LA FILOSOFIA E LA TEOLOGIA FILOSOFALE
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CAPITOLO I
Conoscenza della realtà e invenzione di una meta-realtà 1.1 Dedurre il cosmo dall’esistenza di Dio Abbiamo rilevato nella prefazione come il teologo filosofale operi molto spesso nella più totale inconsapevolezza del condizionamento cognitivo che subisce avendo posto l’idea di Dio come indefettibile e veritativa conoscenza primaria. Ritenendo, di conseguenza, che solo a partire da essa sia possibile accedere alle verità secondarie concernenti il mondo materiale. Se si analizzano con attenzione gli scritti di molti pensatori che vengono considerati comunemente “laici” ci si renderà facilmente conto che spesso tale assunzione risulta palesemente impropria. E ciò accade perché si dà talmente per scontato che un qualche tipo di “credenza” metafisica nel “divino” debba albergare nel fondo delle coscienze che non si correla questo fatto ai rischi che nasconde tale pregiudizio per qualsiasi indagine sul “non-divino”. Si aggiunga che abbastanza spesso nella manualistica e nella antologie si privilegiano i passi dei grandi autori ritenuti speculativamente “più interessanti”, separandoli da altri ritenuti “meno interessanti” e di carattere aprioristico, dimenticando che molto spesso sono proprio questi che fondano quelli e li supportano ideologicamente. Questa mancanza di approfondimento delle premesse fideistiche fondanti il pensiero metafisico non conduce soltanto a delle incompletezze, bensì ad equivoci e fraintendimenti spesso assai gravi, che non rendono dopo tutto neppure giustizia alla fede sincera espressa dai metafisici filosofali. Rimane da chiedersi che cosa avrebbero potuto produrre, in termini gnoseologici, acuti pensatori del passato se non fossero stati condizionati dalla fede. Concentreremo qui la nostra attenzione, esemplificativamente, su quel periodo storico nel quale è nato un pensiero metafisico che avrebbe poi improntato di sé tutte le evoluzione della teologia filosofale moderna. Ci riferiamo al XVII secolo e ai grandi sistemi metafisici formulati in modo eminente da Descartes, Spinoza e Leibniz. Mentre del secondo tratteremo più specificamente nel § 3.6, faremo qui un accenno d’insieme, mettendo in evidenza come l’apriori fideistico da essi enunciato costituisse la “primaria” base irrinunciabile di ogni loro “secondaria” tesi filosofale. Seguendo l’ordine cronologico cominceremo con Descartes, che nasce nell’ultimo scorcio del XVI secolo e che avvia per primo la grande ricerca metafisica di quella temperie abbastanza particolare nella storia dell’umanità, a cavallo tra un passato teologico ingombrante e un futuro scientifico ancora soltanto aurorale. Naturalmente la questione che qui intendiamo porre ha orizzonti assai più ampi, riguardando, in generale, il condizionamento che l’assunzione aprioristica dell’esistenza di Dio produce sui processi cognitivi, ma basteranno questi pochi accenni per far comprendere la serietà dei problema interpretativi e storiografici che intendiamo evidenziare. René Descartes pubblica nel 1641 le Meditationes de prima philosophia e nel 1644 i Principia philosophiae; due opere fondamentali del suo pensiero e dalle quali trarremo pochi passi significativi. Nella Terza meditazione, che ha per tema Dio e la sua esistenza, Descartes scrive: [15], […] Di più, quella per la quale io concepisco un Dio sovrano, eterno, infinito, immutabile, onnisciente, onnipotente e creatore universale di tutte le cose che sono fuori di lui, quell’idea, dico, ha certamente in sé più realtà oggettiva di quelle, da cui mi sono rappresentate le sostanze finite. [1] Descartes, come tutti i teologi platonici, è convinto