Adam Smith: la mano invisibile, il mercato e l’azione politica

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Adam Smith: la mano invisibile, il mercato e l’azione politica

I - II - III

A. Smith

Giuseppe Bailone

Per produrre più spilli in minor tempo ci vuole la divisione del lavoro.

Decidere se produrre spilli o altro, e in che misura, è però un altro problema.

“Cercando per quanto può d’impiegare il suo capitale […] in modo che possa avere il massimo valore, ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società. Invero, generalmente egli né intende promuovere l’interesse pubblico né sa quanto lo promuova. […] Egli mira soltanto alla sua sicurezza; […] egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in molti altri casi, egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non rientrava nelle sue intenzioni. Né per la società è sempre un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intenda realmente promuoverlo. Non ho mai visto che sia stato raggiunto molto da coloro che pretendono di trafficare per il bene pubblico”.1

Siamo nel bel mezzo del monumentale capolavoro di Smith, La ricchezza delle nazioni, scritto al ritorno da un lungo viaggio in Europa nel corso del quale egli ha potuto misurarsi con le diverse teorie della nascente economia politica, in particolare con i fisiocrati francesi e con i mercantilisti. In quest’opera Smith incardina l’economia politica sull’idea che all’origine del valore economico ci sia il lavoro e ne sviluppa le implicazioni. Se la ricchezza delle nazioni non risiede nei metalli preziosi e neppure nei prodotti della terra, ma nel lavoro umano, l’attenzione dell’economia politica deve essere diretta all’organizzazione del lavoro, al fine di trarne la maggior quantità possibile di bene. E, non a caso, infatti, il capolavoro di Smith si apre con i primi tre capitoli dedicati interamente alla divisione del lavoro, la novità più significativa dell’incipiente processo di industrializzazione.

Consapevole della rivoluzionaria novità rappresentata dall’industrializzazione, Smith costruisce una teoria di economia politica che tende a favorirne lo sviluppo. Critica il mercantilismo e la fisiocrazia: il primo per il suo organico legame con gli interessi del mercante tradizionale, sempre teso alla conquista di monopoli e di privilegi, il secondo per il suo sostegno privilegiato, se non esclusivo, all’agricoltura. Smith vede nella borghesia, in particolare in quella orientata verso l’investimento dei propri capitali nel lavoro industriale, la classe sociale più dinamica e più capace di promuovere il benessere pubblico. Sostiene, pertanto, la necessità che essa sia liberata dai molti vincoli tradizionali e sia messa in condizioni di sviluppare in piena libertà le straordinarie capacità produttive del modello industriale. Lo Stato può aiutare questo processo, non intervenendo in campo economico, ma assicurando piena libertà ai soggetti imprenditoriali privati, mossi dalla naturale ricerca del proprio interesse, e in ciò guidati dalla “mano invisibile” che li armonizza con l’interesse pubblico. Deve, quindi, opporsi ai monopoli e ai vincoli tradizionali che certi settori produttivi si sono, nel corso del tempo, assicurati a scapito degli altri, con effetti negativi sul bene comune. Non deve cambiare indirizzo ai propri interventi protettivi, ma sottrarsi alle pressioni di quei gruppi privati potenti che “pretendono di trafficare per il bene pubblico”.

Smith si muove, in politica economica, sulla scia di Mandeville, ma con due importanti novità: non parla di vizi, come faceva un po’ moralisticamente Mandeville, bensì d’interessi privati, e non crede nel tipo d’intervento politico in economia previsto da Mandeville, ancora legato alla fase mercantile dello sviluppo capitalistico. Per lui, l’intervento politico, orientato al bene comune, deve correggere i naturali effetti negativi del libero gioco delle tendenze umane naturali.

Smith è un filosofo che si occupa di economia e la fonda come scienza; comincia insegnando filosofia e alla morale dedica l’opera che pubblica la prima volta nel 1759, ma sulla quale torna più volte fino alla sua morte.

Egli non consegna semplicisticamente la società al mercato, perché questo crea problemi che, come quelli prodotti dalla divisione del lavoro, non possono essere risolti che dalla politica. Smith sa bene che il mercato nasce sì dalla tendenza naturale, solo umana, allo scambio, ma poi si realizza come istituzione con caratteristiche storiche determinate. Il libero mercato è in lui un’ideale per liberare il mercato reale dai vincoli che gruppi d’interesse potenti hanno imposto, piegando lo Stato al loro servizio. È un mito di liberazione, ma noi non possiamo pensare che egli credesse veramente nell’utopia del libero mercato; che ci fosse in lui la fiducia metafisica che l’immagine della mano invisibile sembra suggerire.

L’importanza dell’immagine della mano invisibile non va enfatizzata.

Essa compare una sola volta nella Ricchezza delle nazioni, nel passo citato, e in altri due scritti anteriori, la Storia dell’astronomia (pubblicata postuma, ma risalente alla metà del secolo) e la Teoria dei sentimenti morali.

