporti di produzione tra centro europeo e periferia tropicale. Mentre infatti la coltivazione e la frantumazione, affidate rispettivamente alla manodopera importata dall’Africa e ai macchinari importati dall’Europa, avevano luogo in America, la raffinazione e il controllo commerciale erano in mani esclusivamente europee.

Anche la storia del mais si lega a quella della tratta degli schiavi. Esso fu infatti introdotto nel Seicento in Africa dai portoghesi con lo scopo di poter disporre a basso prezzo del cibo necessario al mantenimento degli schiavi durante il traversata oceanica. Così mentre gli schiavi venivano trasferiti dall’Africa all’America per coltivare lo zucchero originario dell’Asia, il mais originario dell’America veniva trasferito in Africa per consentire il commercio dello zucchero in Europa.

Il mais fu accettato rapidamente in Africa perchè cresceva in fretta e la sua coltivazione non richiedeva né l’aratro, né l’animale da lavoro. Era sufficiente l’uomo con la zappa. Esso aveva inoltre una resa energetica pari a 3 volte quella del frumento (13 quintali per ettaro, contro i 4 del grano, parlo di allora, cioè prima dell’invenzione dei concimi chimici e delle tecniche di ibridazione, alle quali accenneremo più avanti)

Anche la banana, trasferita in America del Sud fin dal Cinquecento, come si è detto più sopra, fu utilizzata a partire dal Seicento come cibo per gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di zucchero delle Antille e delle coste tropicali adiacenti.

Come si vede, ogni trasferimento è collegato agli altri. A questo riguardo vorrei far notare come sia insita nella monocoltura stessa (è il caso della piantagione di canna da zucchero in America per l’esportazione in Europa, o della piantagione di mais in Africa per nutrire gli schiavi destinati all’America), la necessità di trasferimenti di altre monoculture (per esempio, la banana per nutrire gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di canna).

Le Antille e il Brasile furono forse le prime società nella storia del mondo ad essere dipendenti, per la loro sopravvivenza, dal trasferimento di cibo. Come vedremo, anche in seguito la monocoltura, spesso frutto di un trasferimento, porta come conseguenza altri trasferimenti e altre monocolture.

c) Da metà Settecento a fine Ottocento. Assistiamo a una grande novità. Nel trasferimento delle piante si introduce la scienza. La pratica non basta più. Occorrono ricerche sperimentali razionalmente programmate per poter effettuare nuovi trasferimenti.

I primi segnali in questo senso arrivano dalla Francia. Il nuovo spirito può essere sintetizzato dalle convinzioni dello scienziato René-Antoine Ferchault de Réaumur. A suo parere l’obiettivo del naturalista deve essere quello di individuare gli organismi utili, di ricercare quindi i loro analoghi e di vedere se tra questi ve ne sia alcuno da cui poter trarre gli stessi vantaggi.

Un nuovo ruolo per il botanico, dunque. Che si stacca dalla sua tradizionale posizione, strettamente legata (come si è detto prima) alla medicina, e viene trascinato verso la sfera dell’economia e del potere politico fino al punto da assumere una funzione molto lontana da quella di partenza.

Le due nazioni in cui l’intesa tra botanica e potere politico ed economico si concretizza in maniera più palese e nello stesso tempo più efficace sono la Francia e l’Inghilterra dove già a partire dalla seconda metà del 600 i naturalisti, e più in generale gli scienziati, si sono costruiti, con la fondazione della Royal Society di Londra (1660) e dell’Académie des Sciences di Parigi (1666), gli strumenti in grado di consentire loro di indagare sulla natura e sulle sue leggi.

In un primo tempo è la Francia di Luigi XIV e di Colbert ad offrire agli scienziati il terreno più adatto per soddisfare le loro esigenze intellettuali. All’Académie des Sciences, che dipende strettamente dalla corona si affianca l’Orto Botanico - Jardin des Plantes - che intorno ai primi decenni del Settecento incomincia a perdere il suo carattere strettamente medico e si trasforma in un centro per lo studio delle piante con una visione più ampia e generale: all’interno di esso vengono infatti avviati studi sulle diverse specie, sui tipi di terreni e di climi più adatti allo loro coltura e sulle norme necessarie per tentare il loro trasferimento e la loro naturalizzazione, sia in patria, sia nei possedimenti d’oltremare.

