SETTIMO: NON RUBARE
[ I ]
Se si chiedesse a un cittadino un po' attento alle res ecclesiae, sulla base di ciò che ha appreso dai media, quali sono state le novità introdotte dal recente Catechismo (universale) della Chiesa Cattolica (CCC)(1) in merito al comandamento di "non rubare", egli probabilmente risponderebbe che la chiesa (finalmente!) considera un "furto" anche l'evasione fiscale, la concussione, la corruzione, la speculazione, la frode, l'aggiotaggio e così via. Egli cioè direbbe che per la chiesa il verbo "rubare" va inteso nel senso più vasto possibile, perché così appare in quello stile di vita che ritiene il "furto" un male inevitabile, una caratteristica imprescindibile dei nostri tempi. Per far capire bene ai cittadini quanto tutto ciò sia "moralmente illecito", benché spesso legalmente tollerato, secondo la chiesa non è più sufficiente dire "siate onesti", "praticate l'amore" ecc. (cose in cui si crede sempre meno), ma bisogna declinare nel dettaglio le situazioni di "peccato", cercando di convincere i cittadini che al suo giudizio nulla sfugge.
Dopodiché questo comune cittadino aggiungerebbe, un po' sconsolato: "La chiesa ha scoperto l'acqua calda. Ora che ha capito che la logica del sistema -quella del profitto, dell'interesse, della rapina- ci coinvolge fin nel midollo delle nostra ossa; ora che ha condannato, nei particolari, il criterio dominante del nostro Paese, della nostra Europa, del mondo occidentale e forse dell'intero pianeta, che cosa cambia? Quali soluzioni essa ha da proporre?".
Ebbene, questo cittadino non potrebbe certo sperare di trovarle nelle informazioni fornite dai media, che sono i primi a non credere nelle proposte del CCC. Al giornalista, generalmente, non interessa altro che mettere a profitto la novità del giorno. Il suo è un curioso mestiere: non gli permette di vivere di vita propria (in senso etico, ma, a ben guardare, anche economico), come può accadere quando in una data esperienza emerge qualcuno che la racconta, diventando così giornalista di se stesso o della sua comunità di vita; ma lo costringe a vivere di riflesso, ovvero alle dipendenze da ciò che gli altri fanno o dicono. Ecco perché passa gran parte della sua giornata attaccato al telefono (le "fonti", sparse qua e là, lo contattano così) o a bighellonare con fare curioso e impertinente in quegli ambienti dove qualcuno ha detto che è accaduto qualcosa, oppure ad annoiarsi in quegli incontri di vertice che devono essere comunque registrati anche se vi si dicono le solite banalità.
Raramente s'incontra un giornalista capace di servirsi di ciò che personalmente vede o sente (o da altri gli viene riferito) per contribuire a modificare al meglio le situazioni difficili, complesse, contraddittorie. Spesso infatti li sentiamo dire, in coro: "Più di tanto noi non possiamo fare. Non siamo noi ad avere il potere politico". E così, aiutato da questo pretesto, il giornalista si limita a riportare la semplice notizia: "La chiesa ha esteso il furto a...ecc.ecc.".
A questo punto il comune cittadino reagisce sentendosi ancora più frustrato: da un lato, infatti, sente affermare delle verità che già conosceva; dall'altro è convinto che nessuno le metterà in pratica, proprio perché sa, per esperienza, che i puri e semplici richiami alla coscienza non servono a nulla. Anzi, comincia a sospettare che quanto più questi richiami si radicalizzano, quanto più cioè essi intendono colpire atteggiamenti spesso abituali, inevitabili (per la professione che si esercita), involontari, indipendenti dalla nostra volontà, tanto meno vi sarà qualcuno disposto ad ascoltarli, poiché a nessuno piace essere giudicato senza che, nel contempo, gli si offra una via d'uscita.
Tutti noi ricordiamo quando alcuni contrabbandieri del sud erano disposti ad autodenunciarsi se lo Stato avesse offerto loro una qualunque occupazione che permettesse di mantenere le loro famiglie. Ma lo Stato cosa ha risposto? "Come! da una vita rubate e adesso pretendete d'essere considerati degli onesti cittadini! Pretendete un lavoro quando vi sono migliaia di persone (anzi milioni) che, pur non rubando come voi, non riescono a trovare niente!". Già, non lo sapevano i contrabbandieri che in Italia il lavoro non è un diritto ma un privilegio? Come potevano sperare di barattare il loro lavoro "nero", clandestino, con un lusso per pochi? Non sapevano che lo Stato, con la sua faccia di bronzo, da un lato dice d'essere fondato sul lavoro e dall'altro si meraviglia che un disoccupato faccia di tutto per sopravvivere?
Ma il comune cittadino queste cose le sa da un pezzo: le vede tutti i giorni con i suoi occhi (e non alla televisione). Forse però non sa con altrettanta sicurezza che le medesime cose vengono predicate, seppure con sfumature più moraleggianti, da quella istituzione bimillenaria che si fa chiamare "chiesa", cioè "ecclesia", cioè "comunità", e che da sempre pretende di dire parole "diverse" da quelle degli Stati politici.
