Considerazioni critiche su alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche

FRIEDRICH NIETZSCHE
Dall'ateismo all'irrazionalismo


Considerazioni critiche su alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche

Nietzsche ha condiviso con Marx e con Freud, come con altri pensatori del passato che hanno messo in discussione le basi del sistema di valori e del pensiero occidentali, un comune destino di censura, di fraintendimento e di distorsione. Egli ha posto in discussione in modo radicale le categorie e i sistemi di valori del pensiero borghese, cercando di distruggerne persino il linguaggio (l'aforisma, il genere letterario preferito da Nietzsche, è un modo di rifiutare la tradizione filosofica precedente).

A differenza di Marx e Freud però, i quali hanno delineato in modo abbastanza chiaro la via per superare il pensiero dominante, Nietzsche non è altrettanto chiaro in proposito, e lascia aperti diversi spazi per una interpretazione del suo pensiero. Nietzsche scopre l'impossibilità di pensare secondo le categorie teoriche e morali del pensiero borghese, ma non produce un nuovo pensiero. E' proprio questa impossibilità di pensare secondo i valori della teoria e della morale borghese che il pensiero dominante ha censurato in Nietzsche, mistificando il pensiero di "colui che dice no in misura inaudita" ("Ecce homo") a tutti i valori, trasformandolo nel pensiero di chi dice di sì ai valori più aberranti e mistificanti, ai valori prodotti dal nazismo. Doppia censura quindi: prima nella falsificazione, poi nel ripudio acritico di Nietzsche per quello che il filosofo non ha mai detto.

Il pensiero di Nietzsche è stato oggetto di diverse interpretazioni. Fra le tante ne emergono due che si scontrano tra loro: una è quella di Heidegger, secondo la quale bisogna leggere Nietzsche come un pensatore essenzialmente metafisico, in quanto egli pone al centro della propria attenzione il problema dell'essere; l'altra interpretazione, che fa capo a Dilthey, considera Nietzsche da un punto di vista letterario e culturale, e lo colloca accanto ad altri filosofi-scrittori che danno della vita una spiegazione non metodica, bensì espressiva e suggestiva, la cui filosofia può essere definita una filosofia della vita.

Questi problemi interpretativi ci fanno capire che è difficile collocare Nietzsche all'interno di una scuola di pensiero (anche se appare ormai consolidata la visione che lo pone all'interno di un filone di pensiero che va da Schleiermacher, attraverso Dilthey e lo storicismo tedesco, sino ad Heidegger e all'ermeneutica di Ricoeur, Gadamer e Pareyson), anche se è più che noto l'enorme influsso che la sua filosofia ha avuto sul pensiero contemporaneo.

Tra le tante questioni legate al pensiero di Nietzsche vi è quella di un'ipotetica derivazione dell'ideologia nazista dalla sua filosofia. Si tratta di un luogo comune ancora molto diffuso, ma sul quale è stata ormai fatta ampia luce. Le eventuali responsabilità di questo fenomeno sono da addebitare alla sorella di Nietzsche Elisabeth (di carattere molto possessivo, aveva spesso condizionato le scelte del fratello; sposò un antisemita nazionalista), la quale dopo la morte del fratello si occupò della pubblicazione dei vari scritti, oltre che alla cura dei frammenti che Nietzsche aveva lasciato: fu in questa situazione che fu possibile manipolare certi contenuti del pensiero del filosofo in funzione nazista. Nietzsche, come risulta da alcune corrispondenze, dal suo pensiero ufficiale e dai frammenti pubblicati postumi, non era antisemita e nemmeno nazionalista, anzi giunse spesso a disprezzare il popolo tedesco perché non lo riteneva all'altezza dei compiti che secondo lui avrebbe dovuto svolgere la nuova umanità.

Un'altra questione aperta del pensiero di Nietzsche è il suo rapporto con il cristianesimo, rapporto che molti hanno liquidato sbrigativamente considerando Nietzsche come un acerrimo nemico della religione cristiana. Secondo alcune teorie e ad una lettura più attenta, è possibile scorgere che la critica di Nietzsche si rivolge soprattutto alla chiesa e ai suoi rappresentanti, più che alla figura di Gesù Cristo. E comunque egli riteneva Platone il vero fondatore del cristianesimo.

L'ateismo di Nietzsche

L'ateismo di Nietzsche, pur partendo da una giusta critica della vuota religiosità borghese, conduce alla follia, perché è circoscritto nell'ambito di un soggettivismo anarchico, disperato, che non accetta alcuna mediazione sociale.

