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A) Introduzione: Hegel e Darwin, due opposti paradigmi della teoria evolutiva Il pensiero di Karl Marx si inserisce nella tradizione di pensiero ottocentesca che potremmo chiamare evolutiva o, meglio, evoluzionistica, che considera la Verità non come un qualcosa di statico e fisso, bensì come qualcosa di dinamico e in costante evoluzione. Verità come processo, potremmo dire, in contrasto con l’idea aristotelica della non-contraddizione, secondo la quale il Vero non può che essere identico a se stesso e quindi, per definizione, immobile. Vi sono, tra gli altri e oltre allo stesso Marx, due grandi esponenti all'interno di tale tradizione: Hegel per quel che riguarda la filosofia (la cui ricerca ebbe la storia umana come oggetto principale) e Darwin per ciò che riguarda la tradizione scientifica, e in particolare la scienza naturale (ovvero lo studio dell’evoluzione della vita sulla Terra). Senza entrare nel merito dei due diversi pensieri, notiamo qui che quella di Hegel è una teoria evoluzionistica di stampo idealista così come quella di Darwin lo è di stampo scientifico e materialista. - In che senso Hegel è un pensatore idealista? Nel senso, essenzialmente, di porre la realtà dell’Idea (nella sua evoluzione logica) al di sopra della Materia (concettualmente intesa, oltre che come mero fatto fisico (res extensa), come disordine e passività, come realtà priva di una coscienza raziocinante e ordinatrice). Nella sua visione, l’Idea è il regno della necessità e della logica, ed è dotata di una propria logica evolutiva (dialettica) intrinseca, la quale si svolge nel corso del tempo realizzandosi nella Materia, senza esserne tuttavia minimamente modificata e influenzata dall’interno. Ordine e Disordine quindi, sono in questa visione due realtà che, pur convivendo, non si toccano se non esteriormente, poiché la Materia è il mero mezzo fisico in cui ha luogo il dramma logico dell’Idea, la quale per se stessa non è influenzata in alcun modo dalla sua controparte. In due sensi possiamo dunque definire “idealista” il pensiero di Hegel: nel senso che esso pone la sfera ideale al di sopra di quella materiale (come causa della sua continua evoluzione, oltre – e prima di tutto – che della sua propria); e nel senso che contrappone tra loro questi due ordini in modo rigido, cosicché la Logica si sviluppa secondo una sua necessità pura, intrinseca, senza essere toccata dal disordine della Materia, intesa come pura contingenza o caos. - Passiamo ora a Darwin e chiediamoci in che senso egli possa essere considerato un pensatore scientifico, non idealista. La risposta a questa domanda verte essenzialmente, in questa sede, sul fatto che egli misconosce la rigida separazione tra Idea e Materia propria di Hegel e di quasi tutta la tradizione filosofica occidentale (alla quale difatti, come scienziato, Darwin non appartiene). Anche la sua concezione della Storia si basa infatti, similmente a quella di Hegel, sull’idea di un’evoluzione progressiva (che porta gli organismi viventi a svilupparsi in forme sempre più differenziate tra loro, sulla base della competizione per la vita). Ma una tale evoluzione delle forme viventi è – e qui sta la differenza tra i due – priva di uno svolgimento necessario, puramente logico, e come tale già implicito nelle premesse iniziali. L’idea di evoluzione individuata da Darwin, ha insomma una natura stocastica, essendo basata su tentativi (modificazioni casuali della struttura dell’organismo) ed errori/successi: essa è dunque un qualcosa che, pur dotato di una propria logica e razionalità, sorge dal caso e dalla contingenza, sua risorsa e motore ultimo – e ciò contrariamente alla logica di Hegel che prescinde totalmente dal caso. Per questa ragione, la visione scientifica darwiniana non può in nessun modo dirsi “idealista”: poiché appunto essa non scinde l’Evoluzione, come fatto strategico e adattativo (…e quindi logico) dalla Materia o dal caso. Né quindi separa l’a-priori logico dall’empiria, dalla realtà fisica contingente. Vi è poi un secondo aspetto, già peraltro implicito in quanto detto, che