VENDETTA O PERDONO?

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VENDETTA O PERDONO?

La scelta tra vendetta e perdono sta nel mezzo, cioè nella speranza che chi ha compiuto il torto non possa più ripeterlo. Ovviamente sarebbe meglio averne la certezza, ma se si pensa di poterla avere quando è in gioco la libertà di coscienza, ci illudiamo soltanto. L'unica cosa certa è che non si può essere schematici: non si può fare una scelta a prescindere da qualunque altra considerazione. Non si può essere vendicativi o perdonisti per partito preso: qui la differenza non è tra ateismo e religione, tra cinismo e buonismo, ma tra maturità e infantilismo.

Forse quello che dà più fastidio non è tanto il fatto d'aver subito un'offesa, poiché ciò può anche inorgoglire: a volte infatti esiste una punta di autocompiacimento anche nel vittimismo, a condizione ovviamente che gli altri sappiano che abbiamo patito un'ingiustizia evidente. Gli altri devono soprattutto sapere che si soffre in silenzio, senza reagire.

Una sofferenza del genere, tutta interiore, ingiustificata, immeritata, non può però essere tenuta dentro: va resa pubblica, perché solo così se ne può attenuare l'intensità. Altrimenti il rischio è che possa esplodere e che chi ha subìto un torto si comporti peggio di chi l'ha procurato. Naturalmente per renderla pubblica, occorre una comunità di riferimento, che faccia da supporto, che attenui il dolore, che dia forza, anche nel denunciare il torto, quando si pensa di non averne abbastanza da soli.

Ma quello che assolutamente dà più fastidio è che il colpevole continui ad agire indisturbato. Ancora di più si soffre quando si constata che le istituzioni non fanno il loro dovere per catturarlo, per punirlo, per impedirgli di reiterare la colpa. E ancora ancora di più quando la comunità attorno a noi non ci aiuta, non fa pressione sulle istituzioni perché giustizia venga fatta.

Ecco, in situazioni del genere può scattare il desiderio di una vendetta privata, l'esigenza di diventare dei "giustizieri della notte". Si risponde in maniera individualista a un reato compiuto per colpa dell'antagonismo sociale. E non se ne esce. Invece di approfittare dell'occasione per ripensare i criteri di vita, si reagisce riconfermandoli, e la violenza privata diventa una spirale senza fine, come nelle faide d'un tempo.

Bisogna togliere all'individuo il diritto di vendicarsi, ma questo è possibile solo se gli si assicura che si farà di tutto per trovare il colpevole e soprattutto che si discuterà insieme sulle motivazioni che possono aver portato a quel suo determinato comportamento. Affinché non si ripeta.

Certo, è importante che l'offesa venga pagata (chiunque deve sapere che ogni reato ha il suo prezzo), ma è ancora più importante la consapevolezza d'aver posto le basi perché esso non si ripeta. Uno può anche accontentarsi di non aver ottenuto una piena soddisfazione o riparazione personale, ma in alternativa bisogna offrirgli la convinzione d'aver ottenuto una soddisfazione più generale, riguardante l'intera collettività, foss'anche soltanto quella locale d'appartenenza.

Non solo va rieducato chi ha compiuto il torto, ma anche chi l'ha subìto, perché, se da un lato è vero che lo Stato deve dimostrare che non c'è alcun bisogno di ricorrere alla vendetta privata, in quanto le istituzioni funzionano e non sono colluse con la criminalità; è anche vero, dall'altro, che non serve dare al colpevole una punizione esemplare, come p. es. il carcere a vita o la pena di morte. Condanne di questo genere non fanno parte della giustizia ma solo della vendetta. Nessuno ha il diritto di togliere a un altro la possibilità di pentirsi. E nessuno ha il dovere di far credere che la responsabilità di un crimine ricada solo sul criminale.