Già dagli anni Venti vi si compiono, per iniziativa congiunta del sapere scientifico e del potere politico, una serie di esperimenti sul caffè (ricordo che il caffè è originario dell’Etiopia). Tali esperimenti portano come risultato all’invio, avvenuto nel 1723, nelle colonie della Martinica e della Guadalupa di alcune decine di piantine dalle quali discenderà poi buona parte dei milioni di alberi che dai territori francesi d’oltreoceano riforniranno, nel corso di tutto il periodo che va dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento, l’Europa illuminata della sua bevanda più rappresentativa.

E proprio mentre nelle colonie del Nuovo mondo le piantagioni di caffè saranno causa dei più brutali sconvolgimenti per le società e le economie locali e alimenteranno inoltre sempre più prepotentemente il commercio degli schiavi, in Europa le botteghe di caffè diventeranno rapidamente la sede privilegiata delle discussioni, dei dibattiti e delle riunioni degli uomini colti e democratici. A questo riguardo ricordo che la pianta diede il nome anche al periodico riformatore, intitolato appunto “il Caffè”, fondato nella Milano illuminata dell’imperatrice Maria Teresa da Pietro Verri nel 1764.

Aggiungo ancora che l’altra bevanda di origine americana tipica del salotto settecentesco fu il cacao. Anch’esso, come il caffè, fa parte delle piante che non si riuscì a naturalizzare in Europa. Si riuscì però a portarlo in Africa occidentale (che oggi è il maggior produttore). Sia in Africa che in America esso fu coltivato nelle grandi piantagioni dagli schiavi. Il cacao fu utilizzato dagli Europei mescolato ad acqua e latte come bevanda (il cioccolatte) fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando le tecnologie per la preparazione degli alimenti consentirono di consumarlo anche in forma di cibo solido.

Tornando al caffè vorrei aggiungere che esso non trasmigrò solo in America. Fu portato in Asia dagli olandesi, che lo introdussero a Giava e in Shri Lanka. Poi fu la volta degli inglesi che a partire dagli anni Trenta dell’800 deportarono molti lavoratori Tamil dall’India meridionale a Ceylon, con lo scopo di utilizzarli nelle piantagioni di caffè. Questa deportazione fu all’origine di una serie di gravi sconvolgimenti sociali, le cui ripercussioni si sono allungate fino a oggi.

Ma torniamo al Settecento e alla Francia, ossia al nesso tra scienza e trasferimento delle piante. Un momento importante è costituito dagli esperimenti compiuti a partire dagli anni Quaranta direttamente nei possedimenti francesi dell’Oceano Indiano. Gli scienziati attori sono: Pierre Poivre e Philibert Commerson. Lo scopo è quello di trasferire le spezie dall’estremo oriente alle isole mascarene.

Il progetto viene ufficialmente avviato nel 1748 a Ile de France (oggi Mauritius) presso il giardino coloniale appositamente creato. Che in pochi anni diventa il centro di raccolta, selezione e distribuzione delle spezie orientali, e più in particolare dei chiodo di garofano e della noce moscata. Queste piante verranno, dopo gli esperimenti compiuti nel giardino, introdotte nelle colonie francesi di Madascar e a Bourbon (oggi La Reunion).

Tali esperimenti, così incoraggianti dal punto di vista economico e scientifico, si interrompono però quasi subito e non trovano alcun seguito. Il governo francese, che li ha patrocinati, si rende infatti conto di non avere interesse a proseguirli. Gli investimenti in ricerche sulle piante, richiedono, per essere remunerativi, il possesso di dominii coloniali sufficientemente estesi da poter garantire, attraverso le applicazioni delle conoscenze acquisite, un profitto sicuro.

Non è il caso della Francia, che, anzi, sconfitta nella Guerra dei Sette Anni (1754-63), assiste proprio in quegli anni al crollo del suo impero coloniale. La scienza francese è costretta a cambiare direzione e, come vedremo più avanti, a rivolgere altrove i suoi interessi.

