NIETZSCHE Ebraismo e Cristianesimo

FRIEDRICH NIETZSCHE
Dall'ateismo all'irrazionalismo


IN MARGINE ALL'ANTICRISTO DI NIETZSCHE

(Si fa riferimento al volume edito da Newton, Roma 1992)

Ebraismo e Cristianesimo

Quando il cristianesimo primitivo chiedeva di separare Dio da Cesare faceva sostanzialmente "politica" contro quell'integralismo romano che non separava mai le questioni religiose da quelle civili, considerando la religione un naturale strumento nelle mani dello Stato, ma anche contro quella sorta di teocrazia laica che ad un certo punto cominciò a vedere nell'imperatore una sorta di divinità in carne ed ossa. Ecco perché i cristiani furono subito accusati non solo di essere "atei", in quanto col loro monoteismo venivano a negare qualunque ragion d'essere a una miriade di divinità, ma anche di essere dei "sovversivi", in quanto con la loro diarchia sembravano minare le fondamenta di un impero assolutistico.

Come noto, la pretesa autonomia della chiesa nei confronti dello Stato porterà nell'alto Medioevo dell'Europa occidentale alla costituzione di uno Stato della chiesa vero e proprio: cosa che nell'area ortodossa e slavo-bizantina non avverrà mai, o comunque non nelle stesse forme istituzionali e autoritarie del cattolicesimo-romano.

L'ebraismo, dal canto suo, almeno dal momento dell'istituzione della monarchia sino all'esilio babilonese, ha sempre avuto nella persona del monarca la sintesi delle tre principali funzioni del potere, come spesso accadeva nelle religioni di quel tempo: regale, sacerdotale e profetica. Questo nella religione cristiana non si è mai verificato, perché accanto alla chiesa cristiana c'è sempre stato lo Stato cristiano (concreto nella persona del sovrano, oppure astratto, nella forma istituzionale moderna). La chiesa cristiana ha sempre riconosciuto la funzione regale al sovrano (o addirittura la concedeva): al massimo avocava a sé le altre due funzioni.

Questo perché il cristianesimo, a differenza dell'ebraismo, non ha mai ritenuto possibile un'effettiva liberazione dell'uomo dalle contraddizioni sociali. Il regno di dio poteva essere solo "nei cieli". Anche quando la chiesa cattolico-romana ha preteso di dominare il mondo a partire dalla svolta di Gregorio VII, essa non si è mai posta l'obiettivo di realizzare la liberazione sociale degli uomini. L'unico vero obiettivo era stato quello di sottomettere il potere politico dell'imperatore al potere religioso, realizzando così l'integralismo politico-religioso della fede, cioè la teocrazia: cosa che generò conflitti interminabili.

L'ebraismo esprime una fede più ingenua di quella cristiana e, forse per questo, più vera. Il cristianesimo infatti, a fronte di un'esigenza di liberazione sociale e nazionale, manifestata dal Cristo e politicamente tradita dagli apostoli, si è sentito indotto ad elaborare una religione particolarmente astratta, una sorta di filosofia della religione, che l'ebraismo, pur essendo la religione del "libro" per eccellenza, non ha mai conosciuto se non in termini molto riduttivi (l'Ecclesiaste p.es. rappresenta una filosofia della religione, ma è un testo del tutto marginale nell'economia dell'Antico Testamento). L'ebraismo è piuttosto la religione del diritto.

Quando il cristianesimo cade nel giuridismo della fede e dell'esperienza religiosa, quando cade nell'integralismo politico-religioso della fede, esso risente dell'influenza ebraica, ma in maniera negativa, poiché le esigenze sono mutate: non solo perché in luogo del nazionalismo è subentrato l'universalismo, ma anche perché al primato della legge il cristianesimo, in via di principio, dovrebbe opporre quello dell'amore.

L'influenza dell'ebraismo va in tal senso considerata negativa, anche se, ai tempi d'oro della sua affermazione storica, quegli aspetti erano positivi, in quanto avevano permesso un'esperienza più liberatoria di quella che permettevano le religioni pagane (egizia, babilonese ecc.). Si può in un certo senso dire che il diritto è entrato nella storia grazie agli ebrei, che usarono la legge in contrapposizione all'arbitrio del potere politico.