Questo comune cittadino non può essere aiutato nella sua sana curiosità dai media del mondo laico, perché ad essi non interessa minimamente l'ideologia ecclesiale, né può esserlo dai media del mondo cattolico, poiché essi, non avendo alcun atteggiamento critico nei confronti dei testi ufficiali del Vaticano, non fanno che assumere un atteggiamento apologetico.
Non gli resta dunque che andare direttamente alla "fonte" e, senza stare a leggersi le oltre 700 pp. di quel "mattone", puntare sul capitolo che più gli preme, sperando di cavarci qualcosa che possa soddisfare il suo legittimo desiderio di conoscere le modalità con cui rispettare e far rispettare il 7° comandamento.
Prima di procedere è però bene precisare che queste riflessioni servono soltanto per aiutare il cittadino comune a iniziare un percorso di lettura che dovrà poi concludere sulle proprie gambe. Esse non vogliono avere l'impostazione rigorosa di quegli eruditi credenti che fanno continue citazioni e rimandi a fonti bibliche, conciliari, magisteriali ecc. Essendo di natura laica, la nostra impostazione, nell'esame dei testi ecclesiastici, si limita a cogliere l'essenziale, in riferimento soprattutto alle esigenze della società contemporanea.
* * *
Passiamo ora all'art. 7 del CCC (parte terza, sez. seconda). Già dall'inizio si può costatare una incredibile svista esegetica, che si può spiegare solo pensando all'impianto estremamente conservatore che sorregge tutta l'opera. L'Autore (chiamiamolo così, anche se il CCC è frutto di un lavoro collettivo, con il placet di papa Wojtyla: in particolare della commissione di cardinali e vescovi presieduta dal card. J. Ratzinger e del comitato di redazione, i cui membri, scelti con cura, sono nemici giurati della teologia della liberazione. Chi volesse conoscerne i nomi può leggersi La fede a senso unico? di G. Zizola, in "Rocca", 1/8/92) - l'Autore, si diceva, del tutto disinteressato a un'analisi contestuale del divieto mosaico di "non rubare"(Es 20,15 e Dt 5,19), tende a porlo sullo stesso piano di quel comandamento dell'amore che è l'insegnamento del Nuovo Testamento e soprattutto dei Vangeli, dandone la seguente interpretazione: la legge mosaica, come quella evangelica, prevedono due cose: la destinazione universale dei beni e il diritto di proprietà privata (2401).
Ora, anche un esegeta principiante, che avesse un po' di dimestichezza con le coordinate spazio-temporali della storia (e di quella ebraica in particolare), sa con certezza che ai tempi di Mosè (o comunque in tutto il mondo ebraico sino a Cristo: fanno eccezione alcuni profeti), il divieto di "non rubare" aveva una validità solo entro i confini etnico-nazionalistici dello stesso popolo ebraico e non nei confronti dei pagani o dei gentili, verso i quali, anzi, ogni sorta di frode economica era tollerata (p.es. l'usura). Il "forestiero" veniva tollerato solo in quanto "ospite" e sempre nella speranza che diventasse "ebreo" (Es 22,20).
Mosè inoltre (o chi per lui) aveva posto il divieto non per superare il sistema economico antagonistico basato sulla proprietà privata, ma per cercare di contenerne gli effetti negativi. Egli non metteva in discussione la presenza di poveri, schiavi e salariati, però, tanto per fare un esempio, chiedeva al "ricco" di lasciarsi derubare del superfluo (Lv 19,9) e di pagare in tempo i lavoratori (Lv 19,13).
Viceversa, negli Atti degli apostoli Luca afferma che una delle preoccupazioni principali delle prime comunità cristiane era proprio quella di abolire, al loro interno, il concetto di "proprietà privata", sostituendolo con quello della "proprietà sociale" o "collettiva". "Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò ch'era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno"(4,34s.). Chi cercava di fare il furbo, come ad es. Anania e Saffira, finiva male (At 5,1ss.).
La destinazione universale dei beni non era una pia intenzione, ma una prassi concreta, anche se col tempo essa incontrerà dei limiti invalicabili, non superando i quali la comunità cristiana perderà il suo primitivo radicalismo, come spesso succede quando si vuol vivere un'esperienza "comunitaria" senza mettere politicamente in discussione le istituzione di potere, cioè si finisce col cadere nell'utopia e tradire gli ideali originari. La stessa interpretazione che la chiesa dà di At. 4,32 riflette questo tradimento: riprendendo un passo del Catechismo Romano, il CCC afferma che la proprietà comune serviva soltanto "a sollevare la miserie dei fratelli più poveri"(952). In realtà non solo la "legge" evangelica ma neppure quella mosaica hanno mai pensato, per motivi diversi, di poter conciliare, nella realtà, la destinazione universale dei beni con la proprietà privata.
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Ma la cosa più singolare è un'altra. La chiesa cattolica non ha difficoltà ad ammettere che "all'inizio" della storia del genere umano la terra, con le sue risorse, era stata affidata (da "Dio", naturalmente) all'uomo per una "gestione comune" e perché "la dominasse [brutta parola!] con il suo lavoro"(2402).