“Nella Storia dell’astronomia, Smith – scrive Alessandro Roncaglia, che al mito della mano invisibile e al suo forte rilancio nei tempi nostri ha dedicato uno studio molto interessante – parla della «mano invisibile di Giove», alla quale i popoli politeisti primitivi fanno ascendere tuoni e fulmini, temporali e bel tempo, ma non i fenomeni naturali regolari, come il fatto che il fuoco scaldi o che i corpi pesanti cadano verso il basso; il riferimento è dunque ironico, se non sprezzante: «la più bassa e pusillanime superstizione prende il posto della filosofia», cioè della conoscenza scientifica”.2

Nella Teoria dei sentimenti morali, la “mano invisibile” indica, invece, un ordine analogo a quello del passo tratto da La ricchezza delle nazioni.

Ecco il passo: “Non serve a niente che il superbo e insensibile proprietario terriero ispezioni i suoi vasti campi, e che, senza pensare ai bisogni dei suoi fratelli, nell’immaginazione consumi da solo tutto il grano che vi cresce. Il familiare e comune proverbio, che dice che l’occhio è più grande della pancia, non è mai stato così vero come nel caso suo. La capacità del suo stomaco non regge il paragone con l’immensità dei suoi desideri, e non è maggiore di quella del più umile contadino. Egli è costretto a distribuire il resto tra quelli che preparano, nel migliore dei modi, quel poco che lui stesso utilizza, tra quelli che allestiscono il palazzo in cui quel poco verrà consumato, tra quelli che curano e tengono in ordine tutte le bagatelle e i gingilli nell’amministrare la grandezza. Tutte queste persone, così, ricevono dal suo lusso e dal suo capriccio quella parte di cose necessarie alla vita che avrebbero invano aspettato dalla sua umanità e dalla sua giustizia. La produzione del terreno mantiene in ogni momento quasi lo stesso numero di persone che è in grado di mantenere. I ricchi non fanno altro che scegliere nella grande quantità quel che è più prezioso e gradevole. Consumano poco più dei poveri, e, a dispetto del loro naturale egoismo e della loro naturale rapacità, nonostante non pensino ad altro che alla propria convenienza, nonostante l’unico fine che si propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani e insaziabili desideri, essi condividono con i poveri il prodotto di tutte le loro migliorie. Sono condotti da una mano invisibile a fare quasi (corsivo mio)3 la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie. Quando la Provvidenza divise la terra tra i pochi proprietari, non dimenticò né abbandonò quelli che sembravano esser stati lasciati fuori dalla spartizione. Anche questi ultimi hanno la loro parte in quel che la terra produce. Per quel che costituisce la reale felicità della vita umana, non sono sotto nessun rispetto inferiori a quelli che sembrerebbero molto al di sopra di loro. Nel benessere fisico e nella tranquillità mentale, tutti i diversi ranghi della vita sono quasi sullo stesso piano, e il mendicante che si crogiola al sole al margine della strada possiede quella sicurezza per la quale i re combattono”.4

Questo passo si trova in un capitolo in cui Smith illustra “l’inganno” col quale la natura “risveglia e tiene continuamente in movimento l’industriosità dell’uomo”. Si tratta di quel piacere che l’uomo prova per l’utilità di un oggetto, “perché gli suggerisce di continuo il piacere o la comodità che esso è adatto a promuovere”. È il sentimento che porta “un uomo appassionato di orologi” a disprezzare “un orologio che resta indietro più di due minuti al giorno”; che spinge molte persone a “buttar soldi per gingilli di frivola utilità”, apprezzati per la loro idoneità a produrre alla perfezione effetti di cui non si ha bisogno. Si tratta, come dice il titolo del capitolo, della “bellezza che tutte le produzioni dell’arte ricevono dall’apparenza di utilità, e la grande influenza di questo tipo di bellezza”. Un sentimento che muove l’industriosità umana, anche molto oltre i bisogni vitali reali.

Un sentimento che Smith ha imparato ad apprezzare dallo studio che ne ha fatto Hume, “un ingegnoso e piacevole filosofo, che unisce la più grande profondità di pensiero alla più grande eleganza dell’espressione, e possiede il singolare e felice talento di trattare gli argomenti più astrusi non solo con la più perfetta chiarezza, ma anche con la più vivace eloquenza”.

L’uomo ammira e cerca di assicurarsi tutto ciò che appare capace di produrre effetti di utilità, indipendentemente dai suoi reali bisogni. È “l’inganno” che spinge molti ad arricchirsi, nella convinzione di raggiungere quella “sicurezza” che il mendicante si gode crogiolandosi al sole, mentre gli altri si agitano tanto e, senza volerlo, anche per lui.

