Il naturalismo milesio

ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
Religione, naturalismo e scienza. La nascita della filosofia atea


III. I prodromi dell’ateismo nel mondo greco
3.1 Il naturalismo milesio

Tutta la storia della filosofia greca è segnata da un dualismo di fondo, costituito da una tendenza naturalistica e da un’altra idealistica che le si contrappone. Tale dualismo troverà una qualche conciliazione in Aristotele, ma l’indirizzo idealistico (sulle orme del grande successo del platonismo) finirà per prevalere (104), mentre l’incipiente pensiero scientifico dell’epoca ellenistica ingloberà in gran parte quello naturalistico.

Tuttavia, la straordinaria stagione del naturalismo milesio rimarrà sullo sfondo, a testimonianza di un epoca irripetibile, che si caratterizza per una nuova visione del mondo e per il temporaneo allentamento dei vincoli mitico-religiosi nell’interpretazione della realtà, ancorché non si pervenga a un deciso abbandono del concetto di “divino” in senso trascendentalistico e sacrale. E tuttavia l’importanza della filosofia naturalistica milesia sta anche nell’aver creato un nuovo clima culturale nel quale diventava possibile una visione del mondo ateistica.

Talete ed Anassimandro, entrambi di Mileto, pongono un principio (arché) originario e materiale dell’universo. Tale principio è l’acqua per il primo e un più astratto “infinito-indefinito” (intermedio tra aria, fuoco ed acqua) per il secondo; con questa nuova teorizzazione materialistica delle origini del mondo viene messa da parte d’un sol colpo ogni entità divina quale causa, nonché origine, dell’essere del cosmo.

La straordinarietà di tale teorizzazione non sta tanto nei termini ingenui (specialmente nel caso di Talete) coi quali venne formulata, ma col fatto in se stesso, che fu per l’epoca decisamente rivoluzionario in riferimento a tutte le cosmogonie mitiche che lo precedono. Si trattava sicuramente di un materialismo che era nel contempo un ilozoismo, ma non dobbiamo perdere di vista il fatto che era impensabile per l’epoca concepire una base materiale dell’universo priva di una sua “anima” che la vivificasse; l’importante è che quest’anima sia ontologicamente omogenea col suo “corpo”, ovvero la “materia”, e non più tributaria di alcuna ipostasi immateriale e divina. Ma per capire come sia stata possibile la “trovata” di Talete (105) e Anassimandro bisogna inquadrare adeguatamente i singoli protagonisti, nonché il clima culturale della Mileto della fine del VII secolo a.C., che ha rappresentato la “culla” in cui essa ha potuto sorgere.

Come abbiamo già visto, lo storico Georges Minois ci fa rilevare come nel naturalismo religioso greco ci sia già un’interna propensione all’ateismo e come le dottrine dei filosofi ionici costituiscano un vero e proprio materialismo ante litteram (106). Da questa asserzione ci sembra di poter partire per una rapida analisi del pensiero naturalistico dei filosofi di Mileto, con una considerazione aggiuntiva; secondo noi, se pure Talete risulta cronologicamente il primo ad aver posto un elemento fisico a fondamento del cosmo, ma l’esiguo scarto di età tra lui e Anassimandro non ci consente di sostenere una netta successione storica Talete-Anassimandro quale evoluzione diacronica del naturalismo milesio; quindi ci pare più appropriato parlare di contemporaneità. Si tratta, in realtà, di due interpretazioni del mondo che si sviluppano nella stessa temperie in due direzioni simili, e delle quali è sicuramente quella anassimandrea a possedere maggiore ricchezza teorica e spessore filosofico.