che “innativamente” l’idea di Dio sia per se stessa conoscenza della suprema Verità e quindi fondante di ogni altra conoscenza. E trae da ciò uno dei suoi assiomi fondamentali al fine di dimostrare che l’idea di Dio “deve” corrispondere alla sua esistenza reale scrivendo subito dopo: [16] Ora, è una cosa manifesta per luce naturale, che deve esserci per lo meno tanto di realtà nella causa efficiente e totale, quanto nel suo effetto: perché, donde l’effetto può trarre la sua realtà, se non dalla propria causa? E come questa causa potrebbe comunicargliela, se non l’avesse in se stessa? [2] Il ragionamento, in astratto, non è solo corretto, ma anche piuttosto acuto e condivisibile. Non lo è più quando si assume dogmaticamente che il cosmo sia un “effetto” e che vada ricercata una sua causa che lo trascenda o intrinsecamente lo informi. Ma il Nostro prosegue ignorando questo aspetto del problema, seguendo rigorosamente il “suo” filo logico basato su un principio che per l’epoca era assiomatico e che verrà ribadito con decisione da Leibniz. Aggiunge infatti Descartes: [17] E da ciò segue non solamente che il niente non potrebbe produrre nessuna cosa, ma ciò che è più perfetto [Dio], cioè che contiene in sé maggior realtà, non può essere una conseguenza ed una dipendenza del meno perfetto. E questa verità non è solo chiara ed evidente negli effetti, che hanno quella realtà che i filosofi chiamano attuale o formale, ma anche nelle idee, dove si considera solamente la realtà che essi chiamano oggettiva: […] [3] Si vede bene come Dio (il frutto di un’idea) diventa immediatamente reale in quanto supposta “perfezione” assoluta, e se ne trae la conclusione che il cosmo, per quanto “materialmente” perfetto, deve avere la sua causa in qualcosa di “spiritualmente” perfetto che ne sia origine, poiché esso è presente “realmente” nella mente umana come “Idea” suprema e innata di un Dio necessariamente “reale” proprio in quanto “pensato”. Superfluo rilevare che l’idealismo raggiunge qui uno dei suoi storici vertici speculativi come “creazione” logico-dialettica del divino. Veniamo ora a quella sorta di monumento di pseudo-fisica che è il Principia philosophiae, dove Descartes fa precedere la sua esposizione con il principium primum concernente la certezza dell’esistenza di Dio, soltanto a partire dalla quale possono derivare altre certezze. Lo sviluppo dell’argomento riguarda tutta la Prima parte dei Principia, ma ci limiteremo a un paio di significative affermazioni. Cominciamo dalla prima (I, 14): [14] Considerando poi che fra le diverse idee, che ha presso di sé, ve n’è una di un essere sommamente intelligente, sommamente potente e sommamente perfetto, che è di gran lunga la più importante di tutte; arriva a conoscere in essa l’esistenza, non soltanto possibile e contingente, come nelle idee di tutte le altre cose, che concepisce distintamente, ma del tutto necessaria ed eterna. [4] […] così dal solo fatto che percepisce, che l’esistenza necessaria ed eterna è contenuta nell’idea di ente sommamente perfetto, deve senz’altro concludere che l’ente sommamente perfetto esiste. [5] L’idea di Dio è “necessaria ed eterna” (come all’incirca già pensava Sant’Anselmo) e dunque si può dubitare di tutto, a cominciare dai nostri sensi fino alle nostre deduzioni (quelle matematiche comprese), ma non si può dubitare dell’esistenza di Dio, della sua perfezione, della sua onnipotenza e di averci creati. Descartes sviluppa ulteriormente questo assunto fondamentale prima di avviare l’indagine cosmologica e quella fisica, quale premessa ineludibile e basilare. Ma non basta: alla fine di tutte le sue considerazioni sul cosmo, sui corpi celesti, sulla Terra e su