Ma il migliore cristianesimo dunque qual è? Quello che ha voluto separare Dio da Cesare, rivendicando una propria autonomia religiosa, attraverso la quale si voleva sostenere l'impossibilità di realizzare sulla terra un'effettiva liberazione umana, oppure quello che ha voluto riunificare Dio e Cesare in nome del Cristo e quindi del suo vicario, il pontefice, lasciando così credere che una tale liberazione fosse possibile anche sulla terra? Oppure è quello che, pur conservando la separazione dei poteri, permette al cristiano di lottare politicamente come laico (ciò che si è appunto verificato nei paesi socialisti)? Quest'ultimo cristianesimo è davvero sostenibile alla lunga? Pare di no, in quanto troppo contraddittorio con le sue premesse, che restano pessimistiche nei confronti delle possibilità emancipative della politica.

La prima forma di cristianesimo, che è anche quella più antica, è forse stata la migliore, poiché ci si è limitati a rivendicare una piena autonomia della religione dallo Stato, che voleva imporre una propria religione o un proprio modo di considerare la religione in sé.

Tuttavia, con Costantino prima e Teodosio dopo, il cristianesimo ha accettato di lasciarsi strumentalizzare politicamente, ottenendo in cambio il privilegio d'essere considerato l'unica religio licita.

Mentre prima di questa svolta la politica cristiana era limitata a un obiettivo: eliminare l'integralismo politico-religioso dello Stato romano (che era tollerante nei confronti di ogni religione solo a condizione che si riconoscesse il primato degli interessi politici di Roma, per i quali ogni religione doveva considerarsi come instrumentum regni), con Teodosio invece la politica imperiale si fa "cristiana" a tutto campo, sebbene le gerarchie ecclesiastiche non abbiano mai accettato di conferire o di riconoscere al monarca le tre suddette funzioni tradizionali del potere.

Con la riforma di Gregorio VII la chiesa romana ha preteso addirittura di considerare la politica del monarca uno strumento a disposizione degli interessi temporali ecclesiastici: cosa che naturalmente mai nessun sovrano accetterà e che si concluderà, dopo la lotta per le investiture, con un compromesso politico, col quale la chiesa potrà rivendicare un primato politico solo nell'ambito del proprio territorio. Al di fuori dei confini dello Stato della chiesa gli Stati nazionali si serviranno del cristianesimo per realizzare i loro progetti politici, che poi sostanzialmente saranno quelli dei proprietari di terre e capitali.

Sul piano pratico, in duemila anni di storia, il cristianesimo non è mai riuscito a realizzare alcuna rivoluzione politica tendente alla liberazione sociale. Sia nella fase pre-costantiniana che in quella successiva, il cristianesimo non ha mai chiesto la fine dei rapporti schiavistici o di servaggio o di salariato. L'unica politica cristiana è stata quella di appoggiare gli Stati cristiani, oppure quella di ostacolarli quando, col socialismo, essi hanno smesso d'essere cristiani.

Quando rivendica il potere, il cristianesimo pretende di acquisire dei privilegi, non mira certo a realizzare una liberazione sociale. Poiché esso si regge in piedi sul falso presupposto che ogni progetto di liberazione è destinato a fallire, il cristianesimo è peggiore del migliore ebraismo, anche se neppure il migliore ebraismo, sul piano pratico, è mai riuscito a realizzare una liberazione sociale.

L'antisemitismo di Nietzsche è spropositato e va di pari passo col suo acceso nazionalismo. Anzi quest'ultimo è ancora più acceso, poiché, in nome di esso, Nietzsche è anche disposto a valorizzare sopra ogni cosa persino la monarchia giudaica di Davide e Salomone: infatti un dio nazionale -egli sostiene- è "forte" e "coraggioso", ed è sempre meglio di un dio cosmopolita che esalta l'amore del prossimo. L'amore, per Nietzsche, è un concetto decadente, poiché con esso si permette ai deboli di sopravvivere.

Il cristianesimo non avrebbe fatto altro che trasformare un ebraismo nazionalistico in crisi in un ebraismo mondiale aggressivo. Ma aggressivo contro cosa? Contro la "potenza", la "bellezza", la "natura"... In pratica l'ebraismo, col cristianesimo, si sarebbe preso la rivincita su quelle forze nemiche (ora simbolicamente considerate) che gli avevano impedito di affermarsi come nazione.