separa nettamente il pensiero di Hegel da quello di Darwin: per Hegel la Storia, in quanto movimento logico puro, che nelle proprie premesse contiene già tutto il proprio svolgimento, possiede una natura intrinsecamente finalistica o teleologica: la fine di tale processo è infatti già implicita nel suo inizio, in modo che il termine di tale processo corrisponde al fine (scopo) verso cui esso tende intrinsecamente. La visione hegeliana è perciò una visione finalistica! La concezione di Darwin, al contrario, facendo dipendere il processo evolutivo, in tutti i suoi momenti, da premesse in gran parte casuali (i mutamenti accidentali che hanno luogo nella struttura ereditaria degli organismi), esclude che esso possa tendere intrinsecamente verso alcun fine, considerando l’Evoluzione, in ultima analisi, come un sotto-prodotto del Caso. Abbiamo così delineato due visioni evolutive o evoluzionistiche che, pur correndo parallele tra loro, sono anche per molti versi radicalmente opposte: una metafisica e filosofica, di stampo idealista; l’altra scientifica e materialista. B) Il pensiero di Karl Marx Dal momento che l’argomento precipuo di questo scritto è l’opera di Marx, sorge a questo punto spontanea una domanda: in quale di queste due tradizioni o scuole di pensiero dobbiamo inserire il pensiero filosofico e storico di Karl Marx? Risponderò subito sinteticamente: io penso che esistano “due” Marx, uno di matrice ancora hegeliana e uno di matrice più scientifica, e per molti aspetti quindi – a modo suo – “darwiniana”. Penso inoltre che il secondo Marx sia, sul piano dell’eredità storica, molto più significativo del primo. Penso infine che questi due Marx corrispondano in massima parte rispettivamente alla fase più giovanile del suo pensiero e della sua vita, e a quella più matura e criticamente avanzata. Né ciò deve sorprendere, poiché il pensiero di Marx nasce come una prosecuzione, seppure in veste di un superamento rivoluzionario, di quello di Hegel. Perciò, pur dichiarandosi sin dall’inizio un pensatore materialista e aspirando quindi a una maggiore scientificità rispetto al suo maestro, Marx conserverà sempre (seppure col tempo, come vedremo, in modo sempre più attenuato) alcuni aspetti essenziali del pensiero di Hegel. In sostanza, secondo me, di Hegel egli riprende la fede “ingenua” nel fatto che la storia segua (quantomeno nei suoi momenti determinanti e centrali) una sua logica evolutiva “inarrestabile”, aprioristica e predeterminata. Egli pensa cioè la logica alla base del processo storico come qualcosa di determinato da ragioni intrinseche, inscritte al proprio interno e non influenzate (quantomeno, non in modo sostanziale) da fattori contingenti. Anche per Marx insomma, la storia sarebbe qui un processo astratto, che si realizza nella Materia ma senza il concorso di essa, senza cioè esserne modificata in modo sostanziale (ovvero nei suoi snodi essenziali). Anche sul piano teleologico, tra questi due pensieri vi è una forte affinità, laddove anche secondo Marx la storia tenderebbe per sua natura verso un fine prestabilito, che nella sua filosofia sarebbe costituito dalla liberazione dell’uomo, ovvero dalla libera espressione di tutte le sue potenzialità, fino ad allora costrette e compresse nella logica alienante delle società classiste basate sullo sfruttamento. Tuttavia, nonostante ciò, sappiamo anche che Marx, rinnegando l’idealismo borghese del maestro, sin dall’inizio dichiarò il suo essere un pensiero materialista. In che senso o su che basi egli collocava se stesso in questa diversa tradizione di pensiero? Nel senso che, contrariamente a Hegel, Marx non considerava la sfera ideale (…o ideativa o spirituale, che dir si voglia) della storia umana come la base, nella sua evoluzione, dell’evoluzione della sfera materiale, ovvero dell’organizzazione sociale ed economica della vita associata, bensì tutto al contrario considerava la seconda come la causa reale della prima! Come noto, difatti, è secondo Marx la sfera materiale, e innanzitutto quella produttiva (che col suo livello di avanzamento tecnico determina in massima parte l’organizzazione sociale della