WOJTYLA E LA DIGNITA' DELLA DONNA
Fa specie che le encicliche di Wojtyla Sollecitudo rei sociali e la Mulieris dignitatem, siamo state accolte con benevola condiscendenza dall'opinione pubblica del nostro paese (inclusi certi ambienti della sinistra). A ben guardare, in effetti, entrambi i documenti testimoniano di uno sforzo alquanto modesto in direzione dello svecchiamento di talune tesi etico-religiose e dottrinali. |
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Vien quasi da pensare che molti di coloro che si esprimono su questi scritti in maniera più o meno entusiastica, lo facciano per seguire l'attuale moda "concordistica", che riesce a scorgere ampie tracce di "verità e buon senso" anche nelle posizioni più conservatrici e tradizionaliste (in questo caso non si avrebbe neppure bisogno di leggere i documenti).
Oppure la preoccupazione è quella di ostentare la propria "tuttologia", senza la quale oggi si rischia di apparire un po' "vetero" (in quest'altro caso, i documenti possono essere letti in maniera superficiale, eventualmente scorrendo solo alcuni capitoli, convinti che gli altri non siano molto diversi: i giornalisti addirittura si limitano a quanto riferiscono i vari portavoce del Vaticano). In particolare, si è propensi a credere che quando il pontefice pubblica qualcosa, la sua sia un parola autorevole di per sé o, come si dice nel gergo curiale, ex-sese, a prescindere, in un certo senso, dal suo vero contenuto ideologico. Questo è un limite che caratterizza tutti coloro che, per un motivo o per un altro, non riescono a liberarsi dal cosiddetto "culto della personalità". Cosa che invece riescono a fare benissimo ogniqualvolta - adeguandosi ad esigenze e modelli interpretativi dominanti - vedono officiato quel culto in contesti storici e luoghi geografici diversi dai propri.
Sarebbe bastato, in effetti, un briciolo di criticità per potersi facilmente accorgere che molti argomenti della lettera dedicata alla donna vengono affrontati da alcuni antropologi cattolici (ad es. B. Lonergan, L. Rulla, J. Ridik, F. Imoda) in modo più consono alla moderna sensibilità della società laica, senza per questo voler negare, ovviamente, i forti limiti che caratterizzano una confessione "dogmatica" come quella cattolica.
Non solo, ma se è sbrigativo il metodo con cui in genere gli ambienti laici esaminano i documenti pontifici (il che può essere un indice del loro scarso interesse), non meno approssimativi sono i giudizi di chi, pur avendo faticato nella loro lettura, non ha molta dimestichezza con la semantica religiosa. Pochi infatti si sono accorti che nella Lettera in questione Wojtyla ha usato ampiamente concetti e termini tecnici mutuati dalla confessione ortodossa (vedi ad es. le parole theotokos, ipostasi, kenosi, il discorso sulla trinità e sulla dialettica tra immagine e somiglianza). Vi sono interi brani che ricordano molto da vicino il teologo ortodosso forse più "amato"' dalla chiesa cattolica: Pavel Evdokimov. Non si è trattato, beninteso, di una sorta di riconoscimento ecumenico al valore di questa corrente cristiana, che neppure viene citata (anche perché il contesto generale che dà senso a quei concetti resta profondamente cattolico e, per giunta, conservatore). La preoccupazione, invero, è stata quella di rivitalizzare vecchie tesi ufficiali, usando immagini e pensieri abbastanza inconsueti per un credente occidentale. Non si è tuttavia qui ripetuto il noto aforisma evangelico del "vino nuovo nella botte vecchia". Quei concetti infatti sembrano originali solo perché mille anni e più di scismi e separazioni ne avevano fatto perdere la memoria. Meglio sarebbe dire dunque che nella Lettera si è verificato il fenomeno, un po' stantio, del "vino vecchio in otri vecchi".
