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CHE COSA SIGNIFICA ESSERE DONNA?
E' possibile valorizzare la donna come donna, oltre che come madre, moglie, lavoratrice, cittadina ecc.? Qui lo specifico della donna dovrebbe avere una connotazione metafisica, poiché non ha senso pensare che dall'uguaglianza dei diritti possa scaturire una cultura al femminile. L'uguaglianza giuridica può contribuire al formarsi di questa cultura, ma non può determinarla. Il processo è speculativo ed esso deve riflettere un'esigenza ontologica di fondo, essenziale. Non può esistere qualcosa che possa impedire alla donna di essere donna: bisognerebbe distruggere l'intero genere umano. Può esistere qualcosa che possa impedirle d'essere madre, moglie, lavoratrice, cittadina..., ma l'essere-donna è costitutivo della natura femminile, che a sua volta fa parte della natura umana. La donna dovrebbe avere coscienza di questa sua diversità-originalità anche dopo aver ottenuto asili-nido, buoni contratti di lavoro, promozioni e carriere. Essere-donna infatti significa esserlo sempre, anche quando non si è o non si è più madre, moglie, lavoratrice... L'essere lavoratrice o cittadina non aiuta la donna a sentirsi diversa dall'uomo, come la natura stessa le impone. Il problema quindi non è solo quello di salvaguardare i diritti acquisiti delle donne, di non creare discriminazioni sessiste, ma anche quello di tutelare questa particolare "ricchezza", di cui gli uomini si rendono scarsamente conto, e in forza della quale le donne dovrebbero rivendicare maggiori prerogative e opportunità. Una donna non solo deve pretendere d'essere considerata uguale all'uomo (per avere gli stessi diritti), ma può pretendere d'essere considerata anche diversa dall'uomo, per poter usufruire di quei particolari diritti che suppliscono allo svantaggio determinato dalla sua costituzione fisica. In tal senso, il principio che afferma: "A uguale lavoro, uguale salario", se poteva andar bene quando le donne, "a uguale lavoro", percepivano un salario inferiore a quello degli uomini, oggi potrebbe avere un qualche valore solo nell'ambito di un medesimo sesso. Infatti, là dove i sessi interagiscono, sarebbe meglio sostituirlo con un principio ancora più democratico: "A uguale lavoro, maggiore salario alla donna". Dal canto loro le donne non dovrebbero vedere in questo principio un modo subdolo, larvato, di evidenziare negativamente la differenza fisica dei sessi. La differenza esiste, non l'ha inventata l'uomo, e pretendere che non se ne tenga conto, al fine di dimostrare che la "perfetta uguaglianza" è possibile, significa fare un favore all'uomo. L'uguaglianza, certo, è possibile, ma lo è soprattutto se si valorizza positivamente la diversità.
La sessualità è una funzione primaria dell'individuo, poiché la riproduzione è una pulsione molto forte: è come se la natura avesse fatto in modo di garantire all'essere umano la sopravvivenza più sicura. Senza un'agevole riproducibilità l'essere umano rischierebbe di scomparire, come altre specie animali. La riproduzione fisiologica è la prima forma di soddisfazione umana, quella più immediata e naturale, in un corpo sessualmente maturo. Ecco perché intorno alla sessualità si muovono degli aspetti extrasessuali, come l'affettività e l'amore. Non è detto, tuttavia, che la riproduzione fisiologica sia la più significativa per la vita di una persona. Esistono infatti altre forme di riproducibilità non meno gratificanti: quella artistica o intellettuale, quella scientifica o tecnologica... Queste sono forme che, sulla base del loro valore, possono comportare sentimenti di gratitudine e riconoscenza molto più lunghi, nel tempo, di quelli della pura e semplice riproduzione fisica.