"Tuttavia" -prosegue l'Autore, che con questo semplice "tuttavia" lascia trapelare la grande difficoltà che la chiesa cattolica ha nel credere nei suoi propri ideali- "la terra è suddivisa tra gli uomini, perché sia garantita la sicurezza della loro vita, esposta alla precarietà e minacciata dalla violenza"(2402). L'Autore qui non si chiede come si sia passati dall'Eden del comunismo primitivo alla "violenza" dei regimi antagonistici ove l'uomo è homini lupus. Egli, usando il tempo presente, si limita a costatare il passaggio negativo e, quel che è peggio, si sforza anche di giustificarlo.
Il suo ragionamento, in sostanza, è il seguente: l'ideale è sì il comunismo, ma la realtà è l'individualismo; nell'individualismo gli uomini diventano violenti, oltre che deboli nei confronti della natura; il loro desiderio, al fine di tutelarsi, è quello di possedere una proprietà privata; solo quando l'hanno acquisita cessa la loro violenza.
Dunque, perché la chiesa non crede nella possibilità di ripristinare lo "spirito" del comunismo primitivo? Semplicemente perché ritiene l'uomo incline al male, necessariamente egoista, in quanto il peccato originale è un marchio indelebile che si trasmette per via ereditaria - anche i bambini "nascono con una natura umana decaduta e contaminata dal peccato originale"(1250)-, per cui la proprietà privata è inevitabile: anzi, proprio essa permette agli uomini di placare il loro egoismo.
Naturalmente la chiesa non si nasconde che se alcuni uomini riescono a garantirsi, attraverso tale proprietà, la propria "libertà e dignità", molti altri restano a mani vuote e non rinunciano affatto alla violenza. Come risolvere questo problema? Semplice: chiedendo al proprietario di soddisfare "i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità"(2402). Il proprietario cioè deve essere "caritatevole" se non vuole che il nullatenente gli si rivolti contro (teoria del paternalismo).
La chiesa, in sintesi, si trova a legittimare due ideali contrapposti, ch'essa vuol far credere complementari: da un lato l'ideale possibile, fattibile, praticabile, quello della proprietà privata; dall'altro l'ideale utopico, fantastico, paradisiaco, quello della destinazione universale dei beni. Quest'ultimo, in attesa del "regno dei cieli", ha il solo scopo di mitigare gli scompensi causati dalla realizzazione dell'altro ideale (teoria del moralismo). All'inizio il torto stava nell'individualismo, ora sta in chi lo contesta per sostenere un comunismo di fatto impossibile.
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Nel CCC il diritto alla proprietà privata viene riconosciuto in tutte le sue manifestazioni (e qui è significativo che l'Autore le metta sullo stesso piano): come "frutto del lavoro", come "eredità" e come "dono". Alla Chiesa non interessa sapere che se un'azienda viene ereditata di padre in figlio (come spesso succede in Italia), gli operai ivi occupati non avranno mai diritto, per tutta la loro vita, ad avere in proprietà neppure un piccolo pezzo di quell'azienda, come "frutto" del loro lavoro. (Anche quando -come ad es. in talune aziende tedesche o nipponiche- gli operai possono acquistare le azioni della loro azienda o fruire di una partecipazione agli utili, essi non arrivano mai ad averne la maggioranza o a considerarsi dei proprietari a pari titolo.)
La chiesa romana non fa alcuna distinzione tra lavoro senza proprietà e proprietà che vive del lavoro altrui. La proprietà -dice l'Autore del CCC, nella maniera più astratta possibile (così ognuno può dare l'interpretazione che vuole)- può essere sì frutto del "lavoro", ma di "qualunque" lavoro, cioè anche del lavoro di chi non lavora. (Vengono qui in mente le parole di F. Engels, quando diceva che i francesi, a differenza dei tedeschi, non si sarebbero mai sognati di chiamare l'imprenditore col nome di "datore di lavoro".)
Non è forse un gioco di parole (con effetti drammatici, purtroppo) dire che "la destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata..."(2403)? Questa "destinazione" è davvero "primaria"? Lo è anche per chi dispone di "proprietà privata"? Oppure è primaria solo per la chiesa, affinché il salariato o il nullatenente non pensino ch'essa trascura i loro interessi?
Ora, anche ammettendo che si possa considerare legittima una proprietà privata frutto del proprio lavoro (ciò che l'ex-"socialismo reale" definiva col termine di "proprietà personale", riferendosi però non alle risorse della terra o ai mezzi produttivi fondamentali, bensì agli oggetti di uso quotidiano, come la casa, la macchina ecc.), sarebbe davvero possibile considerarla legittima s'essa fosse il frutto del lavoro altrui? Possibile che la chiesa cattolica non riesca ancora a intuire la fondamentale differenza tra autonomia produttiva e dipendenza dai mezzi altrui?
Una proprietà ricevuta in eredità o come dono (quelle predilette dalla chiesa cattolica, in questo ancora feudale), il cui possesso cioè prescinde completamente dal lavoro, andrebbe messa subito in discussione in una società veramente democratica, in quanto il beneficiario dovrebbe dimostrare di non avere alcuna intenzione di usarla per vivere di rendita (né d'altra parte gli si dovrebbe concedere il diritto di tenerla inattiva).