Tocca così all’Inghilterra, che esce vittoriosa dalla Guerra dei Sette Anni e che da ora in avanti dominerà incontrastata sugli oceani di tutti i continenti, assumere il ruolo di guida nel campo della ricerca naturalistica. Indubbiamente indicativa della mutata situazione è la nascita nel 1764 dei due giardini botanici inglesi alle isole caraibiche di Saint Vincent e Saint Thomas. Ma ulteriore e più chiaro segnale del cambiamento in corso sono i risultati ottenuti a seguito del primo viaggio intorno al mondo compiuto da James Cook tra il 1768 e il 1771.

A bordo con lui è il naturalista Joseph Banks, che al suo ritorno mette a disposizione del governo inglese le numerose osservazioni compiute nel corso del viaggio, proponendo una serie di fortunate iniziative economiche, tra cui l’allevamento delle pecore merinos in Australia.

E’ sua inoltre la proposta di introdurre l’albero del pane da Tahiti alle colonie inglesi d’America con lo scopo di utilizzarlo come alimento base per gli schiavi neri trasferiti dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di zucchero delle Antille britanniche. Un primo invio di piantine, trasportate sul vascello Bounty, non giungerà però a destinazione; pare anzi che esse siano state la causa dell’ammutinamento dell’equipaggio: per i marinai della nave infatti l’acqua scarseggiava e veniva severamente razionata allo scopo di consentire la sopravvivenza del prezioso carico vegetale conservato nella stiva.

Il progetto di gran lunga più vantaggioso tra tutti quelli ideati da Banks è però quello relativo alla trasformazione dei Giardini Reali di Kew, fondati vicino a Londra dalla principessa Augusta attorno a metà Settecento, da giardini di piacere a centro di ricerca scientifico-botanica.

Lo scopo è quello di avere a disposizione una struttura adatta allo studio e alla coltivazione delle piante vive secondo le nuove metodologie scientifiche messe a punto, come si è visto, dai naturalisti francesi: un centro, in altri termini, in grado di coordinare, sulla base di schemi razionali e programmati, tutti gli esperimenti diretti ad accertare la possibilità di trasferire piante ritenute utili da un continente all’altro dell’impero.

Gli esperimenti compiuti a Kew furono numerosissimi. Essi esulano perlopiù dal campo alimentare, per entrare piuttosto in quello della produzione manifatturiera (tessile e non) o in quello dell’apparato militare. Un caso tuttavia ci interessa direttamente: le conoscenze scientifiche raggiunte attraverso gli studi effettuati a Kew sono infatti all’origine del trasferimento del dalla Cina all’India.

Tale trasferimento fu effettuato dietro iniziativa della Compagnia delle Indie Orientali che si rivolse al botanico Robert Fortune. Fortune non era un naturalista istituzionale, e però derivava le sue conoscenze dal patrimonio scientifico costruito a Kew, sulla base del quale era riuscito a scoprire che la differenza tra tè nero e tè verde non è dovuta, come aveva decretato più di un secolo prima il botanico svedese Carlo Linneo, ad appartenenza a specie distinte, ma a diverso trattamento cui vengono sottoposte le foglie della stessa specie.

L’incarico affidato a Fortune dalla Compagnia di trasferire il tè dalla Cina all’India venne portato a termine con successo nel 1851 con l’arrivo in India attraverso il porto di Hong Kong, divenuto proprio allora britannico, di 2.000 piantine e di 17.000 semi di tè, corredati delle necessarie informazioni relative al loro habitat e inoltre accompagnati da alcuni uomini esperti nella loro coltivazione.

I risultati economici dell’operazione non si fecero attendere: nel giro di qualche anno il tè cinese fu sostituito sulle tavole europee da quello proveniente dalle grandi piantagioni di Darjeeling, Assam e Ceylon. Senza la base scientifica fornita dagli esperimenti effettuati dai botanici il trasferimento non sarebbe potuto avvenire.