Indubbiamente la donna ha un diverso equilibrio rispetto all'uomo, cioè ha un equilibrio nell'ambito delle possibilità che la natura ha previsto per l'essere umano. Queste possibilità non sono infinite. Oltre un certo limite, infatti, si perde l'umanità. Quest'ultima può essere più o meno grande, più o meno sviluppata, ma essa resta tipica dell'essere umano. E' una caratteristica peculiare di un ente specifico. Nessun animale può essere considerato "umano". Nessun "sentimento animale" è frutto di coscienza e libertà. Si tratta sempre e in ogni caso di aspetti meramente istintuali. Che gli animali possano avere sentimenti simili a quelli umani, sentimenti positivi, come p.es. la protezione della prole, sta semplicemente a significare che la natura in sé è costruttiva, creativa, e non indifferente al bene e al male. Noi riteniamo che la natura sia "positiva" perché applichiamo al concetto di "bene" un criterio etico di tipo umano. Ma il "bene" è un concetto ontologico, che supera i limiti contingenti dell'etica. La natura ha un proprio equilibrio da rispettare, che è, rispetto a quello umano, più primordiale. In tal senso considerare l'essere umano un ente "naturale" è limitativo. Coscienza e libertà sono aspetti "sovrannaturali", che la natura non conosce. D'altra parte noi non possiamo attribuire alla natura il suo carattere "naturale" partendo dal punto di vista dell'essere umano. La natura non è "naturale" solo perché è "naturale" l'uomo. Nella natura vi sono aspetti del tutto irrilevanti rispetto all'umanità dell'uomo. Esattamente come nell'umanità dell'uomo possono trovarsi aspetti del tutto innaturali, che la natura non potrebbe mai conoscere, non essendo dotata di coscienza e libertà, e che noi possiamo ritenere, seppure in negativo, segni della sovrannaturalità dell'essere umano. Insomma è difficile pensare che la generazione degli esseri umani sia stata il prodotto di una partenogenesi da parte della Terra. Deve per forza esserci stato un intervento esterno che ad un certo punto ha condizionato la nascita di un elemento che dal punto di vista naturale non poteva essere previsto.
L'essere umano è qualcosa di superiore sia al singolo uomo che alla singola donna. Uomo e donna possono partecipare singolarmente all'essere umano, ma se in questa partecipazione avvertono l'altrui persona solo come "diversa" da sé e non anche come "simile", essi vi parteciperanno in maniera limitata, parziale, riduttiva. Cioè a dire, non c'è alcun bisogno che l'uomo e la donna vivano una vita in comune (ad es. da coniugi) perché possano sentirsi coinvolti nella realtà dell'essere umano, nelle sue esigenze e nella sua natura più profonda. L'essere umano è un ideale di vita cui ogni uomo e ogni donna deve tendere. La specificità del maschile, al cospetto dell'essere umano, non può accampare pretese maggiori di quella del femminile. La differenza sessuale non favorisce né svantaggia la possibilità della pienezza dell'umano. L'essere umano non solo non appartiene più al maschile e meno al femminile, ma non è neppure una sintesi dei due elementi, come non lo è un "figlio" rispetto ai propri "genitori". L'essere umano è piuttosto un'identità che precede la differenza, anzi che la prevede. La possibilità della differenza non pregiudica in alcun modo l'identità. La differenza è dentro l'identità, sia nel senso che l'identità la produce, sia nel senso che attraverso la differenza l'identità recupera se stessa. Ecco perché il maschile non rimanda all'essere umano più di quanto non faccia il femminile. Il femminile non si costituisce in rapporto al maschile, a meno che non si voglia sostenere anche il contrario. Tuttavia, questo reciproco affermarsi rischierebbe di portare al relativismo, in quanto i concetti di "maschile" e "femminile" sono fenomenologici. L'unico vero concetto ontologico è quello di "essere umano". Si potrebbe quindi dire che il femminile non va rapportato al maschile più di quanto non debba essere rapportato all'umano, poiché lo stesso maschile non coincide strettamente coll'umano. L'umano non è semplicemente l'unità di maschile e femminile, è anche la fonte da cui scaturiscono entrambi. Il maschile infatti si trasforma in "maschilismo" non tanto quando prevarica sul femminile, quando piuttosto prevarica sull'umano. Se il maschile si allontana dall'umano, esso tenderà sempre a dominare il femminile. Stessa cosa vale naturalmente per il femminile, anche se qui la differenza nella costituzione fisica comporta una maggiore difficoltà da parte della donna e quindi una minore responsabilità rispetto all'uomo, almeno fino a quando la società patriarcale si servirà di tale differenza per tenere la donna sottomessa. Tuttavia, la donna non avrà mai una pari responsabilità, rispetto all'uomo, nella