Una conferma di ciò la offre il cap. VIII, laddove si recupera la stupenda teologia giovannea dell'amore, anch'essa patrimonio quasi esclusivo dell'oriente ortodosso. Il pathos attribuito a questa Lettera si riferisce, in realtà, proprio al suddetto capitolo e non agli altri, caratterizzati da una asfissiante esegesi biblica. Leggendo quel capitolo si ha l'impressione che i toni pessimistici se non tragici dei precedenti documenti si siano in parte attenuati, nel senso che il pontefice sembra aver la pretesa di affidare, in ultima istanza, alle dimensioni dell'amore la soluzione del problema "vocazionale" della donna. La pretesa però pare destinata all'insuccesso. Wojtyla passa da un'analisi teologica a una filosofica senza toccare quasi mai gli aspetti più propriamente sociali e politici della questione femminile. Le poche volte in cui s'è cimentato in quest'ardua impresa, la preoccupazione è stata quella di trasformare le motivazioni sociali sottese ai due fenomeni dell'aborto e del divorzio in considerazioni di carattere etico-religioso, mediante le quali egli ha potuto colpevolizzare questo o quel comportamento, singolo o di coppia; oppure è stata quella di elencare sbrigativamente i vari "mali sociali" in cui spesso le donne (non senza il concorso dell'uomo) si trovano coinvolte, come quando si sostiene, ad es., che "è difficile enumerare queste sofferenze..: si possono ricordare la premura materna per i figli, la morte delle persone più care, la solitudine delle madri dimenticate dai figli adulti o quella delle vedove, le sofferenze delle donne che da sole lottano per sopravvivere e delle donne che hanno subìto un torto o vengono sfruttate" (VI,19).
L'accenno è così breve, così di sfuggita che, ad es., fra quest'ultima categoria di donne non si sa se includere le prostitute o semplicemente le lavoratrici mal retribuite. La Lettera insomma è troppo astratta e intellettualistica per essere anche attenta ai problemi sociali delle donne o alle ragioni del movimento femminista. Al massimo la donna è fatta oggetto di "sollecitudine morale".
L'astruseria di certe speculazioni un po' scolastiche la si nota soprattutto laddove viene esaminato il racconto del Genesi sulla creazione di Adamo ed Eva. Un'esegesi di tipo "fondamentalista" e una concezione dell'esistenza e dei rapporti umani di tipo "giuridico-legalista", hanno indotto Wojtyla a riaffermare che in quel racconto mitologico Dio avrebbe istituito il "matrimonio" (III,7). Il che, detto altrimenti, significa che, a giudizio di questo papa definito "carismatico", l'amore non si giustifica da sé o in base al fine che vuole realizzare, in riferimento al contesto sociale in cui è vissuto, ma si giustifica solo all'interno di una determinata istituzione: appunto il matrimonio. Nel senso cioè che qualunque rapporto d'amore fra i due sessi può trovare la sua piena santificazione solo se viene consacrato da questo feticcio magico. Correlato a tale limitata esegesi, che presume d'aver fondamenti storici, è il parallelo, fatto senza tema, fra una donna completamente simbolica come Eva e un'altra non meno idealizzata come Maria. Facendo leva sul suo privilegio d'interpretare la Bibbia ad arbitrium, Wojtyla offre un modello di Maria come "serva del Signore", cioè come donna docile e mansueta, senza molta personalità, capace solo di dire "fiat voluntas tua", cioè "così sia".
Maria è stata grande - vien detto nella Lettera -perché ha saputo inserirsi "nel servizio messianico del Cristo", di un Cristo naturalmente "servo (anche lui!) del Signore" (II,5). Un servizio che implicava umiltà e rassegnazione, la totale remissione alla volontà di un Dio-padre che sul proprio figlio aveva un progetto "funesto", addirittura mortale.
Una lettura davvero banale, riduttiva, anzi fin troppo strumentale. Persino il più svogliato studente di teologia si accorgerebbe, se solo non si accontentasse delle esegesi convenzionali dei suoi professori, che più grandi di Maria sul piano della consapevolezza politica o dell'impegno sociale nel movimento nazareno sono state le due sorelle di Lazzaro, la Maddalena, la samaritana del pozzo di Giacobbe... donne che non hanno mai messo in dubbio "l'igiene mentale" del "Cristo-pazzo" di Mc 3,21 e che anzi l'han riconosciuto, da subito e apertamente, come messia. Persino sul piano umano più grande di Maria è stata l'altra Maria, sorella di Lazzaro, che unica fra tutti i personaggi evangelici, riuscì a far scoppiare Gesù in un pianto dirotto.