La Francia, che, come si è visto, era stata costretta a rinunciare alla ricerca finalizzata al trasferimento di piante da un continente all’altro, non rinunciò tuttavia ad applicare i risultati della ricerca scientifica per incrementare la produzione alimentare all’interno dei propri confini.

Un esempio di tale applicazione ci è fornito dall’attività svolta da Antoine-Augustin Parmentier negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento con lo scopo di avviare e di diffondere sul suolo francese la coltivazione della patata. Ricordo che la patata era giunta in Spagna all’inizio del Cinquecento, ma si era diffusa in Europa soltanto come curiosità, e non come pianta alimentare. Anzi in un primo tempo essa era andata incontro a paure e pregiudizi. Le condizioni ancora per tutto il Seicento non erano favorevoli alla sua diffusione.

Ma la situazione muta nel Settecento, in concomitanza con il forte incremento demografico, che caratterizzò tutta l’Europa di allora, e la conseguente necessità di aumentare le rese della produzione agricola. La patata rispondeva perfettamente alla situazione: aveva una resa di più di 30 quintali per ettaro all’anno contro i 4 del grano.

Ma il vantaggio in termini di rendimento non avrebbe potuto da solo determinare la diffusione della patata. Per tale diffusione fu necessario infatti un apparato scientifico in grado di selezionare le piante, di identificare il clima adatto, e di individuare i suoli più convenienti.

E infine un robusto apparato statale, sufficientemente solido da poter imporre l’introduzione della nuova pianta nella dieta. Parmentier cominciò la sua serie di analisi chimiche nel 1771 e, dopo vari esperimenti, scoprì l’identità dell’amido estratto dalle patate e dal grano. Egli riuscì inoltre a determinare le condizioni climatiche e del suolo più adatte alle patate, scoprendo che le patate crescono nelle situazioni non adatte al grano, e che pertanto esse si integrano con questo, ma non lo sostituiscono.

Dopo vari anni, raccogliendo i fili delle sue ricerche e dei suoi esperimenti, pubblicò un trattato sulla patata contente la descrizione delle diverse varietà, le istruzioni sulla piantagione e la coltivazione, consigli su preparazione, cottura e condimento, ricette per fare il pane con la fecola invece che con la farina.

Dalla Francia la patata passò all’Irlanda, dove divenne la maggior fonte di sostentamento per le masse contadine, tanto da determinare nel periodo che va dalla fine del Settecento alla prima metà dell’Ottocento un aumento vertiginoso della popolazione, che passò da circa 5 a 8 milioni di anime.

Nel corso di questo periodo era ripetutamente avvenuto che il raccolto di patate andasse distrutto. E però si era trattato di episodi circoscritti. Episodi che divennero più frequenti a partire da 1840, sfociarono nel 1845 nella perdita totale dei raccolti. Le piantine di patate furono attaccate improvvisamente e tutte quante sterminate. Al posto delle foglie e dei fiori non rimasero che steli appassiti e nerastri.

Il problema investì ben presto l’intera isola, tanto che nessuna delle varie qualità di tubero utilizzate in Irlanda restò indenne. La causa di tale catastrofe fu individuata in un fungo di origine americana, noto oggi con il nome di peronospora della patata (Phytophthora infestans). Le condizioni delle popolazioni rurali divennero spaventose. A questo riguardo occorre tenere presente che i contratti agrari erano strutturati in modo da costringere il contadino a mangiare patate e a pagare il fitto ai proprietari con altri generi alimentari. 

Di fronte alla carestia il governo inglese inviò in Irlanda una Commissione d’inchiesta, incaricata di fare il punto sulla situazione. Ma il muro eretto dai proprietari terrieri rese impossibile l’attuazione di un programma di intervento. Nel 1846 la violenta invasione di Phytophtora si ripeté: la distruzione del raccolto fu totale, al pari dell’angoscia e della desolazione che ad essa seguirono.

Dopo che per due anni consecutivi il raccolto era andato completamente distrutto, la situazione degenerò e assunse la dimensione di una vera e propria carestia, una catastrofe energetica di immensa portata, forse la più grave della storia europea. Si verificarono sommosse, disordini e tumulti, ai quali seguirono leggi speciali e repressioni.