Nietzsche vuol mettere in crisi tutto, o meglio: concepisce tutta la società borghese come caratterizzata da una profonda crisi, senza però riuscire a proporre un'alternativa altrettanto globale. Anticipa nel pensiero una fine, senza riuscire a realizzare nell'esperienza una vera novità. Vuole contrapporre radicalmente l'individuo alla società per dimostrare che l'unica vera novità deve cominciare con l'esperienza individuale. Nietzsche è sempre stato un filosofo aristocratico.

La sua follia è la testimonianza più eloquente che la contrapposizione individuale (non sociale) al sistema borghese porta alla follia, porta anzi a legittimare ulteriormente il sistema, che impara a difendersi meglio dall'anarchismo, e anzi a servirsene contro quei movimenti socio-politici a carattere eversivo. Di qui l'uso strumentale che il nazismo ha potuto fare della filosofia di Nietzsche.

Una visione soggettivistica della realtà porta a deformare i contorni di ogni suo aspetto. Nietzsche contrappone arbitrariamente il passato al presente, la vita alla storia, la volontà di potenza alla scienza... Rifiutò il dogmatismo degli hegeliani e dei positivisti (nonché dei credenti), per ricadere in un'altra forma di dogmatismo, quella del superuomo.

Nietzsche considerava Schopenhauer e Wagner come Kierkegaard considerò il pastore luterano Adler, cioè come non essenzialmente determinati in carattere, in "tragicità", per meglio dire. Proprio nel momento in cui egli si poneva il compito di superare la crisi del sistema borghese, ne riproduceva la sostanza valorizzando il tema della tragicità. In effetti, è proprio l'assurdità del sistema borghese che porta l'individuo consapevole a valorizzare la tragicità - ma da questa bisogna uscire per costruire un'alternativa.

Nietzsche si è soltanto opposto alle illusioni, ai miti, alle false certezze della sua epoca, col senso del tragico, dell'istintività, della forza bruta del superuomo... In luogo di un facile ottimismo o di un pessimismo di maniera, superficiale, egli ha voluto porre un pessimismo radicale, cosmico (che avesse però la forza di scardinare dalle fondamenta ogni cosa).

Purtroppo Nietzsche ha dato un pessimo contributo all'idea di ateismo, poiché l'ha connessa all'idea di "amoralismo" e quindi ad un atteggiamento irrazionale. Distruggendo - peraltro giustamente - l'idea metafisica di morale, egli ha finito col distruggere ogni concezione del bene, poiché non ha mai voluto cercare delle mediazioni storiche, sociali, culturali. Nietzsche anzi ha preteso di affermare l'ateismo come criterio discriminante fra un individuo e l'altro.

Egli in sostanza ha preteso di anticipare arbitrariamente, a livello individuale e intellettuale, ciò che, al massimo, potrà essere solo una conquista lenta e progressiva della storia.

L'intellettuale dotato di talento deve misurare le proprie capacità nella concreta vita quotidiana, in una lotta incessante contro le contraddizioni sociali del suo tempo. Non può pretendere di porsi al di sopra di tale concretezza, di sottrarsi a tale compito facendo leva sulla sua presunta esclusività. Anche perché, se è vero che non esiste una verità metafisica, è anche vero che la "propria" verità va sempre dimostrata. E' la prassi il criterio della verità.

Certo, i fatti non parlano da soli: occorre sempre qualcuno che li interpreti. Ma la verità della "non-verità" non esiste, è pura follia. La verità di un'interpretazione, rispetto a un'altra, va sempre ricercata: è un obiettivo cui bisogna tendere se si vuole evitare che ogni interpretazione diventi inutile. Per quale ragione l'uomo dovrebbe "giudicare" la storia e "servirsene" - come vuole Nietzsche -, se poi nel presente egli vive un'esistenza dove il giudizio di verità non esiste?

Nietzsche voleva un'esistenza che non avesse il bisogno di dirsi "vera" per esserlo, voleva un'esistenza simile a quella dell'uomo primitivo, in cui ci si accontentava dell'evidenza della verità. Solo che voleva questo attraverso la speculazione filosofica, quella dell'uomo che dall'alto del suo aristocraticismo critica i disvalori della società borghese.