Gli ebrei, infatti, per natura, non sarebbero dei decadenti, appunto perché legati ai concetti di "nazione", "popolo eletto" ecc. Ma -prosegue Nietzsche- siccome non sono riusciti nell'impresa di imporsi all'attenzione del mondo intero, seguendo la logica della forza pura, essi hanno pensato di farlo, col cristianesimo, seguendo la logica della "debolezza". E per poterlo fare, il cristianesimo ha dovuto trasformarsi in una religione antisemita.

I principali protagonisti di tale svolta sono stati -secondo Nietzsche- i "preti" giudaici. Essi sono stati i primi a introdurre nell'ebraismo concetti estranei, a sfondo moralistico, come "premio e castigo", "peccato e tentazione", "rivelazione e sacrificio"... E, perché questi principi fossero accettati dal popolo, hanno dovuto falsificare la Bibbia in più parti: cioè "hanno tradotto in chiave religiosa il proprio passato di popolo"(par. 26). La figura del sacerdote ha sostituito quella del monarca e la religione ha sostituito la natura.

La lotta tra ebraismo e cristianesimo è stata in realtà -dice Nietzsche- la lotta tra i sacerdoti che volevano restare legati all'ebraismo in crisi (e che naturalmente fruivano di certi privilegi) e i preti che invece pensavano di sprovincializzare l'ebraismo, facendolo diventare una religione ancora più astratta, ancora più "antitetica alla vita" (par. 25).

Nietzsche non vede una contrapposizione di principio tra il nazionalismo politico-religioso dell'ebraismo e il cosmopolitismo etico-religioso del cristianesimo ("etico" sino alla svolta costantiniana, poi anch'esso si trasformerà in "politico"). Egli inoltre è convinto che la religione abbia contaminato il nazionalismo ebraico e che quella stessa religione, portata a un livello di maggiore astrazione, abbia poi determinato la formazione del cristianesimo, il quale, del tutto privo di connotazioni politiche, ha dovuto rinunciare all'idea di nazionalismo. Il cristianesimo avrebbe fatto "politica" solo nel momento in cui ha cercato di liberarsi del potere giudaico; ma per il fatto che Cristo non ha fatto nulla per non morire in croce, occorre sostenere -dice Nietzsche- che il cristianesimo è "apolitico".

Queste tesi sono davvero singolari: da un lato Nietzsche condivide la critica neotestamentaria di Strauss, sostenendo addirittura, non senza ragione, che usare "il metodo scientifico, quando non esistono altri documenti, è una pura oziosità da eruditi"(par. 28), ma, dall'altro, non fa che ribadire l'immagine di Cristo tramandataci dai vangeli. Cioè invece di proseguire criticamente il discorso di Strauss, si vanta di averlo superato e, così facendo, si ritiene più libero di costruirsi una propria "psicologia del redentore"(par. 28), la quale, guarda caso, non è molto diversa da quella elaborata dai primi cristiani di origine ebraica.

In sostanza Nietzsche non fa che spostare la falsificazione del cristianesimo dai vangeli alle lettere di Paolo, quando, in realtà, il processo è stato inverso: i vangeli cioè sono nati dopo che la comunità primitiva aveva definitivamente acquisita la falsificazione paolina. I vangeli non sono che una rilettura della vita e delle opere di Cristo alla luce della teologia spiritualistica e cosmopolita di Paolo.

Dunque, mentre nella sua analisi dell'ebraismo Nietzsche non ha capito che se il periodo giudaico-monarchico è stato quello politicamente più significativo, esso è stato anche quello più caratterizzato dai conflitti sociali di classe. Le idee più originali l'ebraismo le aveva espresse molto tempo prima della fase monarchica e le esprimerà di nuovo, molto tempo dopo, per bocca dei profeti, nel periodo esilico e post-esilico; nella sua analisi del cristianesimo invece Nietzsche non ha capito che nel "vangelo" di Gesù (che traspare appena in quelli di Marco e Giovanni) i concetti di "nazionalismo" e "universalismo" non erano affatto in antitesi: ciò che andava superato era solo il concetto elitario e fatalista di "popolo eletto", che i sacerdoti avevano escogitato per salvaguardare un potere delegittimato, al fine di convincere il popolo che prima o poi Jahvé, dopo averli messi per tanto tempo a dura prova, li avrebbe "magicamente" liberati grazie all'intervento di un messia politico-militare.