Il bilancio finale fu la morte per fame e per malattia di più di un milione di individui e un’emigrazione in massa verso l’America che è stata calcolata per gli anni tra il 1847 e il 1854 di oltre un milione e mezzo di persone, molte delle quali perirono per stenti durante la traversata.

A seguito di questa catastrofe gli studiosi delle piante, e più in particolare i fitopatologi hanno dedicato nel corso dei decenni a cavallo tra 800 e 900 moltissima attenzione alla malattia della patata e sono riusciti a mettere a punto varietà molto resistenti. Il problema tuttavia ancora oggi non è del tutto risolto.

L’altra pianta che si estese nell’Europa del Settecento è il mais che a partire dalla fine del secolo, e nel giro di pochi decenni, si affermò come coltura fondamentale nelle campagne dell’Europa centro-meridionale, determinando soprattutto negli Stati balcanici, il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura e contribuendo inoltre al forte aumento della popolazione in Polonia, Ungheria e Stati danubiani.

Intorno alla metà dell’800 esso era diventato per i contadini delle zone più povere la base esclusiva dell’alimentazione, mentre il frumento veniva destinato alla vendita. Queste comunità di contadini poveri iniziarono allora a venir colpite dalla pellagra, nota anche come mal della rosa, una malattia mortale dovuta a carenza di vitamina PP (Pellagra Preventing).

La presenza nel mais di tale vitamina in forma legata richiede, come sappiamo oggi, la necessità di particolari accorgimenti nelle modalità di assunzione del cereale, accorgimenti che, pur noti alle società precolombiane, non erano stati adottati dalle popolazioni europee dell’epoca.

Nell’Italia settentrionale, e più in particolare in Veneto e in Lombardia, dove il mais era stato introdotto a partire dalla fine del Seicento e dove era rapidamente diventato l’unica fonte di sussistenza per la massa dei braccianti e dei coloni, impoveriti dal processo di privatizzazione della terra, la pellagra si diffuse nelle campagne nel corso del 700 e raggiunse la massima diffusione a metà dell’Ottocento: più di 40.000 malati furono contati nel censimento del 1858.

Il nuovo Stato nazionale, appena costituito, non seppe intervenire in alcun modo. Fu così necessario aspettare che la dieta dei contadini si arricchisse (anni Venti e Trenta del Novecento) perché la malattia regredisse e infine scomparisse dal nostro paese. Occorre però tener presente che tale malattia colpisce ancora molte zone del mondo.

d) Da fine Ottocento a oggi. E’ l’epoca che si caratterizza per una massiccia prevalenza dell’intreccio di scienza e denaro. Il centro della nostra storia si sposta dall’Europa agli Stati Uniti. La pianta più interessata è ancora una volta il mais.

Negli Stati Uniti il mais comincia ad essere coltivato a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, quando le innovazioni tecniche consentono la costruzione di aratri sufficientemente robusti e nello stesso tempo maneggevoli da riuscire a estirpare la prateria e sostituirla con grandi piantagioni in parte di frumento e in parte di mais. E’ a cominciare da allora che gli Stati Uniti si sono avviati verso la strada che li ha portati a diventare i primi produttori di mais del mondo. Ma la meccanizzazione dell’agricoltura non è che l’inizio di un nuovo cammino.

Qualche decennio più tardi vengono sperimentate le prime tecniche di ibridazione, che consentono di selezionare, attraverso l’incrocio tra individui recanti ciascuno determinati caratteri ritenuti interessanti, nuovi individui all’interno dei quali tali caratteri si assommano secondo gli obiettivi ricercati. Senza le tecniche di ibridazione la coltura del mais non si sarebbe sviluppata in maniera così estesa negli Stati Uniti.

Apro una parentesi e ricordo che gli Stati Uniti sono oggi il primo produttore mondiale: con più di 150 milioni di tonnellate su un totale mondiale di 500 milioni; vorrei sottolineare inoltre che oggi il mais è diffuso in tutte le zone della terra a clima caldo e temperato: dall’equatore fino al 50° parallelo, dal livello del mare fino a 3000 metri di altitudine, sotto le piogge o in condizioni semiaride, e con cicli di crescita che variano da 3 a 13 mesi. La produzione globale di mais è all’incirca di 500 milioni di tonnellate all’anno con una resa per ettaro che varia da circa 80 quintali per ettaro (nei paesi industrializzati) ai 20 quintali per ettaro dei paesi in via di sviluppo.