tutti i fenomeni che la concernono, si preoccupa diligentemente di definire le uniche due certezze possibili in omaggio alla suprema verità divina (IV, 205-206): Nondimeno, affinché io non faccia torto alla verità, [supponendola meno certa di quanto non sia, distinguerò qui due sorte di certezze]. La prima è detta morale, ossia sufficiente […] [6] L’altra sorta di certezza è quando pensiamo che non è in alcun modo possibile che la cosa sia diversa da come noi la giudichiamo. Ed essa è fondata su un principio di metafisica [sicurissimo, e cioè che], essendo Dio sovranamente buono e fonte di ogni verità, [poiché è lui che ci ha creati], è certo che la [potenza o] facoltà che ci ha dato per distinguere il vero dal falso, non c’inganna, quando ne facciamo buon uso ed essa ci mostra [evidentemente che] una cosa [è vera]. [7] Non possiamo che manifestare ammirazione per la razionalità con cui Descartes svolge la sua analisi metafisica, ma non possiamo non domandarci quale legittimità gnoseologica possano avere tesi cosmologiche e fisiche dipendenti da un a priori fideistico che “pilota” qualsiasi altra indagine sugli “effetti” della Creazione. Soffermiamoci ora brevemente su Spinoza, del cui pensiero tratteremo ampiamente in seguito, per riportare qui una sua affermazione fondamentale, che si pone sullo stesso piano di quelle citate di Descartes, e che troviamo proprio nelle prime righe dell’Ethica (Definizione VI) che recitano: Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’eterna ed infinita essenza. [8] Cui segue (Assioma IV) un’affermazione che ricorda il punto [16] della Terza meditazione di Descartes: La conoscenza dell’effetto dipende dalla conoscenza dalla causa e la implica. [9] Troviamo un’interessante conseguenza di tale assioma laddove Spinoza, nel Tractatus theologico-politicus, a proposito della legge divina (IV), afferma: […] per Legge Divina, invece, intendo quella Legge che mira soltanto al sommo bene, cioè alla vera conoscenza e all’amore di Dio. [10] L’identità tra l’obbiettivo del “sommo bene” che è nel contempo conoscenza “vera”, viene assiomatizzata nella conseguente identità tra l’elemento gnoseologico e quello etico, che vengono perfettamente a coincidere in un principio teologico che è quello che sta alla base di tutta la speculazione dell’Ethica. Il Nostro precisa poco dopo: Anzi, siccome ogni nostra conoscenza e la certezza che toglie ogni dubbio, dipendono dalla sola conoscenza di Dio, sia perché senza di Dio niente è e niente si può concepire, sia perché possiamo dubitare di ogni cosa finché non abbiamo di Dio alcuna idea chiara e distinta, segue che il sommo nostro bene e la massima perfezione nostra dipendono soltanto dalla conoscenza di Dio. [11] Dunque, la conoscenza chiara e distinta di Dio (cioè la sua “idea” chiara e distinta) è la base di ogni altra conoscenza. E ciò perché senza Dio (ovvero senza l’idea di Lui) niente “può essere”. Ciò significa che solo a partire dall’idea di Dio il mondo “è”, e diventa possibile conoscerlo. E si può conoscere il mondo (e teorizzare su di esso) soltanto se prima si pone l’identità amore/conoscenza di Dio come premessa ad ogni altro amore e ad ogni altra conoscenza. Da cui: Stabilito, intanto, che l’amore di Dio è la massima felicità dell’uomo, la beatitudine e il fine ultimo e lo scopo di tutte le azioni umane, segue necessariamente che colui solo segue la legge divina, il quale procura di amare Dio, non per paura dei supplizi, né per amore di beni caduchi, come i piaceri e la fama, ma per questo solo che lo conosce; cioè, perché sa che il sommo bene consiste nella conoscenza e nell’amore verso Dio. [12] Chiudiamo questo nostro breve excursus sulla metafisica