Lo Stato non può chiedere al cittadino di non esercitare una vendetta privata affinché possano esercitarla pubblicamente le istituzioni, sotto la parvenza della legalità. E' un segno di maturità saper trasformare le colpe in occasioni di ripensamento di comportamenti abituali. Bisogna mettere il colpevole nelle condizioni di capire che anche grazie a lui, indirettamente, la collettività ha avviato un processo di revisione di determinati stili di vita.

Questi processi rientrano in quella branca del sapere che si chiama psico-pedagogia politica e che ancora, purtroppo, è poco sviluppata, in quanto si tende a fare della psico-pedagogia una scienza da utilizzarsi contro i guasti o le manchevolezze della politica o delle istituzioni in cui la politica viene esercitata.

CHIEDERE PERDONO DEI PROPRI CRIMINI

In un universo infinito nello spazio ci si può nascondere dove si vuole pur di non pentirsi del male che s'è fatto. Poiché l'universo è anche eterno nel tempo, ci si può nascondere per sempre. Nell'universo infatti si ha consapevolezza che il suicidio non può essere fisico ma solo spirituale. Ci si nasconderà per l'eternità in un luogo remoto per la vergogna di ciò che s'è fatto, ma anche per la pervicace volontà di non pentirsi.

Sulla terra le cose sono un po' diverse. Se uno ha compiuto crimini orrendi e, a un certo punto, s'accorge di non poter sfuggire alla giustizia, può arrivare a suicidarsi oppure a rassegnarsi ad avere il massimo della pena, che è la sentenza capitale o l'ergastolo. Cioè uno può pensare che, prima o poi, finirà di provare vergogna d'essere stato condannato per il reato compiuto.

Ma nell'universo questa stessa persona cosa dovrà pensare? A dir il vero uno può anche pensare d'aver compiuto i propri crimini secondo una certa plausibile motivazione o razionale giustificazione, per cui non ritiene di doversi pentire o comunque di non doverlo fare più di tanto. Quanti sostengono d'aver agito come criminali senza essere stati pienamente coscienti o perché condizionati da un drammatico passato o perché dovevano obbedire a un ordine superiore o perché accecati da un'ideologia o perché convinti che, in quel modo, avrebbero evitato un male peggiore? All'interno di considerazioni così particolari è difficile pentirsi al 100%, o almeno è molto difficile farlo da soli.

Ci vuole qualcuno che ci faccia capire fino a che punto si giocava la nostra responsabilità al momento di compiere un determinato crimine. Uno ha il diritto d'essere aiutato a pentirsi in qualunque momento, anche se gli si deve sempre garantire la libertà di non volerlo fare. Sono situazioni complesse, anche perché l'aiuto non può certo essere dato sulla base di motivazioni superficiali o schematiche. Bisogna saper tener testa alle argomentazioni sofisticate dei grandi criminali, che in genere sono uomini politici o militari o anche uomini di chiesa o intellettuali in grado di esercitare poteri significativi, come p. es. gli scienziati, i consiglieri, i funzionari...

Una differenza sostanziale, comunque, c'è: nell'universo la prigione o, se vogliamo, la pena è tutta interiore. Questo perché, essendo infinito nello spazio, l'universo permette a chiunque di non essere condizionato negativamente dall'atteggiamento altrui. Su questa terra, invece, gli uomini hanno sempre paura dei criminali: temono che i loro crimini possano ripetersi, anche se, essendo i grandi criminali le persone di potere, i comuni cittadini cercano di difendersi come meglio possono.

Paradossalmente là dove le condizioni di spazio e di tempo sono illimitate, l'importanza delle questioni di coscienza cresce in maniera esponenziale. Se non c'è alcun limite esterno all'agire, tutto dovrà giocarsi sulle potenzialità interne che uno dovrà per forza scoprire d'avere. E sarà su queste potenzialità che si dovrà prendere una decisione: o giocarsele tutte, mettendosi a disposizione di un proprio cambiamento significativo, o non giocarsele affatto, rendendo la propria coscienza impermeabile alle influenze altrui.