comunità a essa corrispondente) a determinare la sfera ideale nei suoi molteplici aspetti (essenzialmente cioè, nei suoi aspetti politico-giuridici ed ideologici), e non l’opposto. A partire da quanto detto, non si può negare che Marx sia stato il fondatore di una nuova e rivoluzionaria concezione della dialettica storica, di natura appunto materialista e anti-idealista – e ciò anche se il suo “materialismo” ci pare impregnato, per alcuni versi, di quello stesso idealismo che egli voleva combattere e lasciarsi alle spalle. Ma fu davvero, questo che abbiamo fin qui descritto, l’impianto concettuale alla base di tutta l’opera di Marx? Io penso di no. E questo non solo considerando che (come già accennato) gradualmente, senza che peraltro si possa individuare un momento di cesura tra i due periodi, Marx si rese conto della parziale inconsistenza e dell’unilateralità di una posizione come quella appena descritta, ma anche qualora ci si soffermi sulla natura duplice della sua opera: da una parte analisi oggettiva e scientifica della realtà, impietosa anche nei confronti delle sue stesse aspettative rivoluzionarie (legate essenzialmente all’idea di una instaurazione necessaria e inevitabile della fase comunista della storia umana, da egli definita come il compimento della storia); dall’altra opera di propaganda politica a favore di una trasformazione rivoluzionaria della società mondiale. Mentre infatti, per ciò che riguarda questo secondo aspetto (esemplificato dal Manifesto), egli continuò sempre per ragioni utilitaristiche ad assumere un atteggiamento “hegeliano”, affermando appunto che la società capitalista dovesse a un certo punto (per ragioni storicamente necessarie) culminare nella rivoluzione socialista/comunista; per quanto concerne il primo aspetto, quello cioè più specificamente critico e filosofico, sono molti gli indizi di un’evoluzione del suo pensiero in direzione di una visione meno deterministica e ingenua della storia. Tanto per dare un’idea di quanto sto dicendo, ricorderò il fatto che, pur affermando Marx più di una volta nei suoi scritti, che nella storia umana si susseguono necessariamente alcune fasi o stadi fondamentali: quello asiatico, quello schiavista, quello feudale, quello capitalista e quello (futuro) comunista, egli non si peritò mai (se si esclude la transazione dal capitalismo al comunismo, ancora a venire) di definire con esattezza le motivazioni alla base della necessità di tali passaggi storici. Ciò induce a pensare che egli, in realtà, non avesse del tutto chiara, o peggio non fosse affatto convinto dell’esistenza di una dinamica storica necessaria alla base di tali transizioni (e ciò se si esclude il passaggio dalla fase tribale a quelle asiatica e schiavista, opportunamente descrivibile, mi pare, nei termini di una dinamica progressiva e logicamente autosussistente). Del resto, se dovessimo affidarci ai bilanci della tradizione storicistica attuale (ma anche credo, dei tempi di Marx) apparirebbe chiaro che le ragioni che determinarono il collasso e il declino del sistema schiavista non furono affatto a esso intrinseche, così come non lo furono quelle che determinarono la fine del sistema servile. Sulla base di tali ricerche infatti, possiamo dire che lo schiavismo antico collassò sotto il peso dell’Impero romano, la cui estensione oramai eccessiva non permise più da un certo momento in poi un ulteriore allargamento dei confini, rendendo perciò sempre più difficile il continuo approvvigionamento di nuovi schiavi (gran parte dei quali derivavano infatti dalle guerre di conquista). Stando perciò a questa spiegazione, la penuria di forza-lavoro schiavile e il conseguente collasso di quel tipo di sistema economico e produttivo derivò da motivazioni politiche e militari contingenti, e non da una tara insita nel sistema stesso. Del pari, la fine del sistema servile fu legata essenzialmente alla fuga dei servi dalle campagne feudali, fattore dovuto a condizioni di vita sempre più dure dovute anche a un lungo trend di crescita della popolazione e quindi a risorse alimentari sempre più scarse: tutto ciò con il conseguente e graduale