del ‘600 con Gottfried Leibniz (che però opera già in parte nel ‘700) e lo faremo prendendo in considerazione due tra le sue opere più importanti: il Discorso di metafisica del 1686 e la Monadologia pubblicata nel 1714. Il Discorso di metafisica si apre così: [1] La nozione di Dio più diffusa e più significativa che abbiamo si riflette abbastanza bene in questi termini: Dio è un essere assolutamente perfetto. [13] Se si sperasse di trovare più oltre un chiarimento di questa affermazione si rimarrebbe irrimediabilmente delusi. Tra Dio e la sua assoluta perfezione non v’è alcuna mediazione, l’uno identificandosi aprioristicamente con l’altra. Dio non può essere che assolutamente perfetto e l’assoluta perfezione non può essere che in Dio. L’dea della possibilità di un’Assoluta Perfezione si invera nell’idea di Lui e la sua esistenza si desume dalla certezza che esista un’Assoluta Perfezione che Egli incarna. Il Nostro prosegue: Ma di ciò non si considerano abbastanza le conseguenze; e, per entrare in maggiori particolari, è opportuno osservare che nella natura vi sono molte perfezioni, tutte differenti; che Dio le possiede tutte insieme, e che ciascuna gli appartiene nel grado più alto. [14] Dunque, la natura presenta delle perfezioni (ma non si capisce rispetto a che cosa e con quale metro le si valuti) e Dio le possiede tutte quale perfezione-delle-perfezioni. La logica dell’asserzione leibniziana si spiega così: Occorre conoscere che cos’è la perfezione; ed eccone un carattere abbastanza sicuro: le forme, o nature, non suscettibili di un grado estremo non sono perfezioni. [15] Rimane da capire perché una non-perfezione “non” possa essere suscettibile di un “grado estremo” di imperfezione. Ma Leibniz ricorre al numero e alla figura: Ne dà un esempio la natura del numero o della figura: perché il numero più grande di tutti (o il numero di tutti i numeri), così come la massima di tutte le figure, sono nozioni contraddittorie; invece la massima scienza e l’onnipotenza non implicano alcuna impossibilità. [16] All’invidiabile sicurezza leibniziana sarebbe solo il caso di osservare che il numero e la figura sono enti, in qualche misura, “della realtà”, mentre l’onniscienza e l’onnipotenza sono puri frutti “del pensiero” iperbolico. Appaiare ontologicamente “cose” che si possono enunciare, formulare, disegnare e lavorarci su, ed “idee” non immediatamente traducibili in progetti e cose (e neppure in numeri e figure) sia piuttosto improprio. Ma proseguiamo: Pertanto scienza e potenza sono perfezioni e, in quanto appartenenti a Dio, non hanno limiti. Ne segue che Dio, possedendo la saggezza suprema e infinita, agisce nel modo più perfetto, non solo in senso metafisico ma anche morale. Rispetto a noi si può dire che, quanto più saremo illuminati e informati nelle opere divine, tanto meglio saremo disposti a trovarle eccellenti e interamente conformi a tutto ciò che si può desiderare. [17] Posto dunque che scienza e potenza sono ”perfezioni” e Dio è infinito, esse, in Dio, devono esser infinite, e perciò la sua saggezza è suprema e infinita (straordinaria tautologizzazione di una “verità” suprema!) Ma non basta: siccome Dio oltre che onnisciente e onnipotente è anche “infinitamente buono”, dal piano metafisico si passa immediatamente a quello morale, ed allora conoscere Dio vuol dire conoscere, insieme alla sua perfezione in termini di scienza e potenza, anche la sua infinita bontà. Ne deriva che l‘uomo con ciò raggiunge “tutto ciò che può desiderare”: ovvero Dio stesso. D’altra parte Leibniz ci dice poco più avanti: [4] La conoscenza generale di questa grande verità, che Dio agisce sempre nel modo più perfetto e più augurabile possibile, è, secondo