Nel vangelo di Marco (il primo a essere stato scritto) si può leggere tra le righe che Cristo non considerava più gli ebrei, solo perché "ebrei" (cioè per definizione), un popolo migliore di altri popoli. Ma questo non significa che tale popolo non dovesse continuare a lottare per una propria autonomia nazionale. E' da escludere che il "vangelo" di Cristo abbia avuto un carattere eminentemente spirituale o etico-religioso o che l'attività politica sia stata una conseguenza indiretta, incidentale, non voluta.

La crocifissione, che peraltro non avrebbe avuto senso in relazione a un movimento meramente spiritualistico, in quanto esecuzione inflitta a schiavi ribelli, fu accettata dal Cristo non per spirito di abnegazione o di eroismo o per altri motivi di carattere religioso, ma semplicemente per ragioni di opportunità, cioè per dare al popolo ebraico, in primis ai seguaci del movimento nazareno, la possibilità di riprendere le fila del discorso "rivoluzionario" dopo il tradimento di Giuda e la mancata insurrezione nella capitale. La croce è stata accettata contro l'avventurismo irresponsabile di quanti, fra gli apostoli, avrebbero voluto usare i metodi estremisti degli zeloti o dei sicari.

Viceversa, per Nietzsche i nazareni non avrebbero dovuto attaccare l'ordine giudaico costituito, perché, sebbene corrotto, esso costituiva l'ultima possibilità che gli ebrei avevano di concepirsi come "popolo eletto". Nietzsche è del tutto estraneo alle ingiustizie sociali che il clero di Gerusalemme, specie quello sadduceo, operava ai danni della popolazione ebraica, favorendo persino ogni intesa coi romani.

Infatti, secondo Nietzsche i nazareni attaccarono non la "corruzione" dell'alto clero giudaico, ma -essendo essi dei "marginali"- il ruolo in sé del clero, la sua posizione di prestigio. Cioè Gesù altri non era che un "santo anarchico che riscosse il popolino, i reietti..."(par. 27), quel popolino che spesso nutre sentimenti di invidia e gelosia, essendo appunto escluso dalle leve di comando.

Il Cristo dunque sarebbe morto in croce per un atto di "irresponsabilità personale": "morì per sua colpa" non per "colpa d'altri"(ib.) - quella irresponsabilità che appunto si ritrova nei concetti di "non resistenza al male", "amore universale" ecc. Il Cristo predicava l'astratto amore universale perché in realtà -dice Nietzsche- odiava il concreto mondo in cui viveva. La sua religione odia il dolore, che ogni lotta per l'affermazione di sé deve necessariamente prevedere, poiché ogni lotta implica momenti di sconfitta. La sua religione ha paura della vita e dei conflitti che la caratterizzano: ecco perché predica una filosofia consolatoria.

Tuttavia Nietzsche pone una certa riserva sul contenuto dei vangeli, nel senso che l'immagine di un "Cristo anarchico" potrebbe anche essere il prodotto della fantasia degli evangelisti; il vero Cristo, secondo Nietzsche, doveva assomigliare di più a un "Buddha" (par. 31). Cioè molto probabilmente il Cristo non era avverso nei confronti dell'alto clero più di quanto non lo fosse nei confronti di chiunque non accettasse il suo messaggio.

Insomma Gesù Cristo, per il Nietzsche che qui non può esimersi da un malcelato tentativo d'identificazione, era un "libero spirito", che visse senza fare progetti politici, senza scrivere una riga, senza usare formule ideologiche di appartenenza ad una causa. Non fece miracoli, né promesse, non diede ricompense né si servì delle Scritture per dimostrare la propria autorevolezza.

Per un verso si deve dar ragione a Nietzsche: il Cristo era contrario a "tutto quanto è fisso"(par. 32); per un altro però lo si deve subito smentire: il Cristo non "parla solo di ciò che è intimo"(ib.). Il fattore umano (l'aspetto dialettico) e quello politico (l'aspetto pubblico del suo messaggio) non sono fattori che possono essere disgiunti nel vangelo. Il Cristo non era un filosofo come Socrate.

Nietzsche sostiene che il Cristo era un filosofo per istinto, non per cultura, perché "la cultura non gli era nota nemmeno per sentito dire"(ib.); egli "stava fuori da ogni religione, da ogni concetto di culto, da ogni storia, da ogni scienza naturale, da ogni esperienza del mondo, da ogni conoscenza, da ogni politica, da ogni psicologia, da ogni libro, da ogni arte"(ib.). Insomma, il Cristo non era neppure un uomo, ma uno spettro, come quello che gli apostoli credettero di vedere mentre qualcuno camminava sulle acque del lago Tiberiade. Un Cristo così è più falso di quello dei vangeli, lo è così tanto che non ci sarebbe neppure stato bisogno, da parte degli evangelisti, di falsificarlo. Si prestava da solo ad essere considerato come un mito.

