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FINO A CHE PUNTO LA POESIA E' ROMPACAZ E' IRONICA?

E’ rompacaz

T’è tnù impedì e’ passag pr’un dopmezdé
cun la zenta a bèch dret alé d’atónd…
E’ mi Fafìn, cs’èl, t’ci dvantè mat?
butét da la finestra própi òz!
E’ Corpusdomini l’è férum sotta e’ sol
la màchina de’ Cont la n’ po’ passè.

Il guastafeste

Hai bloccato il traffico per un pomeriggio / con la gente a becco in su lì attorno… / Caro Fafìn, ma dico, sei diventato matto! / buttarti dalla finestra proprio oggi! / Il Corpus Domini è fermo sotto il sole / la macchina del conte non può passare.

Su oltre duecento poesie della sua opera omnia (incluse Le ultime), edite dal Ponte Vecchio, Walter Galli ne ha dedicate una trentina al tema della religione, diluendole dalla prima all’ultima silloge. Non si può dunque dire che l’argomento non lo interessasse.

Tuttavia è difficile vedere una sorta di evoluzione nel suo pensiero, in quanto si ha la percezione ch’egli avesse le idee ben chiare sin dall’inizio. La chiesa per lui è un’istituzione di potere che si serve, per sopravvivere, di forme superstiziose del credere umano. E quando lui sembra accondiscendere a tali forme, lo fa sempre con ironia, mostrando di credervi solo fino a un certo punto o solo per mostrare, di quelle forme, le loro interne antinomie.

Galli è uno che concede molto poco alle illusioni, da qualunque parte esse vengano, e alla fede religiosa non riserva un trattamento di favore. Non vede la religione come un’esigenza vera dei poveri, ma come un’esigenza falsa dei ricchi, che vogliono far credere ai poveri che sia un’esigenza vera. Detto banalmente.

Questo ci pare evidente sin dalla prima lirica su questo tema: E’ rompacaz (1960), che nella versione originaria, di almeno cinque anni prima, aveva intitolato, più genericamente e, se vogliamo, più educatamente, E’ disturb (cosa strana, perché in genere il Galli dell’opera omnia è, almeno rispetto alle versioni precedenti di alcune sue poesie trovate nel suo archivio, più politicamente corretto).

Un certo Fafìn (e l’episodio è vero) decise d’ammazzarsi proprio durante la processione del Corpus Domini, che si festeggia a giugno, nel centro storico di Cesena, partendo generalmente dal Duomo e ritornandovi.(1)

Sia la gente comune che quella altolocata è rimasta ovviamente scossa, ma Galli, approfittando dell’occasione, insinua ch’essa era più che altro infastidita dal fatto che il suicidio aveva interrotto un rito religioso e bloccato il traffico, in particolare il percorso dell’auto (sicuramente ben riconoscibile) del Conte, scritto con la maiuscola.

Molto interessante, in questa lirica, è cercare di capire chi stia parlando e quale sia il suo angolo di visuale. Certo non può essere uno che seguiva la processione, nel qual caso avrebbe evitato di fare dell’ironia, a meno che non vi partecipasse in maniera del tutto formale, senza credere più di tanto nel significato di quel rito.

Si può però intuire che Galli conoscesse bene il suicida (è tenero con lui quando usa l’espressione “E’ mi Fafìn”) e, pur non condividendo il gesto, implicitamente lo ammira per la sua carica eversiva, come fosse un bonzo che si brucia per protestare contro qualcosa. Aveva scelto di suicidarsi proprio in quel giorno, proprio in quel momento, affinché tutti lo vedessero.

E Galli sembra rimproverarlo, con fare bonario, pacioso, per aver disturbato l’ordine pubblico, civile e religioso, e mentre fa questo lo ammira per il coraggio, per l’iniziativa insolita, fuori del comune, perché in pieno centro: non aveva scelto di buttarsi sotto un treno o dal Ponte Vecchio, in solitudine.

Questa forma d’ironia, in cui si dice una cosa per dirne un’altra, è una figura retorica ricorrente nel corpus galliano. E non è un’ironia banale, che vuol suscitare un sorriso compiaciuto per il paradosso che crea, ma è un’ironia metaforica, anzi metafisica, che rimanda a una certa weltanschauung, sicuramente ben poco religiosa, ma non per questo cinica, benché all’apparenza lo sembri.

Le poesie di Galli son come delle matrioske: aperta una bambolina, ne scopri un’altra. L’ironia infatti è amara, proprio perché mentre lo rimprovera d’aver compiuto una cosa plateale, dimostrativa e, in fondo, un po’ egocentrica, si sta chiedendo cosa lui avrebbe potuto fare per impedirlo, lui che non può eticamente condividere quel gesto, anche se può fargli un occhiolino ammiccante sul piano politico.

Non è come se gli avesse detto: “Proprio oggi dovevi ammazzarti? Non potevi farlo ieri o domani?”. Galli sa che con lui poteva fare battute di spirito, anche ora che s’immagina di rivederlo nella sua fantasia, o comunque sa che la cultura proletaria della Valdoca permetteva d’essere ironici anche nelle situazioni più tragiche, senza per questo rischiare d’apparire offensivi, cinici; per cui insomma è come se gli avesse detto: “Perché l’hai fatto? Era così grave la situazione? Non c’era davvero nessun rimedio?”.

Galli stava parlando tra sé ma come se Fafìn (diminutivo di Giuseppe) gli stesse di fronte, e usa con lui l’ironia abituale delle loro conversazioni (così tipica, peraltro, nel parlato dialettale, che è anche teatrale per sua natura), proprio per fargli capire il suo dolore, perché tra persone semplici ci si comprende facilmente, non si usano giri di parole, non si fa della diplomazia, si è soltanto umanamente solidali, profondamente amici.

Galli cioè sta parlando come se fosse un suo amico di vecchia data, anzi come una sorta di fratello maggiore, più esperto di lui delle cose di mondo, che ironizza sul rito religioso improvvisamente interrotto e sul contrattempo dell’aristocratico cesenate, per ridere insieme a lui, ma, allo stesso tempo – ed è qui la vera novità della poesia galliana – per piangere sul gesto disperato di un compaesano che sentiva vicino.

La parte più tenera delle sue poesie è la più nascosta e non la si coglie se, a motivo del loro carattere epigrammatico, ci si limita a una lettura frettolosa.

Nota

(1) Nella versione originaria, pubblicata su “Il Nuovo Belli” (n. 1/1960), Galli aveva lasciato la processione senza nome, limitandosi a dire che era una domenica. Altre variazioni, rispetto alla versione definitiva, stanno nella durata della tragedia: “due-tre ore” e non “per un pomeriggio”, e nella reazione della gente, che, invece di “spingere intorno”, si limita a stare “a becco in su lì attorno”, guardando cioè il punto da dove s’era buttato.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte - Cesena - Storia - Poeti - Galli
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Aggiornamento: 06/11/2012