D'altra parte, se Wojtyla facesse veramente, cioè coerentemente, un'esegesi "fondamentalista" del Nuovo Testamento e non invece apologetica, almeno su alcune cose la chiesa cattolica sarebbe costretta a rivedere i suoi classici e superati giudizi. Ad es. dovrebbe accettare la necessità del divorzio in caso di adulterio, come prevedono espressamente i Vangeli e non ostinarsi a difendere l'assurda idea dell'indissolubilità del matrimonio (assurda perché la si vuole imporre con la coercizione morale, fino a ieri anche giuridica, salvo avvalersi del diritto all'annullamento). Nessun esegeta al mondo è oggi in grado di dimostrare che Gesù Cristo fosse contrario al divorzio qua talis e non piuttosto al divorzio "facile" o, peggio, "unilaterale", cioè patrimonio esclusivo dell'uomo.
L'affermazione di Matteo 5,28, secondo cui chiunque guarda una donna con desiderio ha già commesso adulterio in cuor suo, non può essere posta a fondamento dell'indissolubilità, né può essere usata per insinuare l'idea che se nella vita di coppia c'è attrazione sessuale senza procreazione, si cade subito nell'adulterio. Il senso di quel versetto in realtà è molto semplice: nell'ambito del matrimonio il rapporto interpersonale, l'amore, o si approfondisce o non esiste. Nel primo caso esso non ha certo bisogno dell'indissolubilità o della procreazione per garantirsi; nel secondo caso, né l'una né l'altra sono in grado di farlo nascere o rinascere. E' vero anzi il contrario: la sola idea dell'indissolubilità, senza neppure un'esigenza d'amore, non fa che aumentare l'ipocrisia; né d'altro canto offre maggiori garanzie la soluzione di chi vuole conservare il rapporto col partner solo "per amore dei figli".
In particolare, Wojtyla, ribadendo un suo chiodo fisso, mira a trasformare, portandola alle estreme conseguenze, un'idea contenuta, in nuce, nella Humanae vitae di Paolo VI: dal peccato di "egoismo sessuale" connesso all'uso della contraccezione, egli vuole passare al peccato di "tradimento morale" del coniuge, in rapporto al semplice desiderio della copula. Davvero aveva ragione Gramsci quando diceva che la morale cattolica, se applicata rigorosamente, produce solo dei "mostri". Ora, come farà il cattolico pieno di scrupoli a sopportare l'eventuale violazione della ben nota dura lex: "o figli o niente sesso"? Persino quando è disponibile a procreare, deve stare attento a non metterci troppa passione!
Detta opzione è espressa forse in modo un po' rozzo, ma ha il pregio di rispecchiare fedelmente il senso di quella indicata da Wojtyla in merito al ruolo della donna: o maternità o verginità (VI, 17-18). A suo giudizio cioè, la vocazione della donna non sta tanto nel diritto d'essere rispettata dalla collettività, tutelata dalla legge, garantita nell'ambito del lavoro, protetta nella sua salute, ecc., e non sta neppure nella possibilità di esprimersi creativamente secondo le proprie capacità e attitudini; ma anzitutto e soprattutto sta nel dovere di scegliere fra due condizioni esistenziali strettamente legate al sesso: sia che se ne usi (maternità), sia che vi si rinunci (verginità). L'ideale della donna, in sostanza, non è l'uguaglianza sociale e la libertà personale, ma l'obbligo di sceglier fra due ruoli prestabiliti. Wojtyla insomma continua a fare della verginità e della maternità due valori in sé, due virtù ipostatizzate, ritenendo ovviamente la prima superiore alla seconda. La verginità infatti è considerata migliore perché più "etica", più aperta al "sociale" (VI, 21): e questo a prescindere dal fatto che la "vergine cristiana" abbia scelto in piena libertà e consapevolezza. Per i preti cattolici non si può cedere alla tentazione di considerarsi migliori degli altri semplicemente per aver saputo rinunciare alla libido.