Di sicuro il tempo per ripensarci non mancherà. Nessuno può essere obbligato né a pentirsi né a non pentirsi: questa regola dovremmo adottarla anche sulla terra. Se esiste un inferno, è solo per chi lo vuole: non può esserci nessuna porta con scritto sopra: "Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate". Quindi niente torture, ma anche niente condanne definitive.

Naturalmente questo discorso vale anche per chi ha subito il crimine, il quale, con non meno intensità emotiva del criminale, deve essere disposto a perdonare. E, per poterlo fare, deve essere convinto di almeno due cose: la prima è che il criminale può aver avuto delle motivazioni plausibili; la seconda è che nessuno è mai totalmente innocente. Cioè dentro quelle motivazioni ce ne può essere una che riguarda, in qualche modo, la stessa vittima. Si pensi solo al fatto che esiste colpevolezza anche quando, vedendo compiere un crimine contro qualcuno, si pensa che ciò non ci riguardi. La storia è stracolma di questi peccati di omissione. Non si è abbastanza vigili e solerti per colpa del nostro opportunismo qualunquismo egoismo cinismo...: possiamo chiamarlo come ci pare.

Bisogna infine stare attenti che nell'universo non è come su questo pianeta, dove i criminali, abituati a ragionare in termini giuridici, fanno calcoli sulla possibile convenienza che hanno a pentirsi. Nell'universo l'unica vera legge umana sarà quella della libertà di coscienza: sarà impossibile dimostrare d'essere pentiti senza versare fiumi di lacrime. Non avrà alcun senso dimostrare d'essere pentiti rivelando i nomi dei propri complici o restituendo il maltolto: la verità sui grandi crimini dell'umanità sarà alla portata di tutti. L'unica "indagine" da fare sarà quella nei confronti di se stessi.

Non solo, ma anche dopo aver versato fiumi di lacrime, non si potrà pretendere che le nostre vittime ci perdonino. La riconciliazione tra vittima e carnefice potrà avvenire solo nella più assoluta libertà reciproca. Per questo motivo dovremmo sin da adesso abituarci a compiere significativi gesti di riparazione là dove si sono compiuti orrendi crimini. Dobbiamo abituarci a chiedere scusa con insistenza, nella speranza che la vittima, quando vorrà, si convincerà della nostra buona fede.

SONNO, SOGNO E RISVEGLIO

Se il sonno è una raffigurazione simbolica della morte, il risveglio lo è della rinascita. In mezzo vi è il sogno, che esprime l'esigenza di una riconciliazione tra morte e rinascita. Nel sogno si rivivono desideri repressi, frustrazioni, paure, angosce, sensi di colpa, ritorni al passato, incontri con persone morte, pianti, pentimenti...: nel sogno c'è tutta la vita, a cui bisogna dare un significato complessivo, che racchiuda tutto e permetta di risvegliarsi con soddisfazione. Anche adesso, appena ci si sveglia, si ha voglia d'iniziare una nuova giornata, sempre che la vita abbia per noi un senso e che non sia vissuta in uno stress insopportabile.

Quindi dopo la morte dobbiamo aspettarci un seguito, qualcosa da fare. Ma in che senso? Ripercorrere il passato, per poter andare avanti, fino a che punto è giusto? Il passato può essere ricompreso, memorizzato adeguatamente, ma non ha senso riviverlo: si deve proseguire il cammino nelle nuove condizioni di vita che ci verranno date e che sicuramente avranno forme diverse da quelle attuali.

Non è inutile o superfluo il tempo vissuto sulla terra, poiché sarà proprio dalla fine del nostro tempo che dovremo ripartire. Non ha senso ripetere le cose: sarebbe come burlarsi della nostra intelligenza.  Se abbiamo sbagliato, verremo messi in grado di capirne il motivo e, a tale scopo, ci basterà l'intelligenza o la sensibilità.

