LUCI E OMBRE NELLA CENTESIMUS ANNUS

LUCI E OMBRE NELLA "CENTESIMUS ANNUS"

Prima di parlare, in dettaglio, dell'enciclica di Karol Wojtyla, Centesimus annus, considerata da alcuni come un vero e proprio epitaffio sulla tomba del comunismo, è forse opportuno partire con delle valutazioni di "forma", di "stile", che i vari "vaticanisti" del giornalismo laico ormai si astengono dal fare, ritenendole poco significative oppure dandole per scontate.

Anzitutto occorre evidenziare che quasi tutte le encicliche di Wojtyla -diversamente da quelle dei pontefici precedenti- si muovono da subito all'interno di problematiche tradizionali all'analisi marxista, o comunque all'analisi dell'ideologia socialista. Non solo cioè esse usano un linguaggio sempre più laico per sostenere delle tesi religiose (riflettendo, in questo, l'influsso del secolarismo contemporaneo), ma usano anche, e con insistenza, temi fortemente politici e sociali, su cui sembra giocarsi il destino dell'attuale integralismo cattolico (quello appunto cui il pontefice si rifà).

Allorché dunque si parla, a tale proposito, di una "linea di continuità" tra la Rerum Novarum e questa enciclica, bisognerebbe precisare che una differenza di non poco conto esiste: mentre infatti cento anni fa e fino, se vogliamo, al pontificato di Montini, la "questione sociale" era considerata dalla chiesa cattolica un aspetto fra tanti, di cui bisognava tener conto a causa soprattutto delle pressioni esterne, viceversa oggi, proprio grazie al pontificato di Wojtyla (espressione polacca dell'integralismo politico-religioso), tale questione è diventata un argomento fondamentale, da cui non si può assolutamente prescindere. Si ha anzi l'impressione che mentre un secolo fa la "questione sociale" era avvertita molto più dal laicato cattolico che non dalle gerarchie clericali, oggi invece appare il contrario.

Trovate le ragioni di questa stranezza, riusciremo forse a spiegare la grande difficoltà con cui l'Occidente capitalistico riesce a rapportarsi con l'ideologia religiosa di questo pontefice, che pur viene appoggiata da molte forze reazionarie e conservatrici, soprattutto in funzione anticomunista. La prima e più importante ragione del disinteresse occidentale risiede probabilmente nel fatto che tale ideologia s'è completamente formata in un contesto sociale dominato dal socialismo di stato, per quanto molti suoi addentellati vadano ricercati nel personalismo e nell'esistenzialismo cristiano (vedi ad es. la teologia di N. Berdjaev).

Il cattolicesimo di Wojtyla è sostanzialmente ignorato in Occidente proprio perché esso, pur essendo fortemente anticomunista, non riesce ad accettare del mondo capitalistico quegli aspetti di laicizzazione che lo costringerebbero a vivere in una posizione marginale, subordinata alla logica dei monopoli. La difficoltà di realizzare un compromesso del genere dipende appunto dal fatto che il cattolicesimo polacco, essendo passato da una società più o meno feudale a una socialista, non ha avuto né tempo né modo -al pari di altre espressioni cattoliche occidentali- di adeguarsi progressivamente alla società borghese. Di qui il suo forte integralismo politico, ereditato dalla società feudale, corporativa, o comunque pre-monopolistica, e il suo forte contenuto sociale, ereditato dal confronto teorico-pratico col socialismo reale, amministrato.

Indubbiamente l'ideale integralistico del cattolicesimo polacco s'è conservato in forme più coerenti, più volitive (il teologo J. Tischner direbbe più "purificate"), proprio perché da un lato ha dovuto fronteggiare il regime di separazione tra Stato e chiesa (che il suddetto integralismo, essendo appunto "politico", non solo "morale", non poteva in alcun modo accettare); dall'altro esso non ha avuto l'occasione -come ad es. il cattolicesimo italiano e soprattutto francese- di compromettersi con l'ideologia borghese. In Italia il cittadino-credente è, in genere, formalmente "cattolico" (perché battezzato, sposato in chiesa ecc.) e sostanzialmente "indifferente" (agnostico) sul piano della fede personale: il che rispecchia benissimo l'ideologia del cristianesimo-borghese (che è appunto più "borghese" che "cristiano"). In Polonia invece la chiesa cattolica, fatte salve le debite eccezioni, pretende di unificare il metodo e il contenuto dell'esperienza religiosa dal punto di vista politico, esprimendo le posizioni più retrive. Prima del pontificato di Wojtyla, la curia romana aveva scarsissimi rapporti con quella polacca.