Naturalmente qui considerazioni di carattere ideologico si mescolano a quelle di tipo strumentale, in quanto alle persone celibi o nubili il clero può richiedere un impegno ecclesiale ben maggiore. Una stakhanovista come l'Armida Barelli fa sempre comodo.
Sembra davvero incredibile che al giorno d'oggi ci sia ancora qualcuno disposto a credere che la verginità o il matrimonio siano istituzioni che di per sé possono garantire l'onestà e la serietà di una persona. Il fatto è purtroppo che Wojtyla, non avendo alcuna intenzione di riconoscere alla donna i diritti sociali che le competono, come donna e come cittadina, non può agire diversamente. L'unica vera novità che, in questo senso, appare nella Lettera è l'attribuzione di una responsabilità reciproca, di coppia, nella decisione d'interrompere una gravidanza: ciò che anche le forze laiche più progressiste da tempo hanno capito. Tuttavia, Wojtyla non si serve di tale comune responsabilità per allargare il discorso sulle cause sociali che portano la coppia a fare quella drammatica scelta, ma al contrario, se ne serve proprio per circoscrivere tale discorso nell'ambito familiare, permettendo alla società di uscirne indenne. Quella stessa società che spesso in molti altri campi - di cui Wojtyla preferisce ignorare l'esistenza -, come la ricerca di un lavoro, la rivendicazione di diritti relativi alla maternità, i processi per stupro, ecc. è generalmente ostile alla donna.
Solo un ingenuo o uno sprovveduto potrebbe non accorgersi che qualunque violenza fatta alla donna si ripercuote anche sull'uomo. Qualsiasi forma di discriminazione non "salva" coloro che la praticano, poiché fra queste persone essa tenderà inevitabilmente a riprodursi. Ecco perché una società che vuole essere veramente democratica non può più suddividere i diritti o i compiti o le responsabilità in "maschili" e "femminili". Dire ad es. che la donna è più responsabile dell'uomo nell'educazione dei figli o nel menage familiare, è semplicente dire una sciocchezza. Ma anche dire che in tali aspetti la responsabilità va divisa al 50%, significa fare un discorso limitativo, poiché se la famiglia è un'istituzione della società civile e non solo un atto d'amore o un semplice contratto fra due singoli, allora è la stessa società che deve diventare responsabile della vita della famiglia. Ciò implica, di conseguenza; l'elaborazione di linee politiche, a livello statale e nazionale, che riguardino specificatamente i nuclei familiari.
Allo stesso tempo però si deve tener conto che la donna, essendo stata sino adesso maggiormente discriminata, merita un'attenzione particolare, nel senso cioè che per la realizzazione di una società veramente democratica si deve partire riconoscendo alle donne una quantità di diritti superiore a quella dell'uomo. Lo stesso Marx diceva che, essendo gli individui diversi tra loro, per evitare discriminazioni il diritto dovrebbe essere "disuguale". Ciò significa che non può non esistere un'apposita politica dello Stato per la condizione femminile.
Naturalmente è difficile immaginare che questo potrà realizzarsi senza un ribaltamento generale dei meccanismi di sfruttamento sociali ed economici presenti nelle attuali società capitalistiche. Di ciò però Wojtyla non fa alcuna menzione. A suo giudizio, l'uomo deve riconoscere alla donna una "parte speciale", molto più impegnativa, unicamente nel "comune essere genitori" (VI, 18). Il riconoscimento cioè riguarda solo la donna in quanto "madre" e non anche la donna in questo "lavoratrice". Wojtyla spende sublimi parole per la donna-madre, ma non dice una sillaba sulla donna-lavoratrice. In tal modo, proprio mentre sostiene di condividere l'essenziale parità dei sessi, discrimina di nuovo la donna, obbligandola ad avere maggiori responsabilità "etico-personali" in forza della sua maternità "biofisica" (VI, 19). Il che, in pratica, significa che la donna deve sentirsi "diversa" dall'uomo proprio in quanto "donna".