C’è effettivamente una buona dose di fiducia ottimistica in questo passo così come in quello analogo della Ricchezza delle nazioni. Ma c’è anche l’idea che i privati, soprattutto se potenti, è bene che non pensino a “trafficare per il bene pubblico”, cercando di piegare lo Stato ai loro piani particolari: al bene pubblico possono contribuire limitandosi a curare i loro interessi.

Secondo Alessandro Roncaglia, questi due passi “non offrono una base adeguata per attribuire alla tesi della mano invisibile del mercato un ruolo centrale nel pensiero economico di Smith”.

“Conviene ricordare – spiega Roncaglia – che nel Sei-Settecento, quando nasce la riflessione scientifica sul modo di funzionare delle società umane, i temi principali al centro della discussione sono due: quello delle ‘passioni e interessi’, cioè delle motivazioni dell’agire umano, e quello della possibilità che gli esiti di tale agire, corrispondano o meno agli obiettivi diretti e immediati dei soggetti agenti, includano anche effetti involontari, ma comunque positivi per la società. La cultura illuministica è, nel complesso, ottimista; la maggioranza degli intellettuali dell’epoca ritiene, in primo luogo, che le diverse passioni e gli interessi che indirizzano l’agire umano possano trovare una composizione virtuosa, un equilibrio; in secondo luogo, che gli esiti delle azioni umane, direttamente motivate da passioni e interessi personali dell’agente, possano risultare positivi per la società, pur se il bene collettivo non era l’obiettivo che ne aveva originariamente indirizzato l’azione. Tuttavia, questi esiti non sono considerati necessari, automatici. Possono essere ottenuti, in qualche misura, solo se vengono rispettate alcune condizioni. Ed è qui che le strade della riflessione teorica si dividono.

Da un lato abbiamo quanti sostengono che gli esseri umani, e le istituzioni, sono imperfetti e inevitabilmente resteranno tali, pur se possono essere migliorati. C’è ottimismo verso il progresso, ma l’ottimismo non è incondizionato. […] Dall’altro abbiamo quanti ritengono […] che una volta realizzato l’assetto istituzionale indicato dalla Ragione come perfetto, tutto andrà necessariamente nel migliore dei modi. La distinzione è, in sostanza, tra i due grandi filoni dell’Illuminismo: quello dell’esprit de finesse, l’utilizzo della ragione per l’analisi critica e il rifiuto o l’accettazione consapevole e sempre provvisoria delle tesi proposte nel dibattito; e quello dell’esprit de système, l’esaltazione della Ragione (con la R maiuscola, perché quasi divinizzata) come costruttrice di veri propri sistemi intellettuali. Smith appartiene al primo filone; l’idea del miracolo della mano invisibile del mercato appartiene al secondo”.5

La considerazione del mondo culturale in cui Adam Smith si è formato e del suo rapporto con Hume ci convincono a condividere la tesi di Roncaglia.

Smith è molto lontano dallo spirito di sistema di tipo cartesiano e il progresso umano è per lui una possibilità che solo una ragione consapevole dei propri limiti può cercare di realizzare, senza garanzia assoluta di successo.

Una lettura completa e non faziosa di Smith ci insegna che il progresso umano non è solo questione di PIL e di giudizio del Mercato, come oggi ci viene spesso insegnato, con l’abuso del nome autorevole di Adam Smith.

Essa ci insegna che il mercato è un’istituzione storica complessa, non un sistema naturale da venerare come una divinità. Ci consiglia attenzione costante alla formazione delle posizioni di privilegio e di concentrazioni di ricchezza. Ci insegna a diffidare dei gruppi privati potenti quando pretendono di orientare l’azione dello Stato nella realizzazione del pubblico bene.

Ci insegna, soprattutto, che l’economia non è il sapere assoluto cui affidare le sorti dell’umanità; che ogni teoria economica ha dei presupposti e degli effetti sociali sui quali deve intervenire la filosofia, la riflessione morale e politica.

Da Adam Smith apprendiamo che, se sono gli interessi privati a muovere gli uomini verso la creazione della ricchezza delle nazioni, è però lo Stato che deve provvedere al bene comune.

Smith fonda sì la moderna scienza dell’economia politica, ma è un filosofo, particolarmente interessato ai problemi della morale e della vita sociale. Il suo discorso economico va quindi considerato alla luce dell’intero suo pensiero.

Note

1 Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, ed. UTET 2006, p. 584.

2 Alessandro Roncaglia, Il mito della mano invisibile, ed. Laterza 2005, p. 19.

3 “Scrive Alessandro Roncaglia, a p. 20 del saggio citato: “Per fortuna Smith si cautela dietro quel ‘quasi’, dal momento che a rigore la sua affermazione è indimostrata e indimostrabile”.

4 Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, ed. BUR 2009, pp. 375-6.

5 Alessandro Roncaglia, Il mito della mano invisibile, ed. Laterza 2005, pp. 20-22.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 10 febbraio 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015