L'integralismo politico, in Europa occidentale, riguarda pochissime esperienze religiose (una, ad es., è quella di Comunione e liberazione, che non a caso ha sempre visto di buon occhio il cattolicesimo polacco e che ha fatto di tutto pur di veder eletto Wojtyla al soglio pontificio). Tale integralismo s'è appropriato di un "discorso sociale", ponendosi in aperta concorrenza con la Teologia della liberazione, i Cristiani per il socialismo e le Comunità di base, i quali, come noto, preferiscono indirizzarlo verso obiettivi filo-socialisti, assai diversi da quelli di Wojtyla o di CL.

Paradossalmente quindi Wojtyla, anche con questa enciclica, si trova a fare, sul piano dell'integralismo, un discorso troppo vecchio perché possa piacere alle forze progressiste, mentre sul piano del contenuto sociale fa un discorso troppo anomalo perché possa essere capito nell'ambito del cattolicesimo occidentale. Lo stretto rapporto col socialismo reale ha reso la chiesa polacca (e quindi il pontificato di Wojtyla) un ibrido incomprensibile al cattolico-borghese, specie in considerazione del fatto che il contenuto sociale -in virtù del quale si pretende di dire "cose nuove"- viene visto da Wojtyla non a partire da un'immagine di socialismo più democratico, ma a partire da una sorta di integralismo neo-medievale.

Questa posizione ambigua non dice nulla né al cattolico conservatore formatosi in occidente, che tende a prediligere un'intesa col capitalismo (per trasformarsi così in un "protestante" conservatore), né al cattolico progressista che, consapevole delle contraddizioni del capitalismo, non può certo vedere il socialismo (non quello "reale" ma quello "possibile") come fumo negli occhi, benché -bisogna ammetterlo- tale esigenza si manifesti più nel cattolicesimo terzomondista che non in quello occidentale, dove qui il cattolicesimo progressista -a causa del secolarismo- facilmente confluisce nei partiti della sinistra, rinunciando alle ispirazioni religiose tout-court.

La chiesa polacca esprime, in un certo senso, l'esigenza integralistica di un cattolicesimo passato, oggi in via di superamento: un'esigenza che presenta alcune tinte irrazionali poiché il contesto sociale contemporaneo, in cui è costretta a vivere, sempre meno le permette di radicarsi in un'esperienza concreta. A dire il vero, tale esigenza, con il crollo del socialismo di stato, sembra aver finalmente trovato in Polonia la possibilità di realizzarsi, ma è anche vero che ad essa si sono subito frapposti degli ostacoli assai difficili da superare. Il primo dei quali consiste nella laicizzazione della società civile in generale, che in Polonia, come in tutto il mondo, è progressivamente maturata; il secondo consiste nel fatto che, una volta distrutto il modello del socialismo di stato, ai polacchi sembra non rimanere altra via che l'intesa col capitalismo: cosa che l'integralismo cattolico non può accettare, dopo aver contribuito con tante "sofferenze" al crollo del comunismo, senza poter porre alcuna condizione o comunque senza violentare la propria coscienza.

La Centesimus annus si pone appunto l'obiettivo di chiarire al mondo occidentale a quali condizioni, ora che è crollato il comunismo, la chiesa è disposta a realizzare un'intesa, un "concordato". Forte del suo rapporto conflittuale, diretto, col socialismo di stato, la chiesa polacca e con essa tutto il cattolicesimo integralistico occidentale (per fortuna molto minoritario), presume ora di rivendicare un ruolo centrale nell'ambito del capitalismo (europeo e mondiale), offrendo soluzioni alternative alla stessa ideologia e prassi borghese.