Un Cristo alias Buddha che si disinteressa completamente del mondo avrebbe dovuto ritirarsi in un monastero e qui mettersi a cercare la sua "luce interiore". Se il suo disinteresse per la vita era così forte, perché mettersi a predicare? Non è forse singolare considerare che nella Palestina di allora persino i monaci esseni si fossero ritirati nel deserto per prepararsi meglio spiritualmente alla scontro decisivo coi romani e il clero collaborazionista?

Il Cristo di Nietzsche dovremmo considerarlo come uno psicopatico o come una persona incline al suicidio, poiché non si riesce a spiegare il motivo per cui un uomo sano di mente dovrebbe farsi valere come profeta o come maestro di vita interiore se non avesse nulla da dire, cioè se la sua "dottrina non è nemmeno in grado di contraddire"(ib.).

Si può capire un Cristo lontano da ogni religione e da ogni concetto moralistico di "colpa", "punizione", "pentimento", "redenzione", ma come si può accettare l'idea di un Cristo amorale e spoliticizzato? Non si riuscirebbe a capire nemmeno il processo e la croce.

Nietzsche insomma non ha fatto altro che delineare l'immagine di un Cristo funzionale alla sua incipiente follia, al suo qualunquismo politico-sociale, alla sua totale estraniazione dalla vita pubblica. 

Egli rifiuta sia il Cristo teologo dei vangeli (quello che predica il dio-persona, il regno dei cieli, il giudizio universale ecc.), sia il Cristo politico censurato dagli stessi vangeli. Al massimo egli arriva ad accettare un Cristo che si oppone, col suo semplice agire, cioè senza una lotta vera e propria, alle regole convenzionali del clero giudaico. Il suo Cristo è filosofico, atarassico, interiorizzato, è un mistico che vive già nel paradiso della sua coscienza, che cammina non sul mare -come dicono i vangeli-, ma sulle nuvole.

Un aspetto singolare nell'analisi dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo è il fatto che Nietzsche se da un lato si dimostra abbastanza disposto a difendere il nazionalismo ebraico contro l'universalismo spiritualistico del cristianesimo, dall'altro però è del tutto insofferente al sacerdozio ebraico, che ieri come oggi è sempre stato favorevole a una commistione di politica e religione: cosa che d'altra parte lo stesso Nietzsche riconosce.

Non si può dar torto a Nietzsche quando sostiene che il nazionalismo politico-religioso dei tempi di Davide e Salomone era molto diverso da quello dei sommi sacerdoti al tempo del Cristo, in cui si era cercato coi concetti aristocratici di "popolo eletto" e "nazione santa" di illudere la popolazione che un giorno si sarebbe ricostituito l'antico regno davidico. Ma la differenza era davvero sostanziale?

Per quale motivo Nietzsche sostiene che il cristianesimo da un lato lottò contro il clero ebraico dominante e, dall'altro, ne ereditò, rendendola ancora più astratta, la filosofia di vita?

Nietzsche su queste cose non ha le idee molto chiare perché non ha letto l'intera vicenda della formazione del cristianesimo primitivo in chiave politica. La realtà infatti è che il cristianesimo si avvicinò all'ebraismo religioso (non politico), e quindi a quell'ebraismo influenzato dall'ellenismo, quando cominciò a rinunciare all'istanza politica di liberazione (nazionale); nondimeno, avendo al tempo di Cristo già acquisito tale istanza come un dato di fatto, poiché comunque il cristianesimo è un prodotto uscito dai seguaci del Cristo, esso non poteva riavvicinarsi all'ebraismo come se nulla fosse, cioè fingendo di non sapere che questo, col proprio estremismo politico, aveva contribuito alla disfatta dell'idea nazarena di liberazione: da un lato quindi il cristianesimo si sentì indotto (e questo fu il suo "peccato originale") a rinunciare al progetto di liberazione nazionale, scontrandosi soprattutto coi farisei, che cominciarono a perseguitarli apertamente; dall'altro esso non si sentiva più in dovere di accettare tutte le tradizioni dell'ebraismo, che già l'ideologia politica del Cristo aveva messo seriamente in discussione.