ripopolamento urbano e quindi con la rinascita di un’economia di mercato che finì nel corso dei secoli per rimpiazzare quella – fino a allora prevalente – di stampo agricolo e feudale. In entrambe queste analisi, fino a prova contraria non smentite da alcuna interpretazione marxiana, le ragioni del passaggio da un fase o periodo a quello seguente, non risiedono all’interno del sistema che viene superato, nella sua intrinseca natura, ma in fattori (per quanto di lunga portata) a esso estrinseci, che ne minano dall’esterno le fondamenta. Queste analisi, in altri termini, dimostrano come tali passaggi strutturali siano dovuti a fattori contingenti ed estrinseci rispetto alla logica che vanno a scardinare e non a motivazioni ad essa strutturali. Tutto questo, del resto, ci dimostra il ruolo ineliminabile della contingenza e del “caso” nell’evoluzione della storia umana, nella sua logica immanente. Così come il fatto che Marx non abbia mai avanzato una esplicita formulazione teorica in merito al passaggio da ognuna di queste fasi storico-economiche a quella successiva, ci porta a sospettare che lui stesso non credesse fino in fondo all’esistenza di una tale necessità.
Facciamo ora un passo indietro. Abbiamo già detto in che senso il pensiero di Marx fu un pensiero materialista, o quantomeno abbiamo già spiegato il primo dei due sensi o accezioni in base alle quali lo si può definire tale (che è poi il senso che lui stesso, suppongo, avrebbe dato a tale definizione). Ma dobbiamo anche chiederci se una mente critica e spregiudicata come la sua potesse essere davvero incapace di dubitare di un’affermazione come quella alla base di un tale atteggiamento. L’affermazione cioè, secondo la quale i fattori materiali (cioè, in ultima analisi, i fattori produttivi) debbano sempre e necessariamente essere causa di quelli, non a caso da lui definiti sovrastrutturali, d’ambito ideale o comunque non strettamente produttivo e sociale (…vale a dire i fattori giuridici, politici, ideologici). Non vi è difatti, mi pare, nessuna ragione necessaria e incontrovertibile per credere che le cose debbano sempre andare così. Certo, Marx fa notare (da buon materialista) che la vita associata ha come scopo primario quello di favorire la sopravvivenza dei suoi membri, e che quindi i fattori primari alla base della società devono essere in realtà di natura materiale e produttiva (economica) anziché “spirituale”. Ragione per cui dovrebbero essere, a rigor di logica, sempre questi ultimi a determinare la società nel suo complesso, e non – come si tende di solito a credere, e Hegel non fece certo eccezione… – i fattori spirituali e ideativi. Ma questa osservazione di massima, pur indiscutibilmente ragionevole, non può escludere per se stessa l’eventualità che anche i cosiddetti fattori “sovrastrutturali” possano alle volte divenire strutturali rispetto a quelli che di solito sono tali. Né infatti Marx escluse mai una tale eventualità, anche se la ritenne comunque una possibilità liminare, un qualcosa di improbabile e comunque di secondario rispetto allo svolgimento della Storia nei suoi aspetti e nei suoi momenti centrali. Eppure, in questa ammissione (se così vogliamo chiamarla) possiamo scorgere, almeno a mio avviso, i semi di un nuovo e più radicale sviluppo del pensiero di Marx in senso “materialista”. Premetto innanzitutto che questa affermazione è molto discutibile. Molti studiosi infatti, vedono piuttosto in tale ammissione un’attenuazione della sua originaria impostazione materialistica e quindi un parziale riavvicinamento alla tradizione idealistica hegeliana (la quale, come si è più volte ricordato, conferiva ai fattori spirituali una assoluta preminenza su quelli materiali, socio-produttivi). Per parte mia, non nego assolutamente che una tale considerazione sia lecita e sensata, ma credo in ogni caso che non vada a cogliere le implicazioni più profonde della questione. Dubitando infatti (seppure in modo marginale) dei presupposti materialistici ed economici del suo pensiero, Marx dubitava implicitamente della stessa logica che vi era a base, dando così un’ulteriore spallata all’idea (di