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Nell'enciclica Wojtyla lo dice a chiare lettere: è stata la chiesa polacca a far scattare "i grandi moti avvenuti in nome della solidarietà"(n. 23), prima in Polonia, poi in tutta l'Europa centrorientale. Il modello dell'Europa del Terzo millennio, quella che, in nome del cattolicesimo-romano verrà riunificata dall'Atlantico agli Urali, è, per Wojtyla, la Polonia, il cui governo ora cerca di conciliare la "giustizia sociale col libero mercato", sottoponendo il mercato solo a un "relativo" controllo statale. Si tratta, per l'appunto, dell'affermazione della cosiddetta "terza via" tra capitalismo monopolistico e socialismo amministrato.

In che cosa consiste di preciso questa "terza via"? Che l'ideologia di Wojtyla ambisca a porsi come "terza via" (pur pretendendo di non essere un'ideologia politica al pari di tante altre) è documentato dal fatto ch'essa si avvale della Dottrina sociale della chiesa come di uno strumento teoretico per valutare, giudicare, in ultima istanza, la credibilità di tutte le ideologie laiche e umanistiche, suddivise da Wojtyla stesso in ateo-materialistiche e liberal-borghesi. "Non c'è vera soluzione della questione sociale fuori del vangelo", dice nell'enciclica (n. 5).

Questo riferimento costante, metodologico, al vangelo sta ad indicare l'integralismo di fondo della sua "terza via". Non tanto perché si afferma che una qualunque soluzione della questione sociale, antitetica ai contenuti del vangelo, non può essere democratica: in fondo un'interpretazione "aperta" dei vangeli (non clericale) potrebbe anche essere compatibile con una soluzione moderna dei conflitti di classe. Quanto piuttosto perché Wojtyla intende sostenere che una tale soluzione dovrebbe cercare nel vangelo i suoi presupposti fondamentali: col che in pratica si verrebbero a cancellare 2000 anni di storia e solo per fare un favore alla chiesa. Senza considerare che gli stessi vangeli -come vuole l'esegesi più avanzata- rappresentano una sorta di snaturamento del "vangelo" di Cristo, e quindi una forma, più o meno consapevole, più o meno voluta, di tradimento. 

Pretendere di conciliare lavoro e capitale in nome del vangelo potrebbe aver senso, sul piano ontologico, se si desse per acquisito che il "vangelo" (non scritto) del Cristo fu un tentativo rivoluzionario non riuscito di realizzare la giustizia sociale: un tentativo cui la comunità primitiva decise di rinunciare definitivamente al fine di legittimarsi agli occhi dell'autorità romana. Se la chiesa cattolica accettasse un'interpretazione del genere -cosa che potrebbe fare però solo rinnegando se stessa- allora si potrebbe anche concedere un fondo di verità alla tesi di Wojtyla.

Ma il suo integralismo non sta solo in questo costante e "formale" riferimento al vangelo. Lo si può notare anche laddove egli sostiene che senza fede religiosa la disumanizzazione dei rapporti sociali è inevitabile. A differenza di Montini e Roncalli, Wojtyla non riconosce alcuna vera autonomia alle realtà terrene, alcuna dignità alle posizioni laiche. La sua concezione di chiesa presume di possedere l'unica verità possibile, l'unica non ideologica, che tutte le forze sociali del mondo laico sono tenute a condividere, per il bene della loro stessa coerenza e libertà. La chiesa cattolica -viene detto nell'enciclica- offre "un'autentica teologia dell'integrale liberazione umana", "una nuova e autentica teoria e prassi di liberazione per combattere l'emarginazione e la sofferenza"(n. 26)

L'ateismo è considerato un male in sé, a prescindere dalle sue reali concretizzazioni pratiche, e un male così grande che viene posto a fondamento di tutto il "moderno totalitarismo"(n. 44). La vera causa del crollo del comunismo -dice Wojtyla- sta anzitutto nel "vuoto spirituale provocato dall'ateismo", oltre che dall'inefficienza del sistema economico e dalla violazione dei diritti del lavoro (nn. 23-24).

