L'ETA' DELL'ORO

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L'ETA' DELL'ORO

Pier Paolo Vaccari

Venere di Willendorf (Austria)

I

L’età dell’oro è un concetto mitico che richiama una situazione ricca di ogni bene. Più puntualmente il riferimento all’oro evoca una qualità preziosa per la sua bellezza e rarità, ma  anche e soprattutto per la sua stabilità e inalterabilità. E’ la stabilità la qualità più importante dell’età dell’oro.

Ora, se pensiamo a una qualsiasi specie animale stabilmente adattata al proprio ambiente, è così difficile associarvi il concetto di felicità?

Certo la felicità rappresenta per noi qualcosa di tanto intenso quanto raro e fugace, qualcosa di così ambito che siamo indotti a considerarlo un obbiettivo privilegiato ed esclusivo della nostra specie. Ma basta poco, credo, a persuaderci del contrario, se con spirito umile ci soffermiamo a osservare la natura.

E allora, se è così, perché non supporre che anche l’uomo, prima della storia, si sia trovato in una condizione analoga? In effetti il tempo che l’uomo ha passato su questa terra è infinitamente più lungo del tempo storico.

Ma per noi quello è un passato oscuro. Siamo abituati ad associare la nostra esistenza a un quadro di riferimento dinamico nel quale poter riconoscere linee di sviluppo, quando non addirittura di progresso; sicché la vita dell’uomo prima che tale sviluppo iniziasse a manifestarsi ci sembra doverla considerare con uno smisurato senso di superiorità, distacco e indifferenza, per non dire fastidio e disprezzo, come non si trattasse di noi stessi. Per centinaia di migliaia d’anni quell’animale infelice avrebbe menato la sua grama esistenza, vagabondando ora qua, ora là, preda di ogni male, vittima di ogni avversità, incapace di dare un senso alla propria vita, inetto al punto di domandarsi per quale miracolo non si sia estinto. Infine reagiamo istintivamente relegandolo in una animalità totale, sola ipotesi di giustificazione al suo esistere senza storia.

Ma se anche un uccellino ci trasmette col canto la sua gioia, e perfino una formica nel portare baldanzosamente il suo chicco sembra soddisfatta, perché mai l’uomo preistorico non avrebbe potuto  conoscere anch’egli la felicità? Anzi vivere addirittura quella che gli antichi confusamente ricordavano essere stata l’età dell’oro? Un’età senza tempo, perché è appunto il tempo che reca l’infelicità.

Dice Esiodo che gli uomini allora morivano senza traumi, come addormentandosi; e, in verità, avete mai visto gli animali fare un dramma della morte?

Tuttavia l’uomo ci si rivela compiutamente uomo anche prima della storia, allorché osserviamo i reperti e le figurazioni rupestri riferibili a contesti preistorici, nell’età senza tempo.

Il fuoco di Prometeo simboleggia con precisione il cambiamento: il fuoco che brucia, distrugge, trasforma, e introduce la freccia irreversibile del tempo.

Il cambiamento, cioè l’inizio del tempo storico, si configura allora come un evento ben localizzato e recente, una vera e propria “biforcazione catastrofica”, come i fisici chiamano eventi di questo tipo, senza peraltro alcuna connotazione negativa.

Ma da dove abbia preso inizio, e da quali eventi sia stato preparato, non è dato sapere. Forse ci trattiene dal troppo indagare una sorta di pudore o di ritegno, mascherato da disinteresse.

Da parte nostra, per quel che concerne gli effetti, ci sembra dover mettere in evidenza come l’inizio della storia sia stato caratterizzato dall’emergere e consolidarsi di una sorta di strutturazione dell’aggressività, a cui si è dato col tempo il nome di logica.

Ebbe così inizio una drammatica lotta per il controllo e il dominio dell’ambiente, trasformatasi presto in competizione e conflitto interno alla specie, secondo modalità assolutamente uniche nella storia della vita sulla terra.

In un certo senso si potrebbe parlare della nascita di una nuova specie “storica”, con caratteristiche diverse dalla precedente, non dal punto di vista biologico, ma per aver introitato e assorbito il concetto di storia, in quanto sommatoria di azioni dirette a un fine, facendone un elemento esistenziale decisivo.

Il che potrebbe anche dare ragione dell’abnorme sviluppo cerebrale, finalizzato appunto alla lotta e al dominio dell’ambiente.

L’instabilità eletta a sistema tuttavia non ha per questo cessato di rimanere minacciosa e gravida di incognite. E l’età dell’oro di reiterare il suo fascino lontano.

II

I geni sono felici? Non certo più degli altri uomini. L’ammirazione e l’invidia che proviamo nei loro confronti nascono piuttosto da una proiezione mentale di noi stessi nei risultati da quelli ottenuti; ma difficilmente accetteremmo di cancellare noi stessi per assumere quei panni.

In una realtà competitiva, tutto ciò che attiene al “potere” si è indotti a considerarlo funzionale alla felicità. E le persone geniali, quando non “incomprese”, oppure semplicemente sfortunate, riescono a far convergere su di sé più o meno consistenti risorse, esercitando quindi un potere reale, intrinsecamente gratificante.

Ma l’equazione potere-felicità appare fragile, come ripetuto ad abundantiam dai moralisti di ogni tempo. Essa riflette un disagio profondo, riconducibile a una percezione di instabilità e precarietà esistenziale, in riferimento alla quale il concetto di potere può sembrare il più idoneo a garantire maggiori possibilità di controllo degli eventi e in definitiva di difesa della propria stabilità minacciata.

E così è, ma in un’ottica molto ristretta, perché la filosofia del potere rimane in definitiva la causa principale della instabilità.