Faremo ammenda delle nostre colpe e ripartiremo, questa volta col piede giusto. Il problema, semmai, sarà per chi ha compiuto crimini orrendi, per i quali ha bisogno d'essere perdonato da chi li ha subiti. Le vittime devono mettere i carnefici in grado di perdonare se stessi. E finché non lo fanno, sarà difficile poter andare avanti: lo sarà sia per i carnefici che per le stesse vittime. Quest'ultime, infatti, devono sapere che il perdono concesso ai carnefici farà star bene anche loro. Il perdono serve a chi lo riceve e a chi lo dà. I sentimenti di odio e di vendetta o di risentimento non fanno fare neppure un passo in direzione dell'umanizzazione della personalità.

Di questa condizione di precarietà spirituale o d'impotenza morale dovremmo già essere edotti su questa terra. Tutti dovrebbero temerla, soprattutto i carnefici (assassini, violentatori, criminali...), i quali invece pensano di non dover rendere conto delle loro azioni alle vittime in persona. Cioè, al massimo, quando vengono smascherati o catturati, pensano di cavarsela di fronte alla giustizia. E la giustizia contribuisce a tale illusione, assegnando loro sentenze capitali o ergastoli o inducendoli al suicidio.

Tutti invece dovremmo essere consapevoli del fatto che la morte non esiste: esiste solo trasformazione, per cui bisogna rendere conto di sé proprio alle vittime, singolarmente prese. È bene sapere da subito che siamo destinati a vivere, in quanto l'essenza umana è eterna. E se non ci si riconcilia con queste vittime, ci si preclude la possibilità di migliorare se stessi. Si resta paralizzati nelle proprie colpe.

Il perdono, per quanta fatica possa costare, è solo una condizione minima, non è l'obiettivo finale. È certamente la condizione che ci permette di andare avanti, ma, una volta che la si è posta, il più resta ancora da fare. L'essere umano è fatto per realizzarsi facendo: non può stare fermo.

Bisogna dunque fare in modo che vittima e carnefice abbiano la possibilità di compiere qualcosa insieme, per il bene di entrambi e della collettività di appartenenza. Bisogna essere capaci di ammettere i propri errori, per riuscire a progettare il proprio futuro. Spesso anche la vittima deve farlo, poiché non deve illudersi che il fatto d'aver subito una gravissima offesa la esime dal compiere un esame di coscienza: si può essere colpevoli di cose di cui non si ha consapevolezza.

Chi non ha flessibilità è spacciato. Senza elasticità mentale, ci si emargina da soli. Rischiamo di diventare un'intelligenza sprecata, una risorsa inutilizzata. L'orgoglio smisurato di chi non è capace di riconoscere i propri errori, lo rende umanamente molto povero, psicologicamente fragile e anche intellettualmente schematico, fossilizzato nelle proprie idee, nelle proprie assurde posizioni di principio. Chi non comprende che nel cambiamento continuo sta il senso della vita, si condanna all'immobilismo, alla ristrettezza mentale.

Piuttosto bisognerà fare in modo che il perdono non sia di maniera, cioè puramente formale, e che avvenga nella convinzione d'aver compiuto un'azione effettivamente sbagliata. Ci vuole chiarezza per chiedere perdono e per essere perdonati. Si deve essere sicuri d'aver sbagliato. Ci vuole un senso della verità sufficientemente oggettivo, che vada cioè al di là delle convinzioni personali del carnefice e della sua vittima.

Ecco, in questo senso è giusto ricapitolare il passato, reinterpretarlo alla luce di una verità oggettiva. La quale certamente non può essere data come cosa esterna al soggetto, ipostatizzata: una verità oggettiva può scaturire solo da un confronto tra le persone. Non c'è nessun dio nell'universo, nessuno può sostituirsi a noi nella ricerca della verità.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018