matrice hegeliana) che la Storia fosse caratterizzata da una logica evolutiva coerente e lineare. L’ammissione della capacità di fattori di natura non strettamente materiale (quali ad esempio, l’affermarsi di una determinata corrente di idee, di determinate scelte di carattere politico…) di influenzare l’evoluzione di una determinata società in tutti i suoi aspetti, compresi quelli economici e “strutturali”, implicava insomma l’entrata in gioco come fattori determinanti dell’evoluzione storica di fattori materiali di un tipo nuovo: fattori cioè che possiamo definire materiali, non in quanto aventi un carattere economico-produttivo, ma in quanto sostanzialmente estranei a quella logica o dialettica, di natura appunto economico-produttiva, che Marx aveva individuato come la base stessa dell’evoluzione storica. Anche l’ammissione della possibilità di un’inversione di quelli che sono i termini usuali del rapporto tra struttura e sovrastruttura lascia intravedere quindi l’esistenza di un Marx molto diverso da quello che usualmente conosciamo, di impronta tanto materialista nella forma quanto (almeno per alcuni versi) idealista nella sostanza del suo pensiero. E’ peraltro innegabile il fatto che Marx non sviluppò mai oltre un certo limite, questo secondo aspetto del suo pensiero, che io amo definire a sua volta “materialista” (nella misura in cui il termine Materia, nella filosofia occidentale, sta spesso a indicare ciò che è contingente, casuale, illogico e imprevedibile – in contrasto con la natura razionale di tutto ciò che è Spirito o Idea). Un tale gravoso compito infatti fu portato avanti in modo approfondito da altri pensatori, a lui successivi, quali ad esempio (e innanzitutto) il grande sociologo Max Weber, il quale si soffermò a lungo nelle sue ricerche sul ruolo causale svolto dalla sfera ideale o ideologica (vista però in un’ottica “contingentista”, cioè come fattore non determinabile a priori in base a qualsivoglia logica evolutiva assoluta, di stampo hegeliano!!!) rispetto a quella sociale e materiale, superando in tal modo l’ingenuo e unilaterale materialismo di cui, nonostante alcuni impliciti ripensamenti, fu sempre impregnata la filosofia marxiana. C) Considerazioni finali: quel che di Marx è ancora attuale in una visione storica moderna In sintesi, credo si possa affermare che la grande lezione marxista sulla storia, ovvero l’impatto positivo che il suo pensiero ha avuto sul pensiero storico attuale, consista nel suo tentativo di rinnovare in senso scientifico e materialistico la visione evolutiva inaugurata da Hegel. Ciò che – come si è mostrato – egli fece su due fronti: 1) Da una parte infatti, egli inaugurò una visione materialistica della dialettica hegeliana, sottolineando la radice materiale e produttiva (quindi essenzialmente economica) delle società umane, in contrapposizione a una visione idealistica (per la verità non solo hegeliana) che considerava gli aspetti socio-economici come un prodotto secondario dell’evoluzione spirituale del genere umano. In questo senso appunto, egli non solo fu un materialista “duro e puro”, ma fornì anche una chiave di lettura della storia umana che per l’epoca, decisamente impregnata di idealismo, era davvero rivoluzionaria e che – nonostante, come lui stesso riconobbe, non possa essere considerata sempre e invariabilmente valida – ancora oggi è tendenzialmente alla base del metodo della ricerca storica. Nessuno infatti, si sognerebbe più ormai di dare ai cosiddetti fattori “spirituali” una priorità eziologica assoluta su quelli materiali, e ciò a prescindere da quale che sia il suo personale orientamento storiografico e ideologico. Al contrario, prevale oggi indiscutibilmente – e a ragione – la tendenza a conferire ai fattori materiali (socio-economici) una sostanziale preminenza sui fattori di carattere spirituale o ideale (e ciò anche se, come si è già detto, un tale orientamento materialista non deve essere considerato valido per partito preso, ancor prima cioè di avere considerato le specifiche dinamiche storiche che caratterizzano l’oggetto particolare della ricerca storica!) 