Talete, assai più viaggiatore, geografo ed astronomo, che filosofo, contrariamente a quanto risulterebbe dal noto aneddoto riportato da Platone nel Teeteto (107), era tutt’altro che appartenente allo stereotipo del pensatore “con la testa tra le nuvole”, tanto è vero che fu uomo anche di interessi eminentemente pratici, essendosi occupato di politica e di affari e non senza qualche successo. Uomo pragmatico quindi, di vasti orizzonti culturali, che ha viaggiato a lungo nei paesi del Mediterraneo e che ha probabilmente tratto la sua famosa tesi reinterpretando cosmogonie mesopotamiche od egiziane, nate in contesti agricoli dove l’acqua è alla base dell’esistenza (108). Egli pensava che ciò che esiste si presenti in tre forme, vapore, acqua e terra (ovvero negli stati gassoso, liquido e solido) e che quest’ultima fosse soltanto una forma più concreta dell’acqua. Com’è noto, Talete venne più tardi considerato uno dei sette savi dell’antica Grecia e avrebbe acquistato grande fama e prestigio per aver previsto l’eclisse di sole del 585 a.C. Importantissimo fu anche il suo apporto nel campo della matematica e della geometria, e tuttavia, come abbiamo già rilevato, è assai probabile che le sue conoscenze derivassero da nozioni acquisite fuori del contesto greco e fossero state apprese durante i suoi viaggi in area mesopotamica ed egiziana.

La straordinarietà di Talete sta allora nel fatto di aver dato il via, sia pure in modo approssimativo, ad un nuovo approccio all’interpretazione del mondo, che è quello filosofico. E tuttavia possiamo rilevare come Talete si limiti ad aprire una porta che Anassimandro spalanca, nel senso che la riflessione filosofica di questi va molto oltre l’intuizione di Talete, risultando foriera di sviluppi più specificamente teorici. D’altra parte, Talete aveva probabilmente troppi impegni e interessi per sviluppare la sua intuizione. Dice di lui Diogene Laerzio (I, 22-44):

Prima si dedicò alla vita politica, poi alla contemplazione della natura e, secondo alcuni, non lasciò scritti. La Astrologia nautica che gli è attribuita si dice sia stata scritta da Foco di Samo. Callimaco lo conosce come scopritore dell’Orsa Minore […] Secondo altri scrisse due sole opere, Del solstizio e Dell’equinozio, ritenendo inintelleggibili tutti gli altri fenomeni. Altri ancora attestano che egli fu il primo coltivare l’astronomia ed a predire le eclissi del sole ed a fissare i solstizi d’inverno […] Primo pure scoprì il passaggio del sole da solstizio a solstizio e primo, secondo altri, mostrò che la grandezza del sole è la settecentoventesima parte <dell’orbita del sole e che la grandezza della luna> è la settecentoventesima parte dell’orbita lunare. Primo chiamò «trigesima» l’ultimo giorno del mese. Secondo altri fu il primo a trattare della natura (109).

Come si vede quelle del biografo-dossografo sono notizie che affondano quasi nel mito, ed il frequente “alcuni dicono” rivela le sue incertezze. Né molto più precisi sono i dati specificamente biografici, che però, se autentici, mettono in evidenza una certa sapida furbizia popolaresca del milesio:

Alcuni dicono che egli abbia avuto moglie ed un figlio, Cibisto; altri che sia rimasto celibe ed abbia adottato il figlio della sorella. Interrogato perché non procreasse, dicono che abbia risposto: «Per amore dei figli». Dicono pure che, incitandolo la madre a prendere moglie, abbia risposto:«Non è ancora tempo»; insistendo ancora, quando egli aveva oltrepassato la giovinezza: «Non è più tempo» (110).

Aristotele invece ci trasmette una notizia che mette in luce il senso pratico del Nostro e nello stesso tempo il suo senso etico e la sua dedizione alla filosofia (Politica, 1259 a 6):

Tutti questi racconti sul modo di arricchire sono utili per chi ne apprezza l’arte, e tra essi anche la storia che si narra a proposito di Talete di Mileto. […] Raccontano dunque che qualcuno, rinfacciandogli la sua povertà, asserisse che la filosofia non era di alcuna utilità pratica; allora Talete che, grazie alle sue conoscenze astronomiche, prevedeva una grossa raccolta di olive, prese in affitto fin dall’inverno i frantoi di Mileto e di Chio a condizioni vantaggiose perché nessuno ne offriva di più, dando come caparra un po’ di denaro di cui disponeva. Al momento opportuno, quando la richiesta divenne forte ed urgente, li cedette di nuovo al prezzo che voleva e ne trasse molto denaro, per dimostrare che ai filosofi, se volessero, sarebbe facile