Addirittura il vero motivo per cui Wojtyla rifiuta la prassi del collettivismo socialista è la convinzione ch'essa sia strettamente legata alle posizioni più ateistiche. Il che, se anche fosse stato vero sul piano storico, non lo è certo su quello ideologico, almeno non in maniera così automatica, in quanto collettivismo e ateismo possono benissimo marciare separati o comunque paralleli, permettendo anche ai credenti di partecipare attivamente alla costruzione del socialismo. E' spiacevole che questa concezione così unilaterale, pregiudizievole, dell'ateismo porti Wojtyla a non riconoscere alcun lato positivo al collettivismo socialista, ovvero a non comprendere che le cause di fondo del collettivismo non stanno nell'ateismo bensì nei limiti della proprietà privata capitalistica, nelle contraddizioni socio-economiche tra capitale e lavoro.

In realtà, se si trattasse di affermare un "collettivismo cristiano", Wojtyla non avrebbe difficoltà di sorta. Anzi, pare proprio essere questa, in nuce, la sua concezione di "terza via", che trova le sue radici culturali nella sintesi polacca di neotomismo e fenomenologia husserliana, e che oggi può trovare qualche riscontro (sul piano del contenuto sociale, certo non dell'integralismo religioso) nel riformismo post-keynesiano. Prima di parlare di questo "collettivismo cristiano", bisogna premettere che Wojtyla, grazie al confronto diretto col socialismo reale, ha potuto rendersi conto che il concorrente più temibile del cattolicesimo non è tanto l'individualismo borghese, forte sì sul piano economico ma debolissimo su quello ideale (specialmente quando si fanno sentire le improvvise crisi energetiche o di sovrapproduzione), quanto piuttosto il collettivismo socialista, che pur avendo oggi fatto bancarotta sul piano economico, è stato per più di 70 anni una dolorosa spina nel fianco dell'integralismo cattolico e che può rischiare di ridiventarlo, se la perestrojka avesse successo (nel qual caso si realizzerebbe un "socialismo autogestito di mercato"), o se in Occidente scoppiassero nuovi conflitti di classe.

Le caratteristiche del "collettivismo cristiano" sembrano essere le seguenti: proprietà privata, universale destinazione dei beni, controllo parziale dell'economia da parte dello Stato (vedi i già noti principî della sussidiarietà e della solidarietà) e uno Stato di diritto con divisione dei tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo e giudiziario.

La proprietà privata è il principio basilare che non si tocca, quello che, in ultima istanza, indurrà sempre l'integralismo cattolico a optare per il capitalismo piuttosto che per il socialismo. Il capitalismo infatti, agli occhi di Wojtyla, ha bisogno dell'orientamento spirituale della chiesa, mentre il socialismo marxista presume di poterne fare a meno. D'altra parte, dice Wojtyla, in Occidente la proprietà privata non ha causato più danni di quelli causati dalla proprietà collettiva nell'est-europeo. "Nella società occidentale è stato superato lo sfruttamento, almeno nelle forme analizzate e descritte da Carlo Marx"(n. 41). Per quanto riguarda l'Occidente non si può più parlare di "sfruttamento", ma solo di "alienazione", la quale appunto nasce nella sfera del "consumo" (mercificazione delle cose), e non in quella della produzione. Emarginazione e sfruttamento esistono più che altro nel Terzo mondo. Il capitalismo, dunque, è carente non tanto sul piano socio-economico, quanto su quello etico, poiché antepone al primato dell'uomo quello delle cose.

L'analisi sociale ed economica del capitalismo è tutta qui: in essa -come si può notare- è totalmente assente la concezione d'uno sfruttamento oggettivo (oggi peraltro tanto mentale quanto fisico), connesso al plusvalore e scientificamente dimostrabile; è assente anche un qualunque riferimento al rapporto imperialistico e neocoloniale che lega la metropoli con la periferia dell'area capitalistica; vi è, appena accennata, la ben nota filosofia cattolica del lavoro, secondo cui non è quest'ultimo ma la persona che crea "valore", a prescindere dal suo lavoro (filosofia, questa, che in Polonia ha permesso alla chiesa polacca di riprendere i rapporti col movimento operaio).