Inutile dire che questo modo di vedere le cose fa il gioco dì chi non vuole affrontare le vere "diversità" che si verificano nell'ambito socio-economico e politico. In realtà, le differenze di carattere biologico si riducono ad aspetti troppo poco significativi perché si possa far risalire ad esse la causa dei principali abusi commessi contro la donna; né d'altro canto si può far dipendere da esse l'impostazione di una piattaforma rivendicativa volta ad eliminare quegli abusi. E' vero, si potrebbe anche tener conto, ad es., che per la sua struttura fisica la donna non è adatta a svolgere taluni lavori troppo pesanti e faticosi (salvo naturalmente prova contraria). Volendo, si potrebbe anche istituire un Ministero ad hoc, ma a che servirebbe se poi nei momenti di crisi le prime ad essere licenziate o le ultime ad essere assunte sono sempre le donne? Si possono insomma fare mille rivendicazioni contro il sistema maschilista, ma se non si mettono in discussione i meccanismi di fondo che lo alimentano e lo riproducono, sarà come combattere contro i mulini a vento.
Di certo non sarà con la "maternità" o la "verginità" che si potranno risolvere questi problemi. Farli valere come criteri di diversità della donna è semplicemente ridicolo. Se una donna si sente "diversa" è perché qualcosa o qualcuno la fa sentire diversa, a meno che la diversità avvertita nei confronti di un uomo non sia la stessa che si avverte nei confronti di una qualunque altra donna: in questo caso, ciò che rende diversa una donna è unicamente la sua personalità. Una personalità determinata dai rapporti sociali, dall'ambiente formativo, dal bagaglio culturale, dalle proprie attitudini e da altre cose ancora. Sotto questo aspetto, è la personalità che fa la maternità o la verginità, e non ìI contrario. (Per non parlare del fatto che due possono benissimo convivere senza aver figli).
Si può addirittura arrivare a dire che la maternità non è un concetto squisitamente femminile, ma anche maschile, poiché a livello sociale la nascita di un essere umano coinvolge al 100% sia l'uomo cha la donna. Se l'uomo non si sente coinvolto in questa percentuale, automaticamente farà sentire "diversa" la sua donna. Un discorso di questo genere, proiettato sulla società civile, è facile immaginare a quali conseguenze potrebbe portare.
Purtroppo, per quanto riguarda la diversità in rapporto alla personalità, il giudizio di Wojtyla è quanto mai semplicistico e "antifemminista". Per lui la donna "sa resistere alla sofferenza più dell'uomo" (VI, 19). Ma che significa questo? Forse che la natura ha dotato la donna di virtù sconosciute agli uomini? O non sono forse la cultura e soprattutto i rapporti sociali che fanno il carattere?
In realtà a Wojtyla fa molto comodo propagandare l'immagine di una donna passiva e ubbidiente, del tutto disinteressata ai problemi sociali, culturali e politici. In cambio di questa immagine senza dubbio poco avvincente, egli è disposto ad ammettere una "reciproca sottomissione" dei coniugi in Cristo (VII, 24). Resasi conto che non si può più fare affidamento sulla donna... servendosi dell'uomo, la chiesa è costretta a fare concessioni in via del tutto straordinaria. In effetti, è sotto gli occhi di tutti che oggi molte donne cattoliche (specie le più giovani) rivendicano un protagonismo autonomo, che non sia cioè costretto a passare per il placet dell'uomo. Molte hanno votato a favore della legge sul divorzio e non si oppongono a quella sull'aborto né alla fecondazione artificiale; moltissime sostengono la contraccezione, si servono attivamente dei consultori, hanno preteso un nuovo diritto familiare e sono convinte che sia giusto considerare i reati sessuali come una violenza contro la persona...