Il cristianesimo di Pietro -il primo ad essere stato elaborato- viaggiava, in sostanza, su due binari: uno portava ad affermare che il messia era già venuto e che le autorità giudaiche, strumentalizzando quelle romane, l'avevano ucciso, per cui al progetto politico di liberazione bisognava rinunciare definitivamente; l'altro binario veniva invece usato per tentare di riaffermare, almeno in parte, il messaggio di Cristo, senza dover per questo cercare inutili pretesti per alimentare l'inimicizia del clero giudaico contro le prime comunità cristiane.

Pietro aveva scelto una soluzione di compromesso: sul piano politico, è vero, rinunciava alla lotta di liberazione, ma sul piano religioso, facendo leva sull'omicidio di stato del Cristo, poteva pretendere una relativa autonomia, p.es. su certe tradizioni alimentari, sul rapporto coi gentili ecc. Un'autonomia però che non sarà mai tollerata dall'alto clero ebraico, il quale non accettando neppure l'idea che il messia liberatore fosse già morto sulla croce, si sentiva in obbligo di perseguitare i leaders cristiani, tanto che Pietro fu costretto a espatriare, lasciando a Giacomo la guida della comunità di Gerusalemme che, a partire da quel momento, pur continuando a rifiutare la lotta politica, prese ad accettare nuovamente tutte le tradizioni religiose dell'ebraismo. 

L'alto clero però neppure in questo caso si rassegnò, poiché l'idea di un Cristo morto e risorto lo scandalizzava enormemente, e cominciò a perseguitare anche Giacomo, seppure in maniera meno violenta rispetto a come invece si comportò nei confronti degli ebrei-ellenisti divenuti cristiani (Stefano e successivamente Paolo), che negavano ogni primato al tempio e alla capitale giudaica.

Il cristianesimo primitivo di certo quindi non ha ereditato lo spirito politico dell'ebraismo, che era però limitato a un acceso nazionalismo; ed ereditandone lo spirito religioso, lo ha fatto solo in relazione ad alcune forme esteriori (applicate ai riti), non in relazione alla sostanza delle cose, poiché se è vero che in definitiva esso ha abbandonato, soprattutto dopo il 70, ciò che per un ebreo faceva e fa ancora oggi parte integrante dell'essenza della propria religione: la legge mosaica, la circoncisione, il culto del sabato, il ritualismo dietetico, il primato del tempio di Gerusalemme, le principali feste dell'anno liturgico, ecc., è anche vero che esso ha considerato tutto questo come una sorta di prefigurazione della nuova religione, la quale, a sua volta, avrebbe avuto nuovi dogmi, riti, sacramenti e festività.

Grazie al messaggio originario del Cristo (pur stravolto politicamente) ogni cosa dell'ebraismo ha potuto essere ripensata, riformulata e riproposta in modalità e forme differenti.

Il cristianesimo ha ereditato l'ebraismo soprattutto per quanto concerne l'illusione implicita in ogni religione, tanto è vero che si è appropriato anche di molti miti provenienti dalle religioni politeistiche o pagane, rielaborandoli in maniera creativa. Il cristianesimo ha anche ereditato dall'ebraismo il senso del collettivismo, del mutuo soccorso ecc., ma questi aspetti non riescono mai, a causa dei limiti di ogni religione, a trasformare qualitativamente la realtà sociale in direzione della democrazia e dell'uguaglianza.

In tal senso ebraismo e cristianesimo si presentano entrambi come "oppio", di un popolo l'ebraismo (sia esso in patria o nella diaspora), di tutti i popoli il cristianesimo.

Nietzsche dunque ha ragione quando sostiene che occorreva una maggiore capacità di astrazione per assicurare il passaggio dall'ebraismo al cristianesimo, però ha torto quando considera i risultati conseguiti dal cristianesimo come un regresso rispetto al migliore ebraismo. Dal punto di vista dei principi religiosi il cristianesimo resterà sempre superiore al migliore ebraismo, mentre dal punto di vista politico il migliore ebraismo non è molto dissimile dal peggiore cristianesimo, poiché quando l'ebraismo lotta politicamente per una liberazione nazionale tende a realizzare un nazionalismo politico-religioso avente caratteristiche non meno negative di quelle che hanno caratterizzato il cristianesimo a partire dal momento in cui ha preso a delegare tale compito allo Stato (vedi il decreto di Teodosio del 381), o, peggio ancora, quando tale compito ha cominciato ad assumerselo in proprio (p.es. con la svolta di papa Gregorio VII). Anzi il cristianesimo, essendo una religione universalistica, è mille volte più pericoloso del più fanatico ebraismo: non a caso è diventato una religione mondiale collusa prima col feudalesimo, poi (specie nella variante protestante) col capitalismo.