me, il fondamento dell’amore che dobbiamo a Dio al di sopra di tutto. [18] Dunque, il riconoscimento della “grande verità” non solo è fondamento di ogni altra conoscenza, ma porta direttamente all’amor dei e con esso a quell’ottimismo metafisico che non conosce defezioni. A questo punto l’omeostasi [19] psichica non è soltanto conseguita, ma alimentata e mantenuta al massimo livello, nella convinzione che la perfezione di Dio non possa che condurre al meglio possibile per noi. Nella più tarda Monadologia i concetti diventano più schematici e quasi aforistici, essendo l’opera una sorta di compendio della teologia leibniziana reso in 90 brevi proposizioni. Di queste ci limiteremo a citare la n° 29, che recita: [29] Ma la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è quella che ci distingue dai semplici animali e ci rende capaci di ragione e di scienza, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. In ciò consiste quel che in noi si chiama anima ragionevole o spirito. [20] Dunque la capacità di conoscere, in generale, deriva e dipende dalla conoscenza di Dio quale verità necessaria ed eterna a cui può accedere quel tipo di monade particolare che è l’uomo. Ne segue: [38] Perciò la ragione e ultima delle cose deve essere riposta in una sostanza necessaria, nella quale i mutamenti particolari non si trovino, come in una fonte, se non in forma eminente, ed è ciò che noi chiamiamo Dio. [21] La stabilità è la condizione irrinunciabile della divinità, ed è grazie a ciò che Dio è causa prima ed ultima dell’essere, come già sosteneva Aristotele. In Kant la credenza in Dio è tanto solida quanto accuratamente evitata nelle sue analisi, e ciò soprattutto dalle Critiche in poi, essa però rimane sullo sfondo della sua speculazione come una presenza discreta, ma onnipresente. Nella prefazione alla Storia generale sulla naturale universale e teoria del cielo del 1775 però in modo esplicito egli afferma: Riconosco il valore delle prove tratte dalla bellezza e dall’ordine perfetto dell’universo per affermare che esiste un Creatore, la cui sapienza è infinita. [22] Per comprendere appieno l’importanza innovativa della teologia idealistica dobbiamo proprio partire da questo concetto di “sapienza infinita” del divino per coglierne le evoluzioni successive. Noi riteniamo che l’Idealismo abbia origine da tre motivazioni principali: a) eliminare il noumeno kantiano, o per lo meno toglierlo dalla sua indeterminazione risolvendolo teoricamente in un nuovo concetto, b) contrastare il materialismo illuministico e sottrarre al riduzionismo psicologistico la sfera del religioso e dello spirituale, c) offrire uno sbocco razionalistico all’irrazionalismo romantico attraverso una teoria del divino onnicomprensiva di ogni aspetto del reale. Non è qui possibile scendere nei dettagli poiché esulerebbe dai nostri scopi, ma vale la pena di ricordare che il nuovo Dio degli idealisti nasce dall’esigenza intellettuale di “panteizzare” la realtà, sulle orme del pensiero neoplatonico e spinoziano. Si ricorderà che Spinoza non negava affatto il Dio della Bibbia, ma ne forniva semplicemente un’interpretazione meno legata alla lettera del Libro e più estensiva nei suoi significati. Aggiungeremo soltanto che il Dio degli idealisti prende il nome di “Io Assoluto” in Fichte, di “Assoluto” in Schelling e ancora di “Assoluto”, ma anche di “Spirito”, di “Idea” e di “Autocoscienza” in Hegel. Questa multiformità del concetto di Dio in Hegel deriva direttamente dal suo “includere” nella fenomenologia di Dio la molteplicità delle sue varie espressioni concepibili. L’aspetto gnoseologico che è importante cogliere è che, comunque, per i teologi filosofali dell’800, come