PROTAGORA: verità e utilità nella sofistica

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PROTAGORA: VERITA' E UTILITA' NELLA SOFISTICA

I - II

Se nella storia della filosofia c'è un filosofo noto solo per una sua frase, che tutto il mondo conosce, questi è il sofista Protagora, per il quale "l'uomo è misura di tutte le cose". Un'espressione così astratta e generica che ogni buon manuale scolastico si preoccupa subito di rilevare ch'essa può essere interpretata in ben tre modi diversi.

Se infatti per "uomo" Protagora intendeva il singolo individuo, allora la verità è relativa all'utile meramente personale. Se invece intendeva un collettivo, allora aveva in mente una verità relativa alle poleis, agli Stati, alle popolazioni. Se infine intendeva il genere umano, allora voleva dire che gli dèi non esistono e che tutto dipende dagli uomini. Tre interpretazioni molto diverse, delle quali certamente la prima non gli fa onore.

L'accostamento del vero all'utile non deve comunque stupirci, poiché è tipico di tutti i sofisti, ai quali, proprio a motivo del loro agnosticismo e ateismo, s'impediva di parlare in pubblico, d'insegnare ai giovani, venivano mosse accuse di empietà, dopodiché li si condannava a morte o all'esilio. Da molti venivano considerati degli individui pericolosi, perché combattevano contro tradizioni aristocratiche e politeistiche, contro le città-Stato confessionali, e lo facevano non più come i "filosofi della natura" cresciuti nelle colonie ioniche e nella Magna Grecia, ma come "filosofi della natura umana". La stessa tradizione risalente a Platone e Aristotele ci ha tramandato di loro una pessima reputazione: venali, individualisti, cinici, ciarlatani, parolai e così via.

L'equazione di verità e utilità è invece stata un loro punto di forza, almeno finché la democrazia di Pericle è rimasta in auge e li ha protetti. I sofisti avevano tutte le ragioni di questo mondo a sostenere che non esiste affatto una verità aprioristica e assoluta, dimostrabile a prescindere da qualunque esperienza, quanto piuttosto una verità contingente, la cui efficacia può essere misurata solo a posteriori. Avevano capito, 2300 anni prima di Marx, che solo la prassi è il criterio della verità. Avevano capito, 500 anni prima di Cristo, che l'uomo non è fatto per il sabato, ma il contrario.

Semmai ci sarebbe da discutere su altre questioni. La prima è arcinota: il fatto cioè che se è corretto dire che la verità è relativa, allora questa stessa affermazione va considerata relativa. Questo perché una relatività assoluta è solo una contraddizione in termini.

Insomma sarebbe meglio fare differenza tra verità soggettiva e verità oggettiva. Una verità oggettiva non può essere smontata così facilmente come quella soggettiva. Una verità diventa oggettiva quando viene fatta propria dalla stragrande maggioranza delle persone, le quali però non possono pretendere di trasformarla in un dogma. L'intelligenza delle cose la si verifica appunto nella capacità di sapersi sempre misurare con la diversità, con l'opinione controcorrente, con nuove dimostrazioni di altre verità. Le minoranze non possono essere messe a tacere. Nel gioco della democrazia si deve permettere loro di diventare maggioranza.

Quand'è che una verità oggettiva necessita d'essere riveduta e corretta? Semplicemente quando mutano le condizioni in cui essa era stata precedentemente formulata. Sono i bisogni che devono dettare legge, ed essi mutano di continuo, e non per questo dobbiamo sostenere che tutto è relativo.

Certo, si può discutere sulle priorità da assegnare a questo o quel bisogno, ma non si può rimandare all'infinito la necessità di trovare una risposta a tutti i bisogni. E, in tal senso, si è già capito in che modo va inteso il significato della parola utilità. La migliore verità è quella più utile a chi ha più bisogni. Il confronto tra le varie opinioni deve vertere non su tale evidenza, ma proprio sul tipo di risposta da dare ai bisogni, sulle modalità delle soluzioni da offrire.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015