D'altra parte una religione che, come religione, lotta politicamente per la liberazione, porta fatalmente al nazionalismo e, nel caso del cristianesimo, a imporre tale nazionalismo (quello appunto della nazione tutta cristiana) al mondo intero. Perché il cristianesimo, sul piano politico, non porti all'integralismo, occorre che rinunci alla sua dimensione politica e che accetti la possibilità che il credente faccia politica non come credente ma come cittadino laico. (Ovviamente è sempre possibile fare una politica "integralistica" anche da posizioni laiche, in quanto non sono certo le definizioni teoriche che tutelano la libertà umana dagli errori che può commettere). Tuttavia, una posizione duale come questa difficilmente potrebbe essere accettata dal cattolicesimo-romano, che delle tre principali confessioni cristiane è sicuramente quella più fondamentalista, né da religioni come l'ebraismo o l'islam (quest'ultimo, per molti aspetti, si presenta come un ebraismo i cui riti sono stati semplificati dagli influssi del cristianesimo).

Il primo a rendere possibile una posizione dualista fu proprio il Cristo, il quale chiedeva ai suoi seguaci d'impegnarsi politicamente, considerando la religione affare meramente privato. Alla religione dominante in nessuna parte dei vangeli egli oppone una religione alternativa. Tutto quanto di religioso si trova nei vangeli è stato chiaramente aggiunto dal cristianesimo postpasquale.

Ora, è indubbio che un cristianesimo che rinunciasse alla dimensione della politica sarebbe costretto ad affermare: o che esso non possiede alcun vero progetto di liberazione (e senza gli strumenti della politica non si cambia la realtà), oppure che tale progetto possono realizzarlo i credenti in maniera laica. In entrambi i casi il cristianesimo deve ammettere il proprio limite in politica.

L'ebraismo invece non ha un limite di questo tipo, poiché esso non ha mai rinunciato a collegare religione e politica. Il suo limite sta semmai sul piano pratico, quanto tenta e non vi riesce di realizzare un progetto politico di liberazione. La religione ebraica infatti è incredibilmente superata rispetto alla coscienza laica e civile del mondo occidentale. Esattamente come quella islamica. Nessuna istanza politica di liberazione potrebbe far proprie queste due religioni se non provenisse da queste medesime religioni.

Il cristianesimo è senza dubbio, sotto questo aspetto, una religione più moderna dell'ebraismo: esso tuttavia ha il limite di non avere un autentico progetto politico di liberazione. Ha tentato di realizzarlo nel Medioevo euroccidentale a partire dalla svolta carolingia, ma è stato un fallimento, poiché il cristianesimo di per sé non ha elementi teorici sufficienti per risolvere le contraddizioni sociali.

La battaglia che Nietzsche ha condotto contro il cristianesimo ha un certo sapore medievale, nel senso cioè che ricorda molto da vicino l'atteggiamento polemico degli eretici medievali.

Egli ha voluto ricondurre tutta la filosofia idealistica alle radici cristiane, ma in tal modo ha assunto una posizione per così dire "integrista", limitando lo scontro tra la sua filosofia e quella idealistica a uno scontro, piuttosto prosaico, tra religione e ateismo.

Per uscire da questo impasse Nietzsche avrebbe dovuto fare due cose:
a) denunciare, caso per caso, i condizionamenti del cristianesimo nell'ambito della filosofia moderna;
b) portare la filosofia a sganciarsi da tali condizionamenti, trasformandola in politica (o comunque in attività sociale antiborghese).
Il primo aspetto caratterizzerà tutta l'opera di Feuerbach; il secondo quella di Marx, parzialmente, e di Lenin, totalmente.

Questo perché se si fa solo il discorso sul fatto che le radici della filosofia moderna sono cristiane, si finisce col dimenticare che tale filosofia è nata anche in opposizione al cristianesimo (specie nella sua versione tardo-scolastica), e che se essa non ha saputo liberarsi completamente di tale condizionamento, è stato appunto perché era "borghese", cioè di classe, destinata quindi al compromesso con altre forze sociopolitiche egemoni. La filosofia borghese è sì rivoluzionaria, ma fino a un certo punto.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015