Il discorso ci induce qui a soffermarci su quella particolare dimensione umana, del tutto aliena alla filosofia del potere, che è il mondo dell’infanzia.

Perché amiamo i bambini? La domanda può apparire banale, ma è un fatto che i bambini non possiedono alcuna di quelle facoltà che tanto apprezziamo e consideriamo nell’uomo. Le loro effettive prospettive di successo nella vita sono al massimo una speranza.

Non li amiamo per questo, ma per il loro specifico essere bambini, cioè per quelle straordinarie qualità nelle quali si esprime il loro essere, e che sono contagiose di felicità; non certo per quel che potranno divenire o fare da grandi.

La loro dimensione è a se stante; essa conserva il fascino delle origini e rappresenta un bene prezioso, a cui l’umanità tiene giustamente più che a ogni altra cosa.

Lo stesso mito del bambin Gesù si inserisce storicamente in tale categoria di sentimenti e rappresenta qualcosa di ben distinto, affettivamente e concettualmente, dalla figura del messia.

Ma i bambini sono anche stati e sono, durante tutta la storia umana e ancora oggi, oggetto di angherie terribili, di soprusi piccoli e grandi; a testimonianza ulteriore del drammatico distacco dell’uomo storico dalle proprie origini.

Si direbbe che l’uomo è attratto dalla possibilità di umiliare in essi la propria innocenza perduta. Dove innocenza non sta per assenza di colpe, ma per quell’insieme di qualità che prescindono completamente dalle conoscenze, capacità, istituzioni o quant’altro, proprie degli adulti; come se proprio in queste si dovesse configurare una sorta di peccato.

Innocenza cioè come estraneità a quelle condizioni che in altri contesti vengono considerate vanto dell’umanità. Nessuna contraddizione nel prostrarci da un lato a tali conquiste, e, dall’altro, nel cercare di tutelare per quanto riusciamo, e che per la verità non è molto, la cosiddetta innocenza?

Sia benedetta comunque quest’intenzione, che ci fa riconoscere i legami persistenti dell’uomo con il proprio passato, e la possibilità di attingere nuova linfa quando occorre e quando gli esiti dei cammini intrapresi si rivelino incerti, infruttuosi, oscuri o minacciosi. Riconoscere cioè nei bambini non già un vuoto da riempire, la cosiddetta “tabula rasa”, bensì un mondo di per sé ricchissimo e colmo di sensazioni e percezioni, dal quale poter attingere.

Non sembrano per la verità caratterizzarsi in tal senso i processi educativi, allorché si dedicano a selezionare e far emergere solo ciò che può essere funzionale alla interazione con il mondo degli adulti, resettando tutto il resto. Sì che l’incremento delle conoscenze avviene in contesti progressivamente circoscritti, lasciando fuori dalla porta qualcosa di cui verosimilmente ci siamo dimenticati, ma che non può non essere considerato “a monte” di ogni conoscenza.

III

Pare di intravedere oggi una sorta di “ripiegamento” nel cammino dell’umanità, uno sguardo cioè che tende insistentemente a rivolgersi indietro, come a voler recuperare qualcosa di vitale lasciato per strada, quanto più la realtà sembra trascinare in avanti. Un recupero peraltro velleitario e formale, né potrebbe essere altrimenti.

Obiettivamente la Terra ha poco più da rivelare; finché era territorio di conquista il problema non si poneva, ma una volta che è divenuta piccola e senza sbocchi, la solitudine dell’uomo minaccia di assumere contorni sempre più netti e inquietanti. A meno che, dopo l’era del “progresso”, non si affacci una specie di era del “regresso”, che allontani i confini della Terra, e dia nuovo senso alla vita.

Il grande lavoro svolto da Emanuel Anati nel corso di una vita sulle figurazioni rupestri della preistoria, sembra conferire alle precedenti considerazioni un quadro di riferimento, oltre che autorevole, sorprendentemente adeguato e preciso.

Le sue conclusioni risultano tanto semplici e chiare, quanto dirompenti e ardue da assorbire e metabolizzare. Difficilmente io credo esse potranno arrivare a produrre effetti nella coscienza collettiva, almeno a breve termine.

Cosa ha scoperto? Ha scoperto anzitutto che l’homo sapiens sapiens era sapiente davvero. Le figurazioni rupestri, milioni di immagini ancor oggi conservatesi, tutto erano fuorché espressioni di ingenuo figurativismo pittorico: nessun intento artistico, o decorativo, bensì un insieme di contenuti simbolici e sapienziali.

Quella che emerge è una fondamentale necessità di comunicazione rituale. E’ peraltro evidente che essa non poteva esprimersi che attraverso l’evocazione dei dati salienti del mondo circostante; fornendo così la più eclatante manifestazione di quell’energia di comunicazione che permea e caratterizza ogni ambiente vissuto dall’uomo.

Il secondo punto, non meno importante del primo, sta nella scoperta della permanenza, immutabilità e ripetitività di tale “dottrina” rupestre, durante un arco di tempo di almeno 50 000 anni! Una sapienza senza tempo, fuori dalla nostra storia; ma nello stesso tempo storia in sé, nella sua effettiva realtà e vitalità.

Cosa fare se non ristare in silenzio di fronte a un così sconvolgente scenario? Abituati a considerare la preistoria con sufficienza, come qualcosa di propedeutico alla nascita della storia vera, ci troviamo di fronte a un quadro nel quale proprio la nostra brevissima storia rischia di fare la figura d’un fuoco d’artificio finale. Mentre un mondo remoto, che i successivi passaggi della filosofia e della storia hanno provveduto a cancellare nel tempo, forse ricomincia oggi a parlare sommessamente al cuore dell’uomo.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018