Nietzsche aveva capito che prima di essere "liberi" bisogna combattere contro i meccanismi culturali che rendono "schiavi" (religione, idealismo ecc.), ma non è riuscito a capire che nel mentre si lotta per tale libertà non si può fare a meno d'essere condizionati da strutture di tipo socio-economico e politico. Probabilmente questo limite fu dovuto al fatto ch'egli combatté da solo la sua battaglia contro la metafisica, ignorando i legami che uniscono quest'ultima all'economia borghese.

Sul concetto di tempo storico

La concezione di Nietzsche relativa all'eterno ritorno o quella di Kierkegaard sulla contemporaneità del singolo a Cristo, non sono altro che una forma di soggettivismo esasperato, incapace di assumersi la responsabilità del bisogno sociale, collettivo, incapace di accettare l'evoluzione storica, il ruolo del proprio tempo: non è che una fuga dalle responsabilità che si devono assumere nel presente.

Ma anche la teoria storicistica della successione per cicli, che aveva Vico, è una teoria senza speranza, poiché essa fa nascere una società dalle rovine della precedente, senza che di questa si sia riusciti a conservare il meglio.

Così pure la concezione pitagorica del circolo chiuso, secondo cui vi è un eterno ritorno al punto di partenza, è una teoria priva di senso storico, poiché non aiuta a capire il finalismo dell'umanità.

Si badi, non si vuole qui escludere a priori un ritorno (ovviamente simbolico) alle origini (anche la vecchiaia è un ritorno all'infanzia): ciò che si vuole escludere è appunto che tale ritorno possa avvenire così come il tutto era iniziato (il vecchio torna sì bambino ma restando "vecchio", cioè con una consapevolezza delle cose vissute). Altrimenti tutto sarebbe vano e inutile, assolutamente indifferente e uguale a se stesso.

Ancor peggio è la concezione regressiva (che il fascismo ha sempre appoggiato) secondo cui lo sviluppo storico procede in linea decrescente, a partire da una mitica "età dell'oro" (vedi Seneca, Esiodo e, più di recente, J. Evola). Qui addirittura si istituzionalizza la rassegnazione, il fatalismo e, come reazione al progressivo degrado della civiltà, si auspica l'imporsi di una dittatura, con la quale si dovrebbe almeno rallentare questo irreversibile processo decadente.

Sull'irrazionalismo

Se si riuscisse a dimostrare che l'irrazionalismo post-hegeliano non è solo l'esito di una contrapposizione all'idealismo, nell'ambito dell'ideologia borghese, ma anche l'esito di uno svolgimento coerente di talune fondamentali posizioni della filosofia borghese, e che il marxismo, in questo senso, rappresenta l'unica vera "rottura" nei confronti della filosofia occidentale, si sarebbe poi costretti ad affermare tre importanti conseguenze:

1) la filosofia ha anticipato a livello teoretico (e nel caso di Nietzsche anche a livello individuale) quell'irrazionalismo che nell'Europa occidentale (o comunque nell'Occidente capitalistico) si è poi storicamente affermato con le due guerre mondiali e l'esperienza del nazi-fascismo, e che tale irrazionalismo, in assenza di alternative praticabili (in quanto in Occidente il marxismo è rimasto fermo al livello di riflessione teorica), è destinato a riproporsi a livello politico-istituzionale;

2) per evitare questo svolgimento delle cose, bisognerebbe cominciare a giudicare il valore "storico" della filosofia occidentale (a partire da quella greca), anche in relazione agli effetti irrazionalistici ch'essa, più o meno consapevolmente, ha prodotto. E' ora cioè di collegare in un rapporto più stretto (più funzionale e strutturale) le riflessioni filosofiche con le vicende storiche delle collettività sociali, al fine di togliere la storia della filosofia dal limbo concettuale in cui i filosofi l'hanno collocata e in cui ancora l'ideologia borghese la vuole tenere;

3) se l'irrazionalismo è parte integrante della filosofia occidentale, il marxismo, che da questa filosofia ha cercato di emanciparsi, non può essere considerato solo come l'erede della parte positiva di tale filosofia, e cioè l'umanesimo laico e razionale, ma anche come un'ideologia che, di per sé, non va esente dal rischio di cadere nell'irrazionalismo. Ogniqualvolta il marxismo si ritiene "definitivamente" emancipato dalla filosofia borghese, cioè ogniqualvolta esso nega il sacrosanto principio che "la prassi è il criterio della verità", esso, di fatto, è già piombato nell'irrazionalismo, fosse anche solo sul piano teoretico.

