GALILEO GALILEI

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GALILEO GALILEI E LO SCONTRO COL POTERE CLERICALE (1564-1642)

I - II

GALILEO GALILEI

Nasce a Pisa nel 1564. Inizia gli studi di medicina per compiacere a suo padre, ma li abbandona per dedicarsi con passione alla matematica, sotto la guida di Ostilio Ricci, allievo del grande matematico Niccolò Tartaglia. Studia Euclide e Archimede, del quale apprezza il metodo e l’applicazione della matematica alla meccanica. Proprio sulla base delle indicazioni di Archimede produce la bilancia idrostatica, che illustra nel suo primo scritto La bilancetta del 1586. Nel 1592 ottiene la cattedra di matematica a Padova, dove vive e lavora per diciotto anni. Accanto al suo studio allestisce un’officina nella quale costruisce strumenti per gli studi e le lezioni. In quell’officina, verso la fine del periodo padovano, costruisce il cannocchiale che punta al cielo.

La fede nel cannocchiale

Il cannocchiale è nato in Olanda, come nuovo trastullo, ma anche come strumento per la navigazione e per l’attività militare. Galileo, molto attento ai prodotti degli artigiani, anche se non ha grandi nozioni di ottica, lo migliora empiricamente e lo presenta a Venezia nell’agosto del 1609. La cultura ufficiale non lo degna d’attenzione e ne diffida, come di tutto ciò che proviene dal mondo meccanico. Galileo, invece, se ne avvale per la sua attività scientifica. Invita anche l’amico e collega d’università Cesare Cremonini a servirsene, ma questi si rifiuta: il cannocchiale gli “imbalordiva la testa”.

Galileo e Cremonini rappresentano bene le due culture allora opposte nei confronti dei mezzi meccanici al servizio del sapere. A noi Cremonini può sembrare un tipo incredibile e assurdo, ma allora esprimeva lo spirito di molta cultura dominante: per guardare nel cannocchiale in cerca della verità, bisogna fidarsi del cannocchiale, essere convinti che questo vile strumento artigianale migliori e non alteri la possibilità visiva dell’occhio; bisogna credere nel cannocchiale e nell’occhio.

Galileo ha fede nel cannocchiale, Cremonini no. La fede di Galileo nasce dalla fede nella manualità e trova conferma nei risultati visivi. La diffidenza di Cremonini nasce dalla sottovalutazione della manualità e dei suoi prodotti e trova conferme nella cultura aristotelica e libresca in cui crede fermamente.

Si ripresenta, dopo due millenni, qualcosa di simile all’antica opposizione tra Anassagora e Aristotele sulla questione delle mani: per Anassagora l’uomo è l’animale più intelligente perché ha le mani, per Aristotele ha le mani perché è l’animale più intelligente. Per il primo l’intelligenza nasce dalla manipolazione delle cose, per l’altro la manipolazione delle cose nasce dalla mente.[1]

Le due posizioni potrebbero integrarsi con buoni effetti per il sapere e la manipolazione delle cose, perché le mani e la mente sono in rapporto stretto e reciproco. Ma, il diverso valore attribuito alla manualità porta i due filosofi a opporsi sulla questione del primato tra la mente e le mani e, quindi, su quale dei due organi umani debba servire l’altro. Nel mondo greco antico vince Aristotele e, per due millenni, nell’alta cultura prevale una certa svalutazione del fare con le mani e la tendenza della teoria a chiudersi in se stessa, anche se l’ammirazione sempre viva per Archimede dice che la posizione opposta non sparisce. In età moderna vince Galileo, ma la battaglia non è ancora finita: si pensi, ad esempio, all’ancora ricorrente conflitto tra cultura umanistica e cultura tecnico-scientifica.

1610: si dissolve il mondo di Aristotele

Nel 1610, a Padova, Galileo pubblica il Sidereus Nuncius, in cui informa su quanto ha visto in cielo con il cannocchiale.