Wojtyla, come tutta l'ideologia borghese, insiste nel condannare la proprietà collettiva dei mezzi produttivi, senza fare alcuna distinzione tra proprietà "statale" (che si è, in effetti, rivelata fallimentare) e proprietà "sociale" (quella che in virtù della perestrojka dovrebbe portare a una forma superiore di socialismo). Questa seconda proprietà non può essere considerata peggiore, di per sé, di quella privata del capitalismo: sia perché lo stesso capitalismo, pur di sopravvivere, va a cercare forme di cogestione quasi a tutti i livelli, tra imprenditori e operai; sia perché lo stesso pontefice esclude che la proprietà privata debba ritenersi un "valore assoluto", in quanto va misurata col principio della "universale destinazione dei beni".

E' bene tuttavia precisare che per Wojtyla la "destinazione universale dei beni" è più che altro un principio morale, non politico, e neppure giuridico, come invece quello della proprietà privata. E' giuridico, se vogliamo, solo in quanto fa parte della Dottrina sociale della chiesa. Il diritto naturale della proprietà privata è un "diritto acquisito", mentre l'altro principio è ancora un diritto da acquisire, un diritto che, nell'ambito storico, potrà esserlo solo se vi sarà da parte dei proprietari privati una disponibilità a suo favore. Per loro, infatti - Wojtyla se ne rende conto-, la proprietà privata appare più facilmente come un "valore assoluto": ecco perché la chiesa si sente in dovere di minacciarli di una punizione eterna, divina, dando per scontato ch'essi vogliano ascoltarla appunto in quanto borghesi di "religione cattolica"! (Da notare che il principio della "destinazione universale dei beni" non è altro che la "proprietà comune": termine, questo, che Wojtyla evita accuratamente di pronunciare temendo l'accusa borghese di "filo-comunismo", tant'è vero che il suo portavoce, il card. R. Etchegaray, nel presentare l'enciclica, s'è subito preoccupato d'affermare che non si trattava di un documento "antioccidentale").

Wojtyla, relativamente al concetto di proprietà privata, è arrivato nell'enciclica a formulare cose molto impegnative. Dice ad es. al paragrafo 43: "La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa invece illegittima quando non viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall'espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall'illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro". Tuttavia, sul piano politico, Wojtyla esprime sempre le posizioni più retrive, che lo avvicinano al conservatorismo anticomunista attualmente al potere in quasi tutto il mondo occidentale. Solo sul piano dell'analisi sociale Wojtyla s'avvicina maggiormente al riformismo post-keynesiano, essendo contrario alla deregulation, cioè al non-intervento dello Stato nell'economia.

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E ora vediamo la sua concezione di Stato e di lotta di classe. Anzitutto va detto che per conseguire la proprietà comune Wojtyla esclude categoricamente l'uso dello strumento della lotta di classe. Come noto, la lotta di classe non è stata una scoperta del marxismo, ma della migliore storiografia borghese, la quale s'era accorta che nel difendere la proprietà privata la borghesia doveva appunto condurre una lotta di classe. Tale principio, dunque, se proprio non piace, perché fonte di drammi e tragedie, andrebbe abolito per entrambe le parti in causa: imprenditori ed operai e non solo per una, peraltro quella più debole, perché appunto priva di proprietà. Dire che con la lotta di classe si sostituisce un "bene comune" con un "interesse di parte" (n. 14), è dire cosa assolutamente astratta, poiché è come se si ponessero sullo stesso piano, qualitativo e quantitativo, due classi completamente diverse. Ritenere che quello operaio sia un interesse di "parte" mentre quello dell'imprenditore un "bene comune", significa farsi gioco della ragione e del buon senso.

