IL PARADIGMA DELLA COMPLESSITA'

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IL PARADIGMA DELLA COMPLESSITA'

Si comincia a parlare di "scienza della complessità" o di "teoria dei sistemi complessi" nella seconda metà dell'Ottocento, grazie alla teoria del calore della nuova disciplina fisica chiamata "termodinamica".

Già si sapeva infatti che la combustione produce calore e il calore produce un effetto meccanico, un movimento. Si era convinti cioè che l'energia si conserva intatta, attraverso le sue varie trasformazioni, secondo il primo principio della termodinamica: "nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma". Joule, Helmholtz e Mayer erano assolutamente convinti che nell'universo non vi fossero perturbazioni né dissipazioni di energia.

Nel 1851 il fisico inglese William Thomson s'accorge invece che per compiere un determinato lavoro meccanico (tipico p. es. di una macchina a vapore), viene sfruttata solo una parte del calore prodotto dalla fonte energetica, mentre un'altra parte (in seguito all'attrito e ad altre forze che entrano in gioco nel sistema termico) viene irrimediabilmente perduta (dissipata), senza possibilità di reintegrarla, a meno che non si voglia dissipare una quantità di energia maggiore di quella che si vuole reintegrare. In altre parole è impossibile realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%.

Thomson arrivò a ipotizzare che la stessa cosa probabilmente avveniva nell'universo, dove, pur in presenza di una continua trasformazione dell'energia, una parte di essa degrada in calore non utilizzato, senza poter essere reintegrato. Il rischio quindi è quello che alla fine si resti senza energia.

Era nato così il secondo principio della termodinamica, secondo cui "l'entropia di un sistema isolato lontano dall'equilibrio termico tende a salire nel tempo, finché l'equilibrio non è raggiunto". Questo faceva uscire la scienza dall'ordine e dalla stabilità.

Il fisico matematico tedesco Rudolph J. Clausius definì, nel 1864, col termine di "entropia" questa irreversibile tendenza alla degradazione dell'energia, nel senso che quanto maggiore è l'entropia, tanto più si è prossimi a una morte termica, cioè a un grande disordine nella trasformazione da un sistema fisico a un altro.

Questo tempo irreversibile caratterizza - secondo lui - anche tutte le dinamiche dell'universo, aumentando progressivamente l'entropia. Veniva così smentita la concezione della reversibilità del tempo fisico, propria della meccanica classica, secondo cui dalle condizioni finali di un processo fisico è sempre possibile ripristinare le condizioni iniziali: cosa che, in definitiva, permetteva di prevedere, almeno teoricamente, l'evoluzione dei fenomeni.

Anche L. E. Boltzmann, nel 1877, riuscì a scoprire un carattere fondamentalmente disordinato nei movimenti molecolari interni a un sistema termico. Ogni volta che aumenta il calore - aveva rilevato - il movimento delle molecole è sempre più caotico e inevitabilmente si verificano perdite alla capacità di lavoro.

Insomma ci si cominciava a chiedere come potesse l'universo, così apparentemente ordinato, tendere alla propria disorganizzazione.

Intanto però bisognava trovare una conferma scientifica del secondo principio della termodinamica in campo astronomico, ed essa venne solo a partire dagli anni '30 del Novecento. L'astronomo E. Hubble mise in evidenza, dall'analisi dello spettro luminoso delle radiazioni emesse nel cosmo, lo spostamento verso il rosso della luce delle lontane galassie, quindi ne ricavò l'ipotesi di un progressivo allontanamento le une dalle altre (deriva spaziale). L'idea di un universo in espansione sembrava mandare in frantumi quella di una quiete immutabile a livello cosmico.

Successivamente i radioastronomi Jansky, Penzias e Wilson captarono una fonte di energia proveniente da un punto qualunque dello spazio, distribuita uniformemente alla temperatura di circa 4° Kelvin. Ci volle poi poco a capire che quelle onde radio non erano che l'eco di un'esplosione primordiale che, calcolata matematicamente, poteva risalire a circa 13 miliardi di anni fa.