Più della metà del mais prodotto è utilizzato direttamente come cibo per gli uomini (in particolare in Africa e in America del Sud). Il resto viene destinato agli animali e, in misura molto inferiore, all’industria, sia alimentare che non, per la produzione di zucchero, sciroppi, bevande, chewing-gum, colle, ecc.

Ma torniamo agli ibridi, che hanno reso possibili i dati appena elencati. La storia scientifica delle ibridazioni comincia a metà Ottocento con le ricerche di Charles Darwin, ricerche che egli descrisse in maniera molto particolareggiata all’amico Asa Gray, un naturalista americano. Fu un allievo di Gray, William Beal, professore all’Università del Michigan, a proseguire il lavoro (siamo alla fine degli anni 70). Ma i risultati dei suoi studi non furono del tutto soddisfacenti.

Il passo successivo fu compiuto da Georg Shull, che era ricercatore in un laboratorio vicino a New York: I risultati delle sue lunghe ricerche, positive sul piano scientifico, si rivelarono però inadatti ad essere applicati sul campo: la produzione di ibridi era ancora troppo costosa.

Fu quindi la volta di Donald Jones, della stazione sperimentale agricola del Connecticut, che negli anni 20 del Novecento riuscì finalmente a mettere a punto, grazie alle conoscenze acquisite a seguito della formulazione da parte di Mendel delle leggi sull’ereditarietà dei caratteri, un metodo utilizzabile e vantaggioso per gli agricoltori.

Gli esperimenti sull’ibridazione di Jones sfociarono nella effettiva realizzazione del mais ibrido coltivabile con notevole vantaggio dal punto di vista della resa. Attraverso una selezione sempre più accurata, consentita da investimenti in denaro sempre più cospicui, fu possibile produrre varietà di mais ad altissima resa e adatte inoltre alle zone climatiche più disparate.

Si incorporarono poi speciali caratteristiche, come la resistenza alle malattie e la tolleranza alla siccità; e si svilupparono piante in grado non solo di produrre due o tre pannocchie invece di una, ma nelle quali (piante) le pannocchie si trovavano sistemate sul fusto in modo uniforme allo scopo di agevolare la raccolta meccanizzata. Il prodotto naturale fu così trasformato in un artefatto risultante dall’applicazione delle leggi sull’ibridazione e sulla selezione a fini di profitto.

L’affermazione sul campo del mais ibrido è iniziata nel 1935 (anno in cui solo l’1% del mais prodotto negli Stati Uniti era ibrido). Oggi tutto il mais prodotto negli Stati Uniti e nei paesi industrializzati è ibrido. Anche in America latina il mais ibrido sta gradualmente prevalendo su quello originario, con grande incremento nella resa. E però con il rischio di aprire il problema del l’impoverimento dal punto di vista della biodiversità.

Una accelerazione e una estensione nella selezione dei caratteri vantaggiosi sono state rese possibili negli ultimi decenni con lo sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti, del settore della biologia molecolare. Infatti, mentre gli ibridi possono essere ottenuti soltanto all’interno della stessa specie e dopo lunghi e ripetuti tentativi che si prolungano per anni e anni, con le tecniche molecolari è diventato possibile trasferire in tempi brevi materiale genetico addirittura da una specie all’altra. Anche fra specie lontane, perfino tra animali e piante.

La biologia molecolare rende virtualmente possibile il trasferimento di piante di mais (o anche di altre specie) in ogni zona della Terra: è sufficiente infatti corredare una data specie vegetale, dei geni prelevati da un’altra specie vegetale o anche animale, geni in grado di rendere la prima specie resistente al gelo, o alla siccità, o alla mancanza di luce, o a un tipo di suolo piuttosto che a un altro, ecc...