determinazione del "male sociale", neppure quando esisterà una sostanziale uguaglianza sociale, politica e culturale. Essendo l'uomo (come genere maschile) più fisicamente dotato, la responsabilità maggiore -nel giudizio della storia- sarà fatta ricadere su di lui (non ovviamente in senso individuale ma in senso generale), mentre la più piccola offesa contro il genere femminile dovrà sempre essere considerata con maggiore preoccupazione. Non ci può essere vera uguaglianza se non c'è una vera consapevolezza della diversità: è proprio in virtù di questa consapevolezza che può maturare una diversa assunzione di responsabilità. Ecco perché bisogna riconoscere che nella determinazione del "bene sociale" i meriti delle donne sono spesso enormemente superiori a quelli degli uomini, soprattutto nelle società antagonistiche, dove agli uomini fanno difetto i sentimenti di pietà, di compassione e altre forme di sensibilità umana. NON LASCIARSI CONDIZIONARE NEGATIVAMENTE
E' duro per una donna non lasciarsi condizionare negativamente dall'uomo in una società maschilista. E' inevitabile ch'essa viva di riflesso, alle dipendenze dei comportamenti e dei giudizi che hanno gli uomini, su di lei o in generale. Se gli uomini fossero donne, con l'odierna mentalità maschilista, non accetterebbero tanto facilmente questa dipendenza. La donna è costretta a sentirsi schiava anche quando non viene trattata espressamente così: è la cultura dominante che la rende tale, che la vuol far sentire un essere debole, bisognoso di cure e protezione, incapace di comprendere tutti i complicati meccanismi sociali e politici inventati dall'uomo. Anche quando cerca d'emanciparsi da questa sudditanza, la donna non fa che imitare i modelli maschili. Persino quando cerca d'essere "bella", fa molta fatica a capire sino a che punto lo fa davvero per se stessa o non per fare un piacere all'uomo. Se si mettesse alla prova, rinunciando all'estetica, capirebbe subito che questa scienza è stata inventata dall'uomo per un proprio tornaconto. Questa cosa è trasversale a tutte le culture e religioni della storia. I capelli lunghi e sciolti, gli occhi truccati, le labbra dipinte, il seno prosperoso, le gambe scoperte, le caviglie sottili, la danza del ventre, i tacchi alti, i gioielli...: tutto fa parte di un'estetica femminile che l'uomo ha imposto alla donna. Questo perché la donna viene vista come "oggetto del desiderio", come una cosa da usare, da possedere e persino da sfruttare. Questa prerogativa maschile, anche quando nella fattispecie dei casi singoli non viene utilizzata, la si dà comunque per scontata. Sicché si pensa che, in caso di necessità, la si potrebbe tranquillamente far valere. E' appunto la cultura dominante che lo permette e che fa considerare questa prerogativa come un privilegio esclusivamente maschile. Anche nel caso in cui guidasse politicamente una nazione, la donna verrebbe sempre vista come un essere inferiore, che occupa quel posto per colpa delle rivalità tra gli uomini, e che può esercitare quella funzione solo in via transitoria, temporanea, finché appunto gli uomini non decidono diversamente. Poste tali condizioni, una donna non può non chiedersi cosa sarebbe di lei, se non accettasse di soddisfare i desideri dell'uomo. Forse si aprirebbero scenari preoccupanti per la sua sorte. D'altra parte non può esimersi dal riflettere sul fatto che sono circa 6000 anni ch'essa subisce questo trattamento degradante. Dovrebbe rendersi conto che non ha più nulla da perdere. Le transizioni storiche da una formazione sociale all'altra hanno mutato la condizione dell'uomo, ma quella donna, in ultima istanza, è rimasta la stessa: la donna vive in funzione dell'uomo e non è in grado di pretendere una parità di genere. Non c'è reciprocità nelle funzioni, nei ruoli, nei diritti. La cultura è rimasta maschilista, in quanto basata sullo sfruttamento della natura e del lavoro altrui, e in questa logica dello sfruttamento la donna rappresenta una delle componenti deboli, equiparata, in un certo senso, ai bambini e agli anziani. Di fronte a questo stato di cose la donna sembra non avere gli strumenti per poter reagire. Di sicuro non ha senso che lo faccia in maniera individualistica, poiché, in tal caso, non uscire dai limiti del maschilismo. Deve darsi delle forme associative, basate sulla differenza di genere. Non potrà mai sapere chi essa è, se non parte dal presupposto che la cultura dominante, frutto di rapporti sociali antagonistici, va profondamente democratizzata. Nel momento stesso in cui chiede questa trasformazione della cultura, deve chiedere anche una profonda modificazione degli attuali criteri di vita, all'interno dei quali essa ha sempre un motivo in più per sentirsi discriminata e offesa proprio in quanto "donna". |