abbiamo visto per quelli del ‘600 e per Kant, Dio costituisce sempre quell’a priori dal quale deriva ogni altra conoscenza. Ce lo dice chiaramente Fichte con la seguente affermazione: Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato, di tutto l’umano sapere. Dovendo esser un principio assolutamente primo, esso non si può dimostrare né determinare. [23] Come è noto egli dà a questo “principio primo” dell’esser e del sapere il nome di Io Puro o Assoluto, che si esprime ponendosi come “pensiero” e come “atto” ed affermandosi nei termini seguenti: Io sono assolutamente, cioè: io sono assolutamente perché sono; sono assolutamente ciò che sono; e l’una e l’altra cosa per l’Io. Pensando la descrizione di quest’atto al vertice della dottrina della scienza, essa dovrebbe esser espressa press’a poco nel modo seguente: l’Io originariamente pone assolutamente il suo proprio essere. [24] Non molto diversamente si esprimerà Schelling qualche anno dopo: L’assoluto, ossia Dio, è ciò di cui si può dire che l’essere, ossia la realtà, segue immediatamente, cioè in forza della mera legge dell’identità, dall’Idea; o anche: Dio è l’immediata affermazione di se stesso. [25] Veniamo ora a Hegel, il pensatore che più di ogni altro ha influenzato il pensiero successivo e che ancora oggi costituisce un punto di riferimento per molta metafisica idealistica. Ci limiteremo a poche citazioni significative di una teologia assai originale, che radicalizza un elemento innovativo importante: quello di concepire la divinità come un “processo” in divenire di chiara derivazione neoplatonica. Il Dio di Hegel, che si presenta in varie forme (Idea-Assoluto-Spirito-Autocoscienza-Ragione) non è solo “origine” dell’essere, ma anche “conclusione” di un compimento metafisico teleologico e ottimistico, assumendo così un carattere “storico” assente sia nel Neoplatonismo, sia in Bruno e sia in Spinoza. Ne nasce un panteismo provvidenzialistico dove l’essere e la ragione diventano la stessa cosa. Sotto il profilo gnoseologico, per Hegel, col superamento delle “figure” imperfette dello spirito, l’uomo deve semplicemente sintonizzare la propria ragione con la Ragione globale per diventare tutt’uno con essa; capendo così il senso di un’unità-totalità storica che è la stessa realtà che si forma attraverso la dialettica di un divenire tumultuoso e spesso drammatico. Ma essa, alla fine, non può essere che quella che “deve” essere, in omaggio a un necessitarismo assoluto che pilota lo Spirito e la sua storia. La Fenomenologia dello spirito (VI) si apre con questa affermazione: La ragione è spirito, dacché la certezza di essere ogni realtà è elevata a verità, ed essa è consapevole a se stessa di sé come del suo mondo, e del mondo come di se stessa. [26] Il mondo come manifestazione della ragione-spirito si eleva per ciò stesso a indefettibile verità, e da tale verità discendono tutte le altre. La “verità” per la teologia filosofale hegeliana è un farsi logico-dialettico che prescinde dal reale per sussumerlo nell’ideale. Il mondo è un’estrinsecarsi fenomenico della verità, ma essa riposa in un “sapere” che da esso prescinde. Così Hegel può alla fine affermare: Quest’ultima figura dello spirito [quella dell’autocoscienza], lo spirito che al suo perfetto e vero contenuto dà in pari tempo la forma del Sé e che per questa via, tanto realizza il suo concetto, quanto resta, in questa realizzazione, nel suo concetto, è il sapere assoluto; il sapere assoluto è lo spirito che si sa in figura spirituale, ovvero è il sapere concettivo. [27] Non la volgare conoscenza del reale, quella che perseguivano in qualche modo ingenuamente gli Illuministi, è conoscenza, bensì (ed in forma “assoluta”) il