2) Dall’altra parte, Marx pare essere andato per certi versi oltre gli stessi aspetti più radicali dell’idealismo hegeliano, aspetti ai quali complessivamente è tuttavia rimasto legato: oltre cioè l’idea di una dialettica storica fondamentalmente autosufficiente, non influenzata (almeno nei suoi aspetti cruciali) dal peso della contingenza storica. E’ possibile intravedere infatti nei suoi scritti (anche se raramente egli ne fa menzione esplicita) la consapevolezza che fattori di tipo contingente, non previsti cioè all’interno del suo “sistema” di pensiero dialettico materialista, possano influenzare in modo sostanziale gli sviluppi della storia, modificandone per così dire dall’esterno la logica, un po’ come un granello di sabbia che si insinui in un ingranaggio meccanico, facendone saltare gli automatismi! Tali fattori di Contingenza storica peraltro, non hanno sempre e necessariamente un carattere materiale, laddove quantomeno con tale termine si intenda qualcosa di fisico, di corporeo… Essi possono infatti anche essere fattori “spirituali”, in quanto prodotto (libero e imprevedibile) della mente e dello spirito umani: sia di un singolo individuo o comunque di una ristretta comunità (una decisione politica, la formulazione di un’idea…) sia di una massa (una corrente religiosa o di pensiero, una mentalità diffusa…) Ed è appunto in questo senso, di contingenza storica, che i fattori spirituali vengono riabilitati come possibili cause attive del divenire storico nella moderna concezione storica, che dello storicismo materialista di Marx, con tutte le sue ambiguità, è senza dubbio per molti versi erede e, pur nelle differenze anche radicali che spesso le separano, prosecuzione. In questo senso sarebbe a mio avviso errato, almeno oltre un certo limite, vedere in un pensatore quale Max Weber un implacabile avversario di Marx e del suo materialismo storico. Egli fu infatti tanto un avversario (soprattutto sul piano politico) quanto, per altri aspetti, un prosecutore e un “radicalizzatore” della sua visione materialista, e ciò dato l’accento che pose nelle sue ricerche sui fattori di “materialità”, ovvero di intrinseca casualità e in-deducibilità, insiti in quel grande processo evolutivo che è la Storia. Una tale rivalutazione della materialità o contingenza storica tuttavia, non deve farci credere che i pensatori post-marxisti siano tornati a una visione, per così dire, non evolutiva della storia: la Storia intesa cioè come una somma di fatti ed eventi essenzialmente casuali o solo debolmente interconnessi tra di loro, espressione magari nei suoi momenti salienti dell’“eroismo” di alcuni individui eccezionali, piuttosto che mossa da una Provvidenza esterna e superiore quale quella di cui parlano le religioni monoteistiche. Al contrario infatti, gli studiosi moderni concepiscono oramai (al pari per esempio dei Darwinisti in ambito naturalistico) l’evoluzione storica come un divenire e un processo che ha in se stesso la propria origine e la propria logica, che è dotato cioè di una propria razionalità intrinseca, la quale però – per dirla con Leibniz, il quale, pur non avendo mai tentato di comprendere la storia umana come un unico processo, ebbe in questo campo valide intuizioni – possiamo sì definire come una ragion sufficiente, ma mai e poi mai come una ragione necessaria. P.S: Le considerazioni contenute in questo scritto sono state occasionate dalla lettura di due saggi: - Helmut Fleischer, Marxismo e storia, Il Mulino, 1970; - Richard Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, 1992. Non ho ritenuto necessario inserire note di rimando alle fonti primarie e/o secondarie che mi hanno ispirato e a cui implicitamente mi riferisco, come senza dubbio avrebbe fatto un eminente studioso (che tuttavia io non sono). E questo perché, essenzialmente, le mie sono (e si dichiarano) considerazioni “a ruota libera”, alla base delle quali non vi sono anni e anni di studio della vastissima (pressoché infinita…) bibliografia legata ai molti argomenti qui implicati. Lo dico per onestà verso il lettore. Non me ne voglia per questo e cerchi piuttosto il buono che può trovare in queste righe. |