L’etere, la materia perfetta e incorruttibile di cui secondo Aristotele sarebbero fatti i corpi celesti, non esiste; i corpi celesti non sono materialmente diversi da quelli terrestri; la Luna ha un aspetto molto simile alla Terra; il Sole ha delle macchie mobili; Giove ha quattro satelliti che gli girano intorno, smentendo la teoria aristotelica delle sfere cristalline; le stelle sono almeno dieci volte di più di quelle che si vedono a occhio nudo.

La teoria aristotelica del moto, fondata sulla distinzione fra movimenti celesti circolari e spontanei e movimenti terrestri rettilinei e distinti in naturali e violenti, viene dissolta. Nasce una nuova fisica.

Galileo la illustra soprattutto in uno scritto del 1623, Il Saggiatore.

Fisica e metafisica

La nuova fisica si basa sull’idea, di origine pitagorica, che la natura sia scritta in caratteri matematici e che la ricerca scientifica debba, necessariamente, passare per la misurazione dei fenomeni.

Si tratta di un’idea antica che rivoluziona la fisica. Essa, infatti, comporta che, nel caso ad esempio dell’analisi del calore, si trascurino tutte le impressioni soggettive e si prendano invece in considerazione solo gli effetti misurabili, come dilatazione e pressione, delle cose riscaldate.

La scienza deve limitarsi a ciò che è reale e obiettivo e trascurare le reazioni sensoriali soggettive dell’uomo. Ritorna, così, la distinzione democritea fra gli aspetti misurabili della realtà (forma geometrica, dimensioni e movimento) e gli aspetti percepibili solo attraverso i sensi e non misurabili (suoni, sapori, colori, odori).

Insieme alle qualità soggettive, spariscono dalla fisica galileiana le essenze e le finalità. Galileo non nega, certo, l’esistenza dei fini nelle cose e nel mondo, ma pensa che la loro conoscenza non sia alla portata della scienza. Questa, infatti, si limita a misurare grandezze e a cercare relazioni costanti tra variabili, studia il mondo fisico come se fosse una macchina, sulla scia di Keplero (il mondo come orologio divino) e di Democrito. La ricerca della vera essenza, della “forma”, delle cose, che ancora affascina Bacone, per lui non appartiene alla nuova scienza fisica.

La scienza si libera dalla metafisica e dei suoi residui ancora presenti nella ricerca scientifica contemporanea a Galileo?

Galileo ha tagliato il vincolo ombelicale con la metafisica e i suoi problemi?

A guardar bene, nella fisica galileiana non c’è solo scienza. La sua fisica non nasce emancipandosi dalla metafisica tout court, ma opponendo a una certa metafisica un’altra metafisica. L’idea che la natura sia una macchina scritta in lingua matematica è metafisica, democritea e pitagorizzante, non certo aristotelica, ma a pieno titolo metafisica. Le prove sperimentali delle ipotesi, le domande alla natura, costruite in base ai dati empirici misurabili e ai ragionamenti geometrizzanti, consolidano l’ipotesi, anzi la tesi di fondo, che il mondo abbia struttura meccanica e geometrica, ma non ne annullano il carattere metafisico. In Galileo, lo scienziato e il metafisico, inscindibili, cercano conferme nelle prove sperimentali.

Galileo metafisico, dunque?

Facciamo attenzione al passo che segue.

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua, e a conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.[2]

E’ un passo chiaramente metafisico, come metafisico è il passo nel Dialogo in cui Galileo, per bocca di Salviati, dopo aver distinto la conoscenza “in due modi, cioè intensive, o vero extensive”, sostiene: “L’intelletto umano ne intende [di “proposizioni”] alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa essere sicurezza maggiore”.

All’obiezione di Simplicio (“Questo mi par un parlar molto resoluto ed ardito”), per allontanare “ogni ombra di temerità o d’ardire” dalle sue tesi, Salviati precisa: “Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza di alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle più semplici e quella pigliando per sua definizione, passiamo con un discorso ad un’altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l’intelletto divino con la semplice apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la infinità di quelle passioni”. Insomma, i “passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l’intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un istante, che è l’istesso che dire, gli ha sempre presenti”.