E' infatti la "rendita", questo parassita vergognoso del capitalismo, grazie a cui pochi speculatori incassano senza alcuna fatica, alle spalle dei lavoratori, e tutto il sistema metropolitano alle spalle della periferia neocoloniale, che oggi molto più di ieri (quando il capitalismo era ancora giovane) mette in crisi la cosiddetta "destinazione universale dei beni" (si torni a leggere L'imperialismo di Lenin).
Una società democratica, autogestita, dovrebbe essere in grado di stabilire, per tutti i suoi cittadini, un livello minimo e massimo di proprietà, il cui uso servisse a garantire la sopravvivenza a ciascuno. "Minimo" perché al di sotto di questo si morirebbe (socialmente o addirittura fisicamente); "massimo" perché al di sopra di questo l'individuo smetterebbe di lavorare. In una società democratica e socialista la proprietà sarebbe a un tempo "sociale", perché a disposizione di tutti, e "personale", perché utilizzata in proprio, liberamente, senza interferenze esterne indebite (vedi il potere dello Stato o del mercato).
[ II ]
Temendo di perdere il privilegio di potersi considerare l'unica possibile alternativa al sistema capitalistico, la chiesa cattolica ha sempre combattuto con tutte le sue forze le idee social-comuniste. Oggi che il socialismo burocratico è crollato, essa è convinta, ingenuamente, che sia morta anche l'esigenza della giustizia sociale, o che comunque tale esigenza possa trovare soddisfazione solo nella cosiddetta "dottrina sociale della chiesa", di cui Il settimo comandamento è praticamente un condensato. (Come noto, i princìpi fondamentali di tale dottrina sono stati formulati, per la prima volta, da Leone XIII, nella Rerum Novarum, con cui si è cercato di reagire alla rapida diffusione del socialismo scientifico).
Ma qual è il "socialismo" predicato dalla chiesa cattolica? Anzitutto è quello vissuto a livello intrafamiliare, tra i propri congiunti e parenti (2404). La chiesa ha sempre contrapposto le esigenze sociali della famiglia a quelle individuali del cittadino borghese. O meglio, ha contrapposto, all'interno della stessa famiglia, le esigenze femminili pre-borghesi a quelle maschili apertamente borghesi; e ha fatto questo nell'illusione che la donna non si sarebbe lasciata influenzare dalla logica del sistema, mediata dal proprio partner. (Su questo cfr gli Studi sull'autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte).
Non è paradossale che una religione quanto mai maschilista come quella cattolico-romana, si sia servita proprio dell'apporto ideologico del sesso femminile per poter continuare a sopravvivere in maniera feudale in una società dove da tempo, in altri Paesi, il cattolicesimo è stato sostituito dal protestantesimo? Che cosa ne sarà di questa chiesa ora che anche le donne, con le loro battaglie per il divorzio, l'aborto legalizzato, la contraccezione... si sono emancipate da questa gravosa tutela? E come reagirà di fronte a quelle donne cattoliche che cominciano persino a rivendicare il diritto all'ordinazione sacerdotale?
Quando la chiesa pretende di estendere il collettivismo familiare alla società civile, non fa che invocare la necessità dell'assistenzialismo nei confronti di chi si trova nel bisogno (si noti l'astrattezza delle seguenti categorie sociali): "ospite, malato e povero"(2405)! Perché l'ospite? Ogni ospite è forse un "bisognoso"? E perché mettere il "povero" per ultimo? Forse perché in Italia non sono così evidenti? O dobbiamo aspettarci di vederli mendicare per le strade prima di dire che esistono?
Nel caso in cui l'assistenzialismo privato fosse insufficiente, la Chiesa pretende la cooperazione dello Stato, che nella sua funzione "sussidiaria" e, si può aggiungere, "interclassista", si crede possa far molto per il "bene comune". Suo compito è quello di "sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani nel settore economico, dove però la prima responsabilità è quella dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni di cui si compone la società"(2431). Questo il giudizio autorevole di Wojtyla, qui ripreso dal CCC, che -come il pontefice- non mostra imbarazzo nel mentre insegna allo Stato come regolarsi in casi di questo genere. Avendo infatti quasi il monopolio assoluto dell'assistenzialismo privato, la chiesa non può tollerare che lo Stato, sul piano laico, favorisca la concorrenza. Solo quando le sue forze non sono in grado di contenere il malcontento sociale, essa esige che lo Stato si presenti (sub condicione, beninteso) come l'avvocato imparziale degli oppressi.
La chiesa, in verità, non avrebbe tutti i torti a considerare lo Stato subordinato a gruppi, movimenti, associazioni ecc. Diceva, a questo proposito, un filosofo di Charta 77, L.Hejdànek: "Ogni Stato che si sia assunto la posizione di garante dei diritti e delle libertà umane e civili, li viola già ipso facto. Lo Stato, infatti, deve riconoscere e rispettare i diritti e le libertà dell'uomo, ma non può mai costituirli, stabilirli e concederli" (ed. CSEO, Bologna 1979, p.30).
Ma la chiesa ha tutti i torti di questo mondo quando pretende che lo Stato sia ad essa subordinato. Non perché lo Stato sia di per sé migliore della chiesa, semplicemente perché la società deve andare avanti, verso una progressiva democratizzazione. Peraltro è terribilmente ingenuo pensare che sotto il capitalismo lo Stato si lasci sottomettere da qualcuno o da qualcosa che non siano i monopoli. I classici del marxismo avevano mille volte ragione quando dicevano che lo Stato può solo "estinguersi" in misura proporzionale alla realizzazione del socialismo democratico.
* * *
In ogni caso -prosegue il Catechismo- i "ricchi" devono sapere che se non useranno nei confronti dei "poveri", temperanza (moderando l'egoismo), giustizia (considerando i diritti altrui) e solidarietà (morale, nei confronti di chi è nel bisogno), la funzione suppletiva dello Stato non potrà sortire l'effetto sperato (2407). Essi, in concreto, devono comportarsi onestamente nel commercio, nella contrattazione salariale, negli appalti, nella denuncia dei redditi ecc. (2409-10). La chiesa, qui, tuona, contro la criminalità organizzata, i corrotti, i concussi, i ricettatori... (2412), ma non ha alcuna intenzione di auspicare la fine del capitalismo, poiché -essa stessa lo afferma- sono proprio i profitti privati che "permettono gli investimenti e garantiscono l'occupazione" (2432)!
(Tra parentesi ci chiediamo, lasciando al lettore più attento la risposta: dov'era la chiesa italiana negli anni '80, quando le maggiori aziende capitalistiche più che investire in nuove attività produttive, in virtù degli ingenti profitti ottenuti della ristrutturazione tecnologica, hanno preferito aumentare le loro proprietà, incorporando le aziende più in difficoltà, e stornando gran parte dei capitali in operazioni puramente finanziarie, senza affatto aumentare l'occupazione?)
Quanto ai "poveri", essi sappiano -dice l'Autore del CCC- che il 7° comandamento è rivolto soprattutto a loro, che vorrebbero rubare i beni dei "ricchi". Naturalmente l'espropriazione è lecita quando sono in causa necessità "urgenti ed evidenti" a tutti (anche ai ricchi?), "per soddisfare bisogni immediati, essenziali" (decisi da chi?). Tuttavia l'espropriazione è lecita solo in via straordinaria, temporanea, limitata e certo a condizione che i "ricchi" non dimostrino la loro buona volontà in favore dei poveri (2408). Ecco il massimo che la chiesa cattolica può concedere alle rivendicazioni popolari!
D'altra parte la giustizia che i "ricchi" devono praticare è -secondo la chiesa- anzitutto quella di tipo commutativo; quella legale infatti si limita a prevedere ciò che il cittadino "deve" alla società, mentre quella distributiva riguarda ciò che la società "deve" al cittadino (2411). Quest'ultime due dall'Autore del CCC non vengono neppure prese in considerazione. Il motivo è semplice: la "legale" è già largamente applicata, in quanto lo Stato, attraverso le tasse, le imposte dirette e indirette e molti altri balzelli, non fa che espropriare il cittadino comune dei suoi risparmi. La "distributiva" invece è così importante che non si può affrontarla senza rischiare di convenire, alla fine, sulla necessità di una fuoriuscita dal capitalismo. L'equa ripartizione dei redditi, dei profitti, delle risorse produttive, secondo il lavoro ma anche secondo il bisogno, non si sa neanche cosa sia sotto il capitalismo.
Sappiamo invece, grazie alla chiesa cattolica, che cos'è la giustizia commutativa, con la quale si potrebbe risolvere ogni problema. "Commutare" significa scambiare una cosa con un'altra in maniera equa. Questa giustizia obbliga (moralmente, s'intende) al contraccambio equivalente, sulla base -dice la chiesa- della semplice "buona volontà". In tal senso "i contratti sottostanno alla giustizia commutativa" (qui l'Autore avrebbe fatto meglio ad usare il condizionale).
Dov'è il trucco? Lo dice lo stesso Autore, pur senza accorgersene: tale giustizia "esige la salvaguardia dei diritti di proprietà". Cioè nel momento della stipulazione di un contratto, entrambi i contraenti dovrebbero sentirsi moralmente obbligati ai princìpi di tale giustizia, anche se - ma questo dobbiamo aggiungerlo noi- chi "compra" forza-lavoro è "proprietario" e chi la "vende" è "nullatenente".
Qui l'Autore del Catechismo è tassativo e non ama discutere. Sulla base della giustizia commutativa, quando si contrae un debito, si deve pagarlo, a prescindere dalla propria condizione sociale; quando si assumono degli "obblighi liberamente contrattati" (si noti il sofisma borghese implicito nell'avverbio), bisogna rispettarli.
Ci chiediamo: possibile che dopo più di un secolo di socialismo scientifico esista ancora qualcuno che ritenga la compravendita della forza-lavoro un atto completamente "libero", in cui le parti in causa rappresentano, non solo giuridicamente ma anche socialmente, delle situazioni equivalenti? Possibile che esista ancora qualcuno intenzionato a credere che il proprietario dei mezzi produttivi possa essere naturalmente disposto a realizzare rapporti equi di scambio (capitale contro lavoro)? Non è forse singolare che l'unico rilievo critico che la chiesa abbia mosso contro quei proprietari che non rispettano i princìpi di tale giustizia, riguardi il gioco d'azzardo e le scommesse (2413)?
A dir il vero l'Autore qui si rende conto d'essere stato un po' parziale, anche perché non può fingere che il socialismo non sia mai nato, per cui più avanti, al n. 2414, cerca di rimediare al proprio viscerale anticomunismo, facendo le seguenti, diplomatiche, osservazioni: il mercato del lavoro, di per sé, dovrebbe essere considerato moralmente illecito, poiché i lavoratori vengono acquistati, venduti e scambiati "come fossero merci". "Ridurre le persone, con la violenza [quale? perché non dire che tale violenza è generata proprio dal dogma della proprietà privata?], ad un valore d'uso [qui ci si riferisce ai regimi socialisti: il CCC è stato pubblicato nel '92, ma la sua origine risale all'86] oppure ad una fonte di guadagno [qui il riferimento va al capitalismo], è un peccato contro la loro dignità e i loro diritti fondamentali".
Niente paura: in virtù della giustizia commutativa si può risolvere anche questo problema. Il padrone (imprenditore, mercante ecc.) potrebbe non far pesare al lavoratore il fatto d'essere una "merce" se si comportasse veramente come un "cristiano", anzi, se lo stesso comportamento l'avesse anche l'operaio, sarebbe meglio: questi infatti si convincerebbe più facilmente del valore della bontà del padrone. Paolo, nella Lettera a Filemone, non prospetta forse questa soluzione?
Qui in verità vengono in mente le parole che Marx scrisse nella "Deutsche-Brüsseler-Zeitung": "I princìpi sociali del cristianesimo predicano la necessità di una classe dominante e di una oppressa e hanno per l'ultima solo il pio desiderio che la prima voglia essere caritatevole". Parole, queste, che potrebbero spiegare tutta la parabola hegeliana del servo e del padrone. Qui però ci limitiamo a sottolineare che la chiesa, per motivi diciamo "ideali", si fa scrupolo del lavoro salariato, mentre per altri motivi, diciamo "pratici", non ha dubbi nel considerarlo legittimo. Basta infatti leggersi il paragrafo 2434, ove è detto chiaramente che l'istituzione del salario in sé è giusta e che il problema -risolvibile unicamente dal sindacato- è soltanto quello di garantire un "giusto salario", non un'equa distribuzione della proprietà.
Lo sciopero invece "in sé" non è giusto, essendolo solo in casi particolari, che sono quelli meramente "economici". Uno sciopero "politico" non è mai giusto, neanche se fatto in nome della disoccupazione (neppure quelli di Solidarnosc contro il governo polacco?). Esso infatti potrebbe essere strumentalizzato dai partiti (sottinteso "di sinistra"). Il primato del profitto quindi può essere messo in discussione solo nei casi concreti, non in generale, cioè quando si rischia di morire di fame, non quando si vuol togliere alla chiesa il privilegio di dire che il lavoro è più importante del profitto e l'uomo è più importante del lavoro (2435-6).
Il capitalismo, in sostanza, può star sicuro che la chiesa lo difenderà sempre contro le proteste dei lavoratori. Questo, tuttavia, non può impedirle di criticarlo laddove ve ne sia la necessità. E' bene infatti che il capitalismo sappia che se non risolverà, in qualche modo, i suoi problemi sociali e morali, si troverà ad affrontare non la minaccia di un rivoluzione socialista (perché questo significherebbe illudere i lavoratori, infondere in loro false aspettative), ma la minaccia di una catastrofe ecologica, conseguente anche al fatto che l'uomo moderno, avendo dimenticato il suo rapporto di dipendenza con Dio, è convinto di poter dominare la natura a suo piacimento (2415).
La maggiore contraddizione che la chiesa rileva, nell'ambito di tale sistema, non è quella fra capitale e lavoro, ma quella della distruzione dell'ambiente. Il che, tutto sommato, non sarebbe poco se per "ambiente" l'Autore del CCC intendesse l'"ecosistema", cioè quella realtà strutturata in cui società e natura s'influenzano reciprocamente. Invece egli intende, romanticamente, la natura in senso lato, dove i soggetti principali destinati a pagarne le spese non sono tanto gli "esseri umani" (e come potrebbero, visto che sono stati chiamati da Dio per "soggiogare" la terra [307]?), quanto gli "animali", le "piante" e gli "esseri inanimati". Ben 17 righe (2416-8) sono dedicate agli animali, e per dire cosa? che le sperimentazioni medico-scientifiche su di loro sono "moralmente accettabili"!
[ III ]
A partire dal paragrafo n. 2419 l'Autore del Catechismo Universale non fa che ribadire, dal punto di vista della "dottrina sociale della chiesa", cose che da tempo si sapevano. Per completezza però, non sarà qui inutile ricordarle.
Come spesso succede, in chiunque ami il potere, per ottenere un determinato obiettivo si finge di perseguirne un altro; e così, per poter escludere categoricamente che la chiesa romana sia un'istituzione politica, l'Autore tiene a precisare, in particolare, che la suddetta "dottrina" è esclusivamente morale, anche se, per suo mezzo, si pretende d'insegnare, a laici e credenti, il senso ultimo della giustizia. (Da notare che la chiesa romana distingue il laico dal religioso solo sul piano formale, non sostanziale.)
Pur senza dirlo esplicitamente, altrimenti verrebbe accusata di fare "politica", la chiesa fa capire, a chi ha orecchi per intendere, di porsi come "terza via" tra capitalismo e socialismo (2424). Del primo condanna la logica del profitto fine a se stesso e l'ateismo ivi implicito (naturalmente per "profitto" non si deve intendere una conseguenza oggettiva del rapporto capitale/lavoro, ma, come nel classico socialismo cristiano, un "desiderio smodato di denaro").
Del secondo rifiuta, oltre naturalmente all'ateismo, il collettivismo, senza specificarne però il tipo: se statale, cooperativistico, autogestito ecc. Il collettivismo viene rifiutato in sé, in qualunque forma esso si manifesti, mentre il profitto viene rifiutato solo come fine "ultimo", non "penultimo" della vita sociale. Il discrimen che passa fra uno Stato legittimo e uno no, è determinato dalla religione; poiché "l'autorità non trae da se stessa la propria legittimità morale"(1902), essa va rispettata solo se chiaramente "rimanda ad un ordine prestabilito da Dio"(1901).
Qui si ha l'impressione che la chiesa romana tema il profitto borghese meno del collettivismo socialista semplicemente perché teme che questo, molto più di quello, le possa togliere l'illusione di poter diventare l'alternativa del futuro, cioè appunto la "terza via". In pratica, da un lato essa non si rende conto che il suo destino è già segnato nell'ambito del capitalismo (non solo perché questo ha optato, da tempo, per il protestantesimo e, oggi, per i surrogati della religione qua talis, come consumismo di massa, divismo in cinema, tv e altri media, sessualità sfrenata, violenza gratuita, mode e droghe di ogni genere ecc., ma anche perché è lo stesso regime concordatario che l'ha vincolata al trend del capitale); dall'altro essa non si rende conto (fa eccezione la teologia della liberazione) che la sopravvivenza dei princìpi collettivistici del cattolicesimo è possibile solo se essi convergono verso quelli del socialismo democratico. L'anticomunismo radicale finisce col ritorcersi contro gli stessi interessi sociali della chiesa. Solo molto tempo fa -come disse Marx nel Manifesto- il cristianesimo contestava "la proprietà privata, il matrimonio e lo Stato".
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Nella sua voluta ambiguità, il CCC, che deve nello stesso tempo affermare il neoconservatorismo senza negare, per quanto possibile, le esigenze della democrazia e del socialismo, a volte enuncia dei princìpi che non sembrano affatto favorevoli al free market. Al paragrafo 2425, p.es., l'Autore dice esplicitamente di rifiutare "il primato assoluto della legge del mercato sul lavoro umano".
Addirittura si auspica che il mercato sia "regolato" (Marx docet!). Da chi però non viene detto: certo non dallo Stato, che così diventerebbe totalitario (checché ne pensi l'economista inglese Colin Clark che ai suoi tempi -nacque nel 1905- cercò di fondere la prassi etico-razionale del neotomismo con l'analisi delle tendenze strutturali di lungo periodo del capitalismo monopolistico-statale); e neppure dai monopoli, che, di fatto, non riescono a realizzare alcuna "giustizia sociale". Dunque da chi? L'Autore qui -fedele com'è all'immagine trascendentale della chiesa- non vuole offrire indicazioni concrete. Egli si limita a sostenere che il mercato va regolato in modo etico, nel senso del primato del lavoro sul mercato e dell'uomo sul lavoro.
Qui le tesi del sindacato polacco Solidernosc hanno fatto sentire, nell'arco di un decennio, tutto il loro peso: basterebbe leggersi gli scritti del teologo J. Tischner per capire quale sia la fonte di questi paragrafi del CCC dedicati al significato del lavoro. Tischner, e altri come lui, non avevano tutti i torti quando affermavano che nel socialismo amministrato il lavoro non dava alcuna dignità all'uomo, in quanto l'uomo non riusciva a dare un significato autonomo al proprio lavoro, essendo tutto pianificato dall'alto, cioè dallo Stato, unico vero padrone dei mezzi produttivi.
Solidarnosc vinse la sua partita, ma per affermare quale alternativa? Quella capitalistica del mercato del lavoro! In luogo dello statalismo del socialismo amministrato, la cultura cattolica polacca non ha trovato niente di meglio che l'individualismo del moderno capitalismo. Che questo sia forse un sintomo della cronica debolezza del cattolicesimo-romano? O forse, indirettamente, Solidarnosc ci ha fatto capire che una qualunque "riforma" del socialismo, se non si vuole ricadere nei limiti del capitalismo, può realizzarsi solo nello "spirito" del socialismo? E' possibile risolvere i conflitti sociali in nome della "solidarietà dei poveri tra loro, dei ricchi e dei poveri ecc."(1941), senza permettere ad ogni uomo di diventare padrone della propria esistenza?
In ogni caso, appare alquanto limitativo cercare di applicare alla società capitalistica le riflessioni di Tischner o di Wojtyla o di questo stesso catechismo sul lavoro. Nell'ambito del socialismo, infatti, si poteva criticare l'alienazione di un lavoro privo di vero significato, ma un lavoro, bene o male, c'era. In Occidente, invece, con quale coraggio si può affermare che l'uomo è "superiore" al lavoro quando spesso non ha nessun lavoro, o quello che ha è così precario che può perderlo da un momento all'altro? E con quale diritto si chiede all'uomo di accettare un qualunque lavoro e di convincersi, nello stesso tempo, che la propria dignità dipende da qualcos'altro? Com'è facile chiedere una professione di stoicismo dall'alto della propria rendita ecclesiastica!
E non si dica che la chiesa cattolica -ammesso e non concesso che i sindacati, insieme allo Stato interclassista, siano in grado di garantire ai lavoratori una giustizia sociale (2430)- è talmente favorevole al primato dell'uomo sul lavoro da desiderare la fine del lavoro salariato! Che significa che "il lavoro è per l'uomo e non l'uomo per il lavoro"(2428)? Forse che l'uomo deve ribellarsi allo sfruttamento del lavoro salariato, oppure che può lasciarsi morire di fame convinto di andare in paradiso?
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Dopo la II guerra mondiale, il keynesismo, nel mondo occidentale, cercò di regolamentare le contraddizioni dell'economia capitalistica attraverso l'intervento dello Stato. Anche molti ambienti della sinistra italiana erano convinti che una maggiore presenza statale nell'economia (si pensi alle nazionalizzazioni di alcuni settori produttivi o di alcuni fondamentali servizi), avrebbe potuto fare gli interessi del mondo lavorativo. Sino alla fine degli anni '70 sono state fatte molte battaglie per avere riforme sociali e benessere per tutti.
Poi, all'inizio degli anni '80 le cose sono cambiate. Pur non rinunciando completamente all'intervento statale, il reaganismo ha dato il via alla deregulation, cioè al progressivo smantellamento dello Stato sociale e al revival delle privatizzazioni. In Italia, ancora oggi i neoconservatori (nonostante lo smascheramento di tangentopoli) sono al governo, e sembra che per i lavoratori non ci sia modo né di garantire le conquiste del passato, né di avanzare verso un'organizzazione più democratica della vita socio-economica. Perché questa impasse, che è in fondo una lenta ma progressiva involuzione verso il capitalismo più selvaggio?
Complice di essa è stata, oltre alla sinistra "migliorista", che crede possibile "riformare" il capitalismo, anche la chiesa che, almeno in Occidente, non ha mai fatto un'analisi seria dei meccanismi che determinano il nostro benessere sociale. E questo è assolutamente vergognoso, soprattutto alla luce del fatto che l'80% del mondo cattolico si trova nella periferia neocoloniale del capitalismo occidentale.
Non è singolare che dopo 500 anni di colonialismo, la Chiesa abbia ancora l'ardire di affermare che fra le nazioni le disuguaglianze nascono dal fatto che da un lato ce ne sono alcune "che possiedono e incrementano i mezzi dello sviluppo" e, dall'altro, nazioni "che accumulano i debiti"(2437)? Come non accorgersi che i veri "produttori" sono i Paesi del Terzo mondo, che ci offrono materie prime a buon mercato, manufatti sotto pagati, grandi mercati di sbocco per le nostre merci, e che i veri "debitori", i veri "parassiti" siamo noi, che oggi con l'arma del "debito" abbiamo potuto ottenere più "dipendenza" di quanta ne avevamo ottenuta ieri con le armi vere e proprie?
Il CCC, in proposito, non ha dubbi: il Terzo mondo non è in grado di "assicurarsi i mezzi del proprio sviluppo"(2439), per cui ha "bisogno" dell'Occidente, e l'Occidente non può approfittare di questa strutturale incapacità per realizzare uno scambio iniquo. "L'uomo, venendo al mondo -dice l'Autore, riferendosi alla giustizia sociale-, non dispone di tutto ciò che è necessario allo sviluppo della propria vita..."(1936). Fra le molte differenze "naturali" che dividono gli esseri umani, vi sono quelle connesse "alla distribuzione delle ricchezze". Tuttavia -prosegue l'Autore-, "tali differenze incoraggiano e spesso obbligano le persone alla magnanimità, alla benevolenza e alla condivisione"(sic!).
In altre parole, la chiesa cattolica non vuole l'indipendenza economica del Terzo mondo, ma solo la "carità" del Primo mondo. Riaffermando il principio che "i poveri ci saranno sempre"(2449), essa è ben consapevole che il suo destino, in Occidente, è strettamente legato a quello del capitalismo. "Giustizia" significa "rendere al povero ciò che gli è dovuto"(1807), senza illuderlo di poter fare a meno dell'aiuto del "ricco".
(1) Lo si è voluto "universale" per delegittimare l'importanza di molti catechismi che, sorti, in questi ultimi vent'anni, a livello nazionale, regionale o locale, avevano introdotto, in alcune parti, delle novità non gradite alla curia vaticana.