Correlata a questa visione "di parte" della lotta di classe è la concezione non meno astratta dello Stato, visto secondo l'ottica borghese che lo pone al di sopra di ogni classe. Wojtyla, in particolare, afferma che lo Stato non ha il compito di "assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini"(n. 48), altrimenti si trasformerebbe in uno Stato socialista. Esso ha solo "il dovere di assecondare l'attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro". Wojtyla usa il termine "occasioni" non "certezze", per cui, in sostanza, ritiene che la disoccupazione sia un male endemico del capitalismo, che né lo Stato né le imprese si devono preoccupare di sanare definitivamente. Lo Stato ha il diritto-dovere d'intervenire "quando situazioni particolari di monopolio" creano difficoltà allo sviluppo. Quindi l'idea è quella di uno Stato paternalistico, capace di svolgere "funzioni di supplenza".

E' però difficile dire che tipo di Stato voglia Wojtyla. Certo non uno troppo forte, di tipo anglosassone, poiché la posizione politica della chiesa ne verrebbe danneggiata. E neppure uno Stato assistenziale (almeno così come s'è venuto configurando in quest'ultimo decennio), poiché esso non è che una brutta imitazione di quello socialista: deresponsabilizza e burocratizza la società. Wojtyla però sembra essere contrario alle posizioni anti-keynesiane del monetarismo (supply-side economics), che pretendono una limitazione sostanziale dell'intervento statale in economia. Egli piuttosto vuole che i monopoli siano sottoposti a un parziale controllo e che lo Stato regolamenti il conflitto tra lavoro e capitale. Lo Stato cioè deve essere veramente di "diritto", anche nei confronti dell'economia: esso ha "il compito di determinare la cornice giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti economici" (n. 15). Uno Stato quindi più attivo, meno soggetto ai monopoli, in grado di permettere al "privato" e soprattutto, si può immaginare, al "privato sociale" di potersi esprimere con relativa facilità. Uno Stato che metta d'accordo monopoli e sindacati nelle trattative contrattuali.

Al di là di questo compito, lo Stato deve riconoscere la propria subordinazione all'individuo, alla famiglia e alla società civile (ove il potere della chiesa è direttamente o indirettamente -attraverso partiti e sindacati- più forte). Da un lato quindi Wojtyla si pone il problema di come "migliorare" il capitalismo, dall'altro si chiede come meglio "clericalizzarlo". Quello che manca, in tale prospettiva neo-corporativa, è una vera alternativa alla società borghese. La sua concezione politica di Stato, che è senz'altro più "idealistica", più "etica" di quella della borghesia occidentale (quanto in ciò abbia influito il rapporto col socialismo reale, è evidente), potrebbe anche trovare dei consensi da parte della sinistra occidentale riformista. Ma il fatto che le sue proposte non vengano neppure prese in considerazione da tale sinistra sta a testimoniare che l'integralismo con cui si vorrebbe realizzarle è un ostacolo insormontabile per qualunque tipo di rapporto. E' difficile discutere con una posizione che auspica la creazione di "strutture internazionali capaci d'intervenire" appena si prospettano rivendicazioni comuniste (n. 27).

L'interdipendenza dei popoli, la solidarietà tra le nazioni (anche al fine di costituire un governo sovranazionale) sono viste soprattutto in funzione anticomunista. Non solo, ma tali organismi dovrebbero anche ridimensionare le pretese fondamentaliste dell'Islam, che "restringono il diritto della chiesa a predicare il vangelo"(n. 29). Per non parlare del fatto che senza pensare a una "democrazia sociale alternativa", in cui veramente i lavoratori siano "padroni" dei mezzi che usano, una qualunque riforma del capitalismo (condotta anche in nome di una maggiore pianificazione) non farà che peggiorare le condizioni dei lavoratori, alle quali la chiesa non potrà certo porre rimedio col "fenomeno del volontariato", con "la ricerca della verità" o con "la cultura della nazione"...