La biologia molecolare, meglio nota con il termine di bio-tecnologie o ingegneria genetica, è diventata un affare, un business, di grande importanza dal punto di vista dei profitti. E’ molto difficile valutare le future conseguenze della ricerca transgenica dal punto di vista tecnico-scientifico-biologico.Tanto più per chi non è esperto. Dunque non ne parlerò. Non è qui la sede.

E però, prima di concludere, vorrei accennare almeno a una questione: al di là delle problematiche tecnico-scientifiche riservate agli esperti, esistono aspetti sui quali ognuno di noi può provare a riflettere e a farsi un’opinione. A tale proposito desidero accennare ad alcuni punti che suscitano parecchi interrogativi.

In primo luogo ricordo, a maggior chiarimento, che le ricerche nel campo della ibridazione, delle quali ho parlato più sopra, erano state effettuate all’interno di istituzioni pubbliche (laboratori, centri, università, ecc.), sostenute e finanziate dalla collettività. Tali ricerche erano di conseguenza collegate con i bisogni e con le richieste della collettività, che veniva inoltre informata dei risultati scientifici man mano raggiunti.

Le indagini e gli esperimenti nel campo delle biotecnologie agricole e sanitarie sono invece nelle mani di pochissimi privati: le multinazionali, 15 in tutto, delle quali 13 americane, che investono migliaia di dollari in ricerche orientate alla produzione di organismi geneticamente modificati con lo scopo di incrementare i loro profitti.

Tali aziende non hanno alcun obbligo di pubblicare e di diffondere i risultati delle loro ricerche. Esse hanno pertanto hanno rescisso ogni legame con la collettività e con le sue esigenze. Ma non solo: grazie al loro potere economico, esse riescono ad assicurarsi l’appoggio del potere politico che rischia così di trasformarsi (quando non si trasforma) in porta-parola dei loro privati interessi commerciali.

In questo modo lo sviluppo delle biotecnolgie, che pure potrebbe contribuire al benessere collettivo, potrebbe rischiare di orientarsi verso un rafforzamento del potere industriale, concorrendo così ad aumentare il divario tra Nord e Sud del mondo.

Aggiungo ancora che le multinazionali impegnate nella biotecnologia, possono, allo scopo di tutelare le loro invenzioni, brevettarle, trasformando così la pianta (un bene di tutti, secondo le parole delle Nazioni Unite) in una merce di loro esclusiva proprietà e costringere di conseguenza gli agricoltori a dover dipendere dalla singola multinazionale che detiene il brevetto, per procurasi ogni anno la semente.

Come è stato detto dallo studioso di storia dell’agricoltura americano Jack R. Kloppenburg, il seme passa così dall’essere prodotto e mezzo di produzione, all’essere solamente prodotto: l’agricoltore, in altre parole, viene privato del mezzo di produzione in quanto deve comprare il seme dalla multinazionale che ne detiene la proprietà e gli resta solo il prodotto (il raccolto).

Mi fermerei qui per ora e inviterei a riflettere su come lo sviluppo delle biotecnologie sollevi importanti questioni di ordine economico e politico, e faccia emergere con chiarezza il conflitto tra libertà del potere economico da un lato e controllo da parte del potere politico dall'altro, soprattutto per quanto riguarda gli interessi privati nel campo dell’alimentazione mondiale e della salute, due campi che dovrebbero restare nel dominio del potere pubblico.

E la preponderanza, che può realizzarsi in alcuni casi, degli interessi privati rispetto al controllo politico potrebbe essere la base di partenza per avviare la comprensione delle dinamiche che sottostanno a determinate scelte scientifiche piuttosto che ad altre.

Stampa pagina


Home | La Geografia | Risorse energetiche | Sviluppo-Sottosviluppo | Sviluppo sostenibile | Carte geografiche | Piante trasmigrate | Il riso | Fonti | Ricerche
I contenuti di questo ipertesto sono della docente
Agnese Visconti - SILSIS - Università di Pavia
 Per problemi o domande su questo sito contattare Galarico
Questo ipertesto si trova nella sezione di Economia del sito Homolaicus
Ultimo aggiornamento: 25-giu-2005