sapere concettivo che accede allo spirito, il quale è nel contempo verità che si offre alla ragione umana e che si manifesta nel mondo senza esaurirsi in esso. Ma il sapere si realizza in una circolarità dell’essere per cui “sapere” è nel contempo “esperire” (escludendo però sia i sensi e sia l’esperimento dal sapere stesso), sicché il Nostro aggiunge poco dopo: Per questa ragione devesi dire che niente vien saputo, che non sia nell’esperienza o, come anche si esprime la medesima cosa, che non sia dato come verità sentita, come l’Eterno interiormente rivelato, come il Sacro a cui si crede o come altrimenti si voglia dire. Infatti l’esperienza è proprio questo: che in sé il contenuto, - ed esso è lo spirito, - è sostanza e quindi oggetto della coscienza. [28] E poi un ulteriore spiegazione: Ma questa sostanza che è lo spirito ne è il divenire fino a farsi ciò ch’esso è in sé; e solo come questo divenire riflettentesi in se stesso esso in sé è in verità lo spirito. Esso è in sé il movimento che è il conoscere, - la transustanziazione di quell’in-sé nel per-sé della sostanza nel soggetto, dell’oggetto della coscienza in oggetto dell’autocoscienza, cioè in oggetto altrettanto tolto o nel concetto. Quel movimento è il circolo ritornante in se stesso che presuppone il suo cominciamento e lo raggiunge soltanto alla fine. [29] “Tolto” l’oggetto reale di conoscenza e transustanziato nel concetto la verità del divenire è ormai alla portata della coscienza individuale (l’uomo) che viene a identificarsi con l’autocoscienza infinita dello spirito (Dio) e il processo circolare del sapere può dirsi chiuso identificandosi col processo circolare dell’essere. A questo punto il “sapere assoluto” è conseguito, ed ogni ulteriore ricerca volta ad inseguire il sapere fenomenico è superflua. Il sapiente hegeliano “sa già tutto” ciò che è importante sapere e il “credo” idealista è qui formulato con chiarezza e compiutezza. E tuttavia, dieci anni più tardi Hegel (nel 1717), si preoccupa di precisare ulteriormente la sua teologia nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, dove la dinamicità dialettica dello Spirito si irrigidisce in categorie schematiche. Mentre nella Fenomenologia lo Spirito si realizza attraverso “figure” storicizzate, queste, nell’Enciclopedia, diventano categorie concettuali. In questo contesto una particolare importanza assume l’Idea, come nuova incarnazione dell’Assoluto (I, C, § 213): [213] L’idea è il vero in sé e per sé, l’unità assoluta del concetto e dell’oggettività. […] La definizione dell’assoluto, che l’assoluto è l’idea, è essa stessa assoluta. Tutte le definizioni, sin qui date, si riportano a questa. – L’idea è la verità; perché la verità è il rispondere dell’oggettività al concetto. [30] Di assolutizzazione in assolutizzazione l’Idea diventa Verità e attraverso la verità così acquisita l’oggettività concreta del mondo scompare, dandosi tutta nel concetto astratto così posto come assoluta “verità della sostanza” (§ 158 e ss.). Poiché: [214] L’idea può essere concepita come la ragione (questo è il proprio significato filosofico di ragione); inoltre, come il soggetto-oggetto, come l’unità dell’ideale e del reale, del finito e dell’infinito, dell’anima e del corpo; come la possibilità che ha in se stessa la sua realtà; [31] Tutto è nello Spirito-Assoluto-Idea-Ragione ed ogni singola determinazione si perde dialetticamente in questo “Tutto” che è idea e cosa, finitezza e infinitezza, anima e corpo, possibilità e realtà. La natura (il cosmo materiale) è “platonicamente” l’alterità dell’Idea (il suo alienarsi) che si nega per andare “fuori di sé”, così come il Bene di Platone si estrinseca nelle cose del mondo