Sulla tragedia greca

Nietzsche voleva davvero farsi capire? Generalmente uno ama farsi capire quando s'interfaccia con un altro, per mettersi a confronto, per ottenere consenso. I testi di Nietzsche sembrano invece dei soliloqui, un imponente diario esistenziale. Forse l'unico dove egli ha in qualche modo cercato un rapporto con la cultura dominante è stato il primo, quello dedicato alla tragedia greca. Poi si assiste soltanto al crescendo continuo di una follia ch'era già implicita, seppur in forma embrionale, in quel testo. Lo dimostra il fatto ch'egli, dei due elementi presenti nella tragedia greca, tende a considerare più significativo quello dionisiaco, che invece, per forza di cose, doveva risultare marginale rispetto all'altro, quello apollineo.

Questo perché la tragedia greca non era un baccanale, un festino orgiastico, una sorta di carnevale estemporaneo, ma era un'opera letteraria e teatrale sommamente razionale, scritta da intellettuali sopraffini, appartenenti a ceti aristocratici o comunque altolocati (Sofocle era figlio di un ricco ateniese proprietario di schiavi; Eschilo era di famiglia nobile; Euripide aveva ricevuto un'educazione molto raffinata e disponeva di una ricca biblioteca, una delle prime che si conoscano). Se questi intellettuali invece di dedicarsi al teatro, avessero scritto dei trattati di filosofia, sarebbero stati altamente apprezzati per il loro senso di equilibrio e compostezza.

I greci andavano continuamente a teatro, e non avrebbero certo potuto sopportare a lungo che nelle rappresentazioni l'elemento dionisiaco avesse un ruolo nettamente prioritario. Le istituzioni delle loro città sarebbero crollate. L'elemento dionisiaco era indubbiamente presente in quelle tragedie, ma come un aspetto secondario, che al massimo poteva servire per rendere la tragedia più interessante, come può esserlo l'omicidio in un romanzo d'amore. L'irrazionalità di stampo dionisiaco era sempre correlata ad altri aspetti più accettabili, appartenenti al senso comune della polis.

Il teatro non aveva la funzione di eccitare gli animi, al fine di provocare le coscienze a prendere posizione su qualche tema cittadino: a tale scopo erano sufficienti le assemblee politiche. Il suo principale scopo era quello di ricomporre artisticamente il diviso che si viveva nella società: doveva semplicemente far credere nella possibilità di una riconciliazione, personale e collettiva, nei confronti di un destino avverso. Il teatro era popolare proprio in questo senso, che i ceti marginali si trovavano ad assistere a rappresentazioni sceniche che non avrebbero potuto contraddire in maniera radicale l'ideologia dominante. Se e quando vi erano elementi contestativi (rappresentati p.es. dal dionisismo), questi dovevano sempre trovare una loro mediazione o ricomposizione nella scena finale.

Il tragico, l'assurdo, il non-senso della vita, il fato inspiegabilmente ostile, la mancata protezione divina... erano elementi previsti e tollerati, ma alla fine della rappresentazione doveva esserci qualcosa in grado di procurare una qualche soddisfazione, una catarsi. Il teatro, così come la mitologia, le gare sportive, la guerra e, più tardi, la filosofia erano strumenti dell'ideologia dominante, che pretendeva di possedere un carattere popolare, ancorché in linea con gli interessi dell'aristocrazia, cioè dei proprietari di terre e di schiavi. Chi non si allineava a questo trend veniva esiliato o anche mandato a morte, come Socrate.

Le scienze e la filosofia vengono incontro a esigenze mercantili presenti soprattutto nelle colonie greche, ma non si arriverà mai a una vera e propria democrazia sociale, e di conseguenza anche quella politica sarà fortemente limitata (schiavi, donne, stranieri non vi potranno mai partecipare). Tant'è che quando queste discipline, così lontane dalla mitologia, faranno il loro ingresso ad Atene, ciò sarà reso possibile dal fatto che tra borghesia ed aristocrazia si era stabilito un compromesso.

Nietzsche avrebbe dovuto denunciare i limiti sociali e culturali del genere teatrale; invece ha preferito proiettare su di esso le proprie frustrazioni, accentuando di quella forma propagandistica del potere politico, l'aspetto che quest'ultimo considerava meno significativo, in quando usato come forma oppiacea di evasione, appunto l'elemento dionisiaco. Non riuscì neppure a capire che il teatro di Euripide non era un'involuzione filosofica di quello eschileo e sofocleo, ma, al contrario, un'evoluzione dalla concezione aristocratica della vita a quella borghese, e che, appunto per questo, esprimeva una forma di contestazione culturale.