La conoscenza umana è molto limitata e discorsiva, ma quando arriva a conoscere con “necessità” eguaglia quella divina, infinita e intuitiva: due più due fa quattro con uguale “necessità” per noi e per Dio.     

Certo, le pagine metafisiche negli scritti di Galileo sono infinitamente di meno di quelle fisiche, ma hanno grande importanza: è la convinzione metafisica che la matematica sia assolutamente vera e sia il codice di lettura della realtà fisica a rendere per Galileo inaccettabile il consiglio di Bellarmino di considerare il copernicanesimo una semplice ipotesi.

La scienza moderna nasce in una lunga e complessa battaglia culturale, nella quale la metafisica è decisiva.

Il metodo galileiano

Galileo ha praticato con successo la ricerca scientifica, ma non ne ha costruito una teoria sistematica; tuttavia si può ricavare dai suoi scritti un metodo articolato in tre momenti: l’osservazione, l’ipotesi e l’esperimento.

La ricerca parte dall’osservazione empirica di ciò che si presta a misurazione e può essere tradotto in rapporti numerici. L’osservazione, cioè, non è l’abbandonarsi alle sensazioni, ma deve essere selettiva e matematizzata.

Una buona raccolta di dati rende possibile formulare un’ipotesi sulla natura di quel che si è osservato, formulare una domanda alla natura. Perché la natura risponda alla domanda in modo univoco e decisivo bisogna costruire condizioni artificiali che consentano l’osservazione del fenomeno e la prova sperimentale in forma pura, univoca. Nel predisporre condizioni artificiali per l’osservazione e l’esperimento, Galileo usa tutta la sua straordinaria abilità manuale e tecnica.

L’esperimento, che Galileo chiama “cimento”, risponde alla domanda formulata alla natura, confermando o meno l’ipotesi.

Lo scontro con il potere clericale

Gli esperimenti di Galileo e la teoria fisica che ne ricava rendono un grande servizio al copernicanesimo, che Galileo aveva abbracciato da tempo ma non ancora insegnato apertamente. Le scoperte col telescopio lo convincono ad abbandonare le cautele. La calorosa accoglienza a Roma, dove si reca nel 1611, gli infonde ottimismo: l’aristotelismo non può essere più forte dei fatti.

Lo scontro con la cultura aristotelica, però, coinvolge la Chiesa, che da tempo ha fatto sua la cosmologia aristotelica dei due mondi, uno, quello celeste, perfetto e incorruttibile, l’altro, sublunare, imperfetto e corruttibile.

Galileo non tiene abbastanza in conto il fatto che, nella battaglia sul copernicanesimo, c’è non solo una fondamentale questione astronomica, ma, anche e, soprattutto, una questione di potere: l’autonomia della scienza, che a lui sembra tanto naturale, è per il potere clericale inaccettabile. Più Galileo s’impegna a spiegare la distinzione tra fede e scienza, più la resistenza della Chiesa cresce. E’ proprio quella distinzione e la conseguente autonomia della scienza che la Chiesa non accetta.

Il consiglio di Bellarmino, che già nel 1615, gli suggerisce di muoversi con le cautele che Osiander aveva premesso all’opera di Copernico, cioè di presentare la nuova teoria come semplice ipotesi, senza pretese di verità, cerca di mascherare la ruvida resistenza della chiesa come parziale apertura.[3] Galileo, però, come scienziato e uomo di fede cattolica, non ci sta: per lui la Chiesa ha ragione in materia di fede, ma sul terreno scientifico la sola autorità è l’esperimento, perché la Bibbia non è un testo scientifico. L’aveva scritto con molta chiarezza in una lettera a Benedetto Castelli, del dicembre 1613 e subito largamente diffusa, riprendendo l’argomento già sostenuto da Bruno: quando nella Bibbia ci sono accenni a questioni scientifiche, la rivelazione si adatta alle capacità di capire dei popoli, mentre il linguaggio della natura non tiene conto di questi limiti umani.