e l’Uno di Plotino emana i livelli inferiori del suo essere. Perciò, secondo Hegel: [247] La natura si è dimostrata come l’idea nella forma dell’essere altro. [32] Una mera “forma” dell’idea divina è la complessità del cosmo. Infatti: La natura, considerata in sé, nell’idea, è divina; ma nel modo in cui essa è, l’esser suo non risponde al suo concetto: essa è, anzi, la contraddizione insoluta. Il suo carattere proprio è questo di essere posta, di esser negazione; [33] Si noti che la natura “è posta” dalla divinità come propria negazione e non si “autopone” come estrinsecazione dialettica della divinità stessa. Hegel riprende qui (di passaggio) la gerarchizzazione causale di tutte le altre teologie, assumendo che sia questo Dio-Necessità a negare se stesso nell’altro da sé, ma per costringerlo (attraverso la cogenza della necessità) a ritornare “provvidenzialisticamente” nel suo in sé e per sé. I tre stadi di questa divina circolarità dialettica e la realizzazione dello Spirito Assoluto così si estrinsecano: [385] Lo svolgimento dello spirito importa, che esso: I. è nella forma della relazione con sé stesso: dentro di esso la totalità ideale dell’Idea diviene a lui, vale a dire ciò che è suo concetto, diventa per lui, e il suo essere sta appunto nell’essere in possesso di sé, cioè nell’esser libero. Tale è lo spirito soggettivo. II. È nella forma della realtà, come di un mondo da produrre e prodotto da esso, nel quale la libertà sta come necessità esistente. Tale è lo spirito oggettivo. III. è nell’unità dell’oggettività dello spirito e della sua idealità o del suo concetto: unità, che è in sé e per sé, ed eternamente si produce: lo spirito nella sua verità assoluta. Tale è lo spirito assoluto. [34] Ci asteniamo da ogni commento, per lasciare la testualità di questo passaggio hegeliano nella sua straordinaria e affascinante forza espressiva, quale esempio significativo del climax farneticante a cui può giungere la teologia filosofale. Note [1] René Descartes, Meditazioni metafisiche, Firenze, La Nuova Italia 1987, p.50. [2] Ivi, p.51. [3] Ibidem. [4] René Descartes, I princìpi della filosofia, Torino, Bollati Boringhieri 1992, p.80. [5] Ivi, p.81. [6] Ivi, pp.458-459. Le parole tra parentesi quadre (nel libro Bollati-B. tra parentesi angolari) sono quelle relative alle aggiunte del 1647 all’edizione francese [7] Ivi, p.460 [8] Baruch Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 2004, p.87. [9] Ivi, p.88. [10] Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, Firenze, La Nuova Italia 1985, p.78. [11] Ibidem. [12] Ivi, p.79. [13] Gottfried W. Leibniz, Monadologia e Discorso di metafisica, Roma-Bari, Laterza 1986, p.59. [14] Ibidem. [15] Ibidem. [16] Ibidem. [17] Ivi, pp.59-60. [18] Ivi, pp.62-63 [19] In Necessità e libertà (op.cit., pp.86-87) abbiamo proposto di vedere l’omeostasi come un’esisgenza psichica conseguibile al meglio attraverso la credenza in Dio quale ordinatore e ottimizzatore del cosmo. [20] G. W. Leibniz, op.cit., p.40. [21] Ivi, p.42. [22] Immanuel Kant, Storia generale sulla naturale universale e teoria del cielo, Roma, O.Barjes 1956, p.XXIV. [23] Johann G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, Roma-Bari, Laterza 1971, p.73. [24] Ivi, p.78. [25] Friedrich W.J.Schelling, Filosofia dell’arte (SW III, p.393), citato in: Luigi Pareyson, Schelling, Torino, Marietti 1975, p.261. [26] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Firenze, La Nuova Italia 1985, vol.II, p.1. [27] Ivi, p.296. [28] Ivi, p.298. [29] Ivi, pp.298-299. [30] Georg W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Roma-Bari, Laterza 1984, p.198. [31] Ivi, p.199 [32] Ivi, p.221. [33] Ibidem. [34] Ivi, p.375-376. |