Preoccupante, in modo particolare, è l'analisi dell'enciclica relativa alla situazione del Terzo mondo. Anzitutto Wojtyla ribadisce che "l'opzione preferenziale per i poveri non è mai esclusiva né discriminante verso altri gruppi", anche perché esistono forme di "povertà culturale e religiosa"(n. 57): quindi nessuna apertura alle tesi della Teologia della liberazione. In secondo luogo, Wojtyla afferma che in queste realtà più che di "sfruttamento" bisognerebbe parlare di "emarginazione"(n. 33). In che senso? Wojtyla lo intende solo nel senso che i popoli del Terzo mondo sono tenuti ai margini della ricchezza mondiale. E' tutta qui l'analisi dei rapporti di dipendenza neocoloniale che lega Nord a Sud.

Il fatto è che Wojtyla non ama parlare di "sfruttamento economico" (al massimo usa l'espressione "sfruttamento morale del lavoro"), perché si rende conto che tale parola rischia sempre di legittimare le rivendicazioni socialiste. Ecco perché, con molta reticenza, afferma che "oggi molti uomini, forse la grande maggioranza" non è in grado di creare una libera impresa capitalistica (n. 33). C'era forse bisogno di dubitarne?

Preso da fastidioso imbarazzo, Wojtyla arriva addirittura ad affermare che nel Terzo mondo non c'è vero sfruttamento, in quanto le merci capitalistiche qui prodotte sono "ben rispondenti ai bisogni"(n. 33)! A suo parere il decolonialismo economico è un obiettivo irrealizzabile poiché il Terzo mondo non può aspirare a una vera autonomia economica. Anzi, le nazioni più "deboli" (a livello tecnico-scientifico e naturalmente militare) devono fare gli "sforzi" e i "sacrifici" necessari (sic!) per garantire la stabilità del mondo contemporaneo, mentre le nazioni più "forti" cercheranno d'inserirle più attivamente nella vita internazionale. I debiti, p.es., vanno "pagati", anche se si possono trovare modalità di "alleggerimento, dilazione ed estinzione". Tutto qui.

* * *

Per concludere. Wojtyla riflette due esigenze parallele: una è quella dell'integralismo politico-religioso del cattolicesimo conservatore, che ancora ambisce a porsi a capo dell'Europa (occidentale e orientale) sul piano dei valori umani, tentando di servirsi, a tale scopo, del modello polacco; l'altra è quella della borghesia media e piccola che necessita di uno Stato più democratico, se vogliamo più "sociale", meno legato allo strapotere dei monopoli, ma che resti sempre nell'ambito del capitalismo. In effetti, nell'Europa occidentale e, se vogliamo, in tutta l'area metropolitana del capitalismo, è sempre più avvertita l'esigenza di trovare un nuovo compromesso tra la realtà del capitalismo monopolistico di stato, che tende a privatizzare ogni giorno di più le forze produttive, ingigantendole all'inverosimile, e il crescente bisogno di protagonismo produttivo e commerciale, nonché di partecipazione sociale delle masse lavoratrici e dei cittadini alla gestione del mercato e della cosa pubblica, anche in virtù del fatto che il livello culturale, in questi ultimi tempi, è notevolmente cresciuto.

In un certo senso, la posizione di Wojtyla sembra riflettere la massima conciliazione possibile tra socialismo e cristianesimo da un punto di vista borghese, benché la grande ambizione della chiesa polacca e, se vogliamo, di tutto l'integralismo cattolico (CL inclusa) è quella di superare il marxismo inverandolo in modo cristiano. Dando per scontata l'impossibilità di realizzare, in modo laico, gli ideali marxisti e leninisti, tale posizione può tranquillamente usare un linguaggio pseudo-socialista. In questi termini, essa può trovare un appoggio nella borghesia solo in quanto esprime delle tendenze anticomuniste, e potrebbe trovarne nel riformismo socialdemocratico se rinunciasse all'integralismo. Difficilmente riuscirà a trovarne negli ambienti cattolici progressisti (specie quelli sudamericani) per i quali il socialismo può ancora rappresentare, se riveduto e corretto, un'alternativa credibile al capitalismo. Questi cattolici, che pur hanno condiviso la giusta critica fatta al socialismo reale di fagocitare la libertà umana, non hanno alcun timore che un'affermazione più democratica del collettivismo socialista possa togliere all'integralismo ogni pretesa di alternatività.

Enrico Galavotti - www.homolaicus.com