Galileo ha dalla sua parte la nuova scienza e la sua verifica sperimentale, i suoi oppositori hanno dalla loro parte una lunga tradizione e il potere clericale fortissimo. E’ uno scontro di giganti, uno in crescita, ma ancora piccolo, l’altro nel pieno delle sue forze, anche se qualche ruga ne segnala l’incipiente declino. Galileo scopre il principio d’inerzia, poi teorizzato chiaramente da Cartesio, ma sottovaluta gravemente la forza d’inerzia della tradizione e dei rapporti di potere esistenti. Riconosce alla Chiesa l’esclusiva competenza in materia di fede, ma vuole riconosciuta l’autonomia della scienza sperimentale. A lui sembra di chiedere l’ovvio e il minimo, ma per la Chiesa è troppo. Nel 1616 essa mette all’indice il libro di Copernico e intima a Galileo di non insegnare né difendere il copernicanesimo.

Galileo argomenta sempre di più le sue posizioni e nel 1632 pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nella convinzione che l’evidenza dei fatti trionfi sul peso della tradizione. La Chiesa, che non è disposta a perdere il suo tradizionale ruolo di guida nelle scienze e nella cultura, risponde con l’artiglieria del Tribunale dell’Inquisizione.

Il processo, l’abiura e la condanna

Nell’ottobre del 1632 a Galileo viene intimato di trasferirsi a Roma a disposizione del Sant’Uffizio. Galileo cerca di guadagnare tempo, ma la reazione è violenta. Il primo gennaio l’Inquisitore di Firenze riceve da Roma una lettera durissima: “E’ stato molto male inteso che Galileo Galilei non habbia prontamente aderito al precetto fattogli di venire a Roma; e non deve egli scusar la sua disobbedienza con la stagione, perché per colpa sua si è ridotto a questi tempi; et fa malissimo a cercar di paliarla fingendosi ammalato … Se non obbedisce subito si manderà costì un Commissario con medici a pigliarlo, et condurlo alle carceri di questo supremo Tribunale, legato anco coi ferri, poiché sin qui si vede che egli ha abusato la benignità di questa Congregazione”.

Galileo giunge a Roma il 13 febbraio e viene ospitato dall’ambasciatore Niccolini, che lo accoglie con molto affetto e gli consiglia di sottomettersi.

L’accusa mossa a Galileo è di aver estorto a padre Riccardi l’imprimatur per il Dialogo in modo fraudolento, senza fargli presente il precetto bellarminiano del 1616 di non insegnare o difendere la dottrina copernicana. Galileo cerca di difendersi, affermando di non ricordare che gli sia stato intimato quel precetto davanti a testimoni, dice che il Dialogo in realtà non è a favore del copernicanesimo, ma non ha la tempra di Giordano Bruno e viene presto stritolato. Il 22 giugno viene condannato e lo stesso giorno pronuncia l’abiura.

Peggio che nella favola del lupo e dell’agnello: l’agnello Galileo è costretto, dalla Chiesa in cui crede, non solo a lasciarsi mangiare, cioè a cedere l’autonomia della scienza, ma anche a giurare che l’acqua scorre dal basso verso l’alto!

Galileo, evitato il rogo con l’umiliante abiura, viene condannato al carcere a vita, commutato prima nell’isolamento a Siena e poi negli arresti domiciliari nella sua villa di Arcetri, dove compie ancora importanti studi scientifici.

Muore l’8 gennaio 1642.


[1] Si veda a p. 153 del n° 1 dei Quaderni dell’Università popolare, La filosofia greca.

[2] Il Saggiatore,  par. 6.

[3] Di questo intervento di Bellarmino ho scritto a p. 100 del quaderno n° 4 Da Duns Scoto a Giordano Bruno.

Torino 30 gennaio 2012

Giuseppe Bailone


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Aggiornamento: 26-04-2015