Quindi l'universo a noi visibile non era altro che una dispersione infinita di energia, causata da una grande esplosione termonucleare (big bang).

Chi diede una nuova interpretazione dell'entropia fu il chimico belga di origine russa I. Prigogine, morto nel 2003. Studiando i vortici di Bénard, egli arrivò a constatare che a una dissipazione irreversibile di energia si accompagna un'auto-organizzazione che non obbedisce più alle regole dell'ambiente circostante. Cioè quando un sistema supera una soglia critica di complessità, appare una struttura che lo riorganizza autonomamente, secondo nuove proprietà, diverse dalle precedenti, e sono proprietà esistenti nel sistema globalmente considerato. Quindi la rottura dell'equilibrio non va vista con particolare preoccupazione. La natura resta imprevedibile e la materia è capace di nuove creazioni.

Ordine e caos sembrano dunque coesistere in natura da sempre. Quando un sistema raggiunge una soglia critica, vengono a formarsi un ventaglio di nuovi possibili equilibri, finché ad un certo punto ne prevale uno, che riporta tutto all'ordine.

Anche il matematico francese R. Thom, morto nel 2002, vede positivamente le "catastrofi", in quanto non sono altro che trasformazioni attraverso discontinuità di forme.

L'uomo però è costretto a ripensare totalmente il suo rapporto con la natura: non ha più senso continuare a dominarla. I processi naturali sono molto simili a quelli umani: avere un atteggiamento sbagliato nei confronti della natura comporta delle ritorsioni negative sullo stesso genere umano. La natura non è un qualcosa di statico o di inerte e passivo, ma, al contrario, è un elemento con cui dobbiamo interagire alla pari.

Insomma si stava cominciando a capire che è meglio cercare la complessità del reale sotto la semplicità apparente dei fenomeni, che non il semplice sotto la complessità dei fenomeni. Proprio perché l'organizzazione dei sistemi è il punto d'incontro/scontro tra ordine e disordine.

L'approccio olistico (globale integrato sistemico) è preferibile a quello riduzionistico (ridurre tutto alla semplicità minima, per poterla meglio analizzare) e deterministico (stabilire rigide connessioni di causa/effetto).

Un qualunque sistema è un complesso di interazioni tra parti differenti e non isolabili. Per capire le singole parti bisogna partire dal tutto, che è superiore alla loro somma. Ai vecchi criteri di ordine - simmetria - misurabilità - equilibrio - legge - certezza - prevedibilità, subentrano o si affiancano, a pari titolo, quelli di disordine - squilibrio - incommensurabilità - non linearità - incertezza - irreversibilità - imponderabilità. È chiaramente un mutamento di paradigma, che deve portare persino a superare la tradizionale contrapposizione tra scienze esatte e umanistiche. Uomo e natura devono diventare soggetti di una nuova alleanza.

Non a caso la reinterpretazione della natura in chiave ecosistemica e biosferica (che contiene gli ecosistemi) è diventata imprescindibile. Ciò in quanto la natura è una totalità vivente complessa, che si ha auto-organizza attraverso le interazioni di tutti gli esseri viventi: è assurdo pensare che l'artificiale debba imporsi sul naturale o che la natura sia soltanto un oggetto da sfruttare.

Anzi, oggi è addirittura impossibile pensare che i guasti procurati alla natura (deforestazione, desertificazione, inquinamento dei mari, dell'aria e del suolo, scioglimento dei ghiacciai, buco dell'ozono, ecc.) nel corso dei secoli da molteplici stati e nazioni, possano essere affrontati e risolti con semplici interventi su scala locale, senza una strategia internazionale.

La terra è un tutto integrato: le ferite procurate in un suo qualunque punto hanno ripercussioni, prima o poi, sull'intero organismo. Ecco perché, per rimediare ai guasti, bisogna pensare su scala globale, agendo su scala locale.

Fonti


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018