Il teatro greco metteva in scena tutta quella mitologia che esaltava il potere degli aristocratici. Nietzsche avrebbe dovuto far valere gli interessi, le idealità della filosofia mercantile contro la mitologia aristocratica; invece, dopo aver accentuato l'importanza dell'elemento dionisiaco, ha fatto di tutte le tragedie di Eschilo e di Sofocle il contraltare alla nascita della filosofia, mostrando così il proprio aperto aristocraticismo. Egli si è servito della tragedia greca in maniera assolutamente anti-storica, al fine di contestare la filosofia razionalistica del suo tempo. Ha compiuto una mistificazione della realtà, esattamente come fece, prima di lui, Kierkegaard, quando, sul piano religioso, dava interpretazioni del tutto fantasiose di personaggi biblici come Adamo, Abramo, Giobbe...

In fondo il passaggio dalla mitologia alla filosofia nasceva dall'esigenza di dare un senso razionale alla realtà, un senso che la mitologia non poteva offrire, se non a favore dell'aristocrazia guerriera, agraria e schiavile; e questo perché tutta la mitologia era satura di un'ideologia basata esclusivamente sull'uso della forza, che si cercava appunto di legittimare con lo strumento della religione. In tal senso l'intera operazione culturale compiuta da Nietzsche, di tornare al primato della forza (che per lui coincide con l'eroismo, il coraggio ecc.), rinunciando alla razionalità filosofico-scientifica e, insieme, all'uso della religione, non poteva che portare all'irrazionalismo, anzi, nasceva da questa stessa tendenza.

Nel mondo greco, infatti, la religione (o il mito) serviva per stemperare l'arbitrio della forza; e la filosofia (insieme alla scienza) si era posta principalmente l'obiettivo di estendere il concetto di forza alle classi mercantili e artigiane, inaugurando la stagione democratica e ridimensionando il valore della religione. Nietzsche invece aspirava all'uso della forza allo stato puro, ancorché nei limiti di un individuo isolato, che si atteggia a profeta inascoltato, amante della musica, dell'arte in generale, della sensualità, e intento a scrivere libri da mane a sera.

Egli era convinto che l'elemento apollineo venisse usato dai greci per smorzare la potenza dell'elemento dionisiaco, e che questo, da lui ritenuto più primordiale dell'altro, avrebbe meritato d'imporsi con maggiore risolutezza; il che avrebbe impedito il formarsi di filosofie astratte, moralistiche e autoritarie come quelle platonico-aristoteliche, ereditate poi dal cristianesimo. Questo fu un errore di capitale importanza, proprio in quanto gli sfuggì che l'elemento dionisiaco andava considerato un fenomeno di rottura non solo nei confronti di una razionalità formale come quella apollinea, ma anche nei confronti di una razionalità sostanziale, come quella che si era vissuta nelle civiltà pre-schiavistiche, cioè nelle comunità primitive.

Tutte le volte ch'egli parla di valori primordiali (p.es. la fedeltà alla terra), antecedenti a qualunque filosofia e religione, lo fa senza uscire dal perimetro della civiltà antagonistica, che pur egli dice di voler abbattere completamente, senza salvare alcunché. La sua resta sempre una posizione viziata dall'aristocraticismo, incapace di valorizzare le istanze emancipative delle masse che si oppongono all'antagonismo sociale (di classe, di casta, di razza).

Insomma la civiltà occidentale è nata con un atto arbitrario posto contro il collettivismo primitivo, ma subito dopo ha avuto bisogno di darsi una giustificazione razionale: di qui la nascita della religione, che è una rappresentazione simbolica della realtà, in cui il mito gioca un ruolo rilevante. Dalla inconsistenza di tale giustificazione sono poi sorte forme di contestazione, le quali, nell'elemento dionisiaco, possono essere definite di tipo individualistico. Queste forme oppositive, represse dai poteri dominanti o ricondotte a esperienze ritualizzate occasionali, sono state poi metabolizzate nella rappresentazione intellettuale per il popolo chiamata "tragedia", e progressivamente ridimensionate dallo sviluppo della scienza e della filosofia (quest'ultima utilizzata più che altro come corso di studi e come retorica e sofistica). Tutte queste giustificazioni razionali (mitologiche, teatrali e filosofiche) della rottura originaria contro la comunità primordiale che si viveva nelle foreste, non potevano essere smontate privilegiando l'elemento dionisiaco, poiché questo stesso elemento era parte costitutiva di quella rottura.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 14/02/2016