Ora alcune rivendicano addirittura una pari dignità a livello sacramentale,
esigendo (la chiesa anglicana già l'ha concesso) il diritto al sacerdozio
ministeriale. Su quest'ultimo aspetto però Wojtyla è irremovibile. Nessuna rivendicazione
femminile potrà mai contestare il tradizionale fondamento clericale secondo cui
i sacramenti possono essere amministrati solo da sacerdoti maschi. Le ragioni di questo vengono
fatte risalire allo stesso Cristo, ma si tratta - ancora una volta - di un'interpretazione
arbitraria.
- Anzitutto perché Cristo non ha voluto legare la figura dell'apostolo
al sesso. La chiamata dei Dodici è probabilmente mitica, poiché la parola
"apostolo" è di origine ecclesiale (o è stata comunque usata dalla
chiesa in funzione sacramentale). Nei Vangeli Cristo non ha mai fatto differenze
fra discepoli maschili e femminili. Se c'è stata una prevalenza di attività
politico-sociali svolte da persone maschili, ciò è dipeso dal fatto che allora
la donna, specie nella società ebraica, incontrava enormi difficoltà di natura
giuridico-normativa.
- In secondo luogo, Cristo non ha mai legato la persona
dell'apostolo a una specifica funzione sacerdotale, poiché egli non
ha mai istituito alcun sacramento (i protestanti in pratica li negano tutti,
accettandoli al massimo in chiave simbolica). L'istituzione dei sacramenti è un
prodotto tipicamente ecclesiale, che segue di poco la rinuncia alla lotta
politico-rivoluzionaria contro l'imperialismo romano.
Le donne cattoliche, per Wojtyla, devono accontentarsi di due privilegi: il "sacerdozio regale", che però va spartito con tutti gli uomini laici e il modello di Maria, che "precede tutti sulla via della santità" (VII, 27). Qui però Wojtyla non si rende conto che Maria, avendo una santità preordinata dal volere divino, non può essere imitata da alcuna donna. Nell'ambito della chiesa cattolica Maria purtroppo ha subìto uno strano destino: da un lato, con i due dogmi dell'immacolata concezione e dell'assunzione, la si è voluta dipingere come una sorta di divinità atemporale, priva di difetti; dall'altro, sottolineando continuamente il suo carattere "servile" e ubbidiente, non si è stati neppure capaci di valorizzarla come una comune donna che, al pari di tante altre, desiderava la liberazione del suo popolo oppresso.
Ma su questo non val la pena soffermarsi oltre. Qui si può soltanto concludere con una considerazione. Siamo in sostanza convinti che la vera uguaglianza fra uomo e donna la si gioca a livello sociale, economico e politico. Il problema non è molto diverso da quello che Marx affrontava nella Sacra famiglia parlando degli ebrei: essi - diceva - saranno rispettati come ebrei solo quando lo stato rispetterà tutti come cittadini, ma perché ciò avvenga occorre che i cittadini s'impadroniscano dello Stato e lo portino alla sua estinzione. Di questo anche le donne cattoliche vanno prendendo lentamente coscienza, soprattutto quando si trovano di fronte ai drammatici problemi dell'occupazione, del salario, della salute, della sicurezza personale ... Veri drammi questi, capaci di mettere in imbarazzo anche le poetiche espressioni sull'amore contenute al cap. VIII della Mulieris dignitatem.
Wojtyla, spiritualizzando al massimo il proprio moralismo, riprende quella profonda teologia di Giovanni che fa scomparire ogni oppressione e ingiustizia dietro il bellissimo paravento dell'amore. Chi ama - dice Wojtyla - sa sopportare ogni malessere, ogni antagonismo. Se dunque la donna vuole riscattarsi, deve amare: "la donna non può ritrovare se stessa se non donando l'amore agli altri" (VIII, 30). Una donna che ama, saprà indurre l'uomo a fare altrettanto. "I nostri giorni -dice ancora Wojtyla - attendono la manifestazione di quel genio della donna che assicuri la sensibilità per l'uomo in ogni circostanza" (ib.). Parole come queste non potevano suscitare che entusiastiche approvazioni nei confronti della Mulieris dignitatem. Ma se si leggono gli Atti dell'amore di Kierkegaard o i Principi della filosofia dell'avvenire di Feuerbach di sublimi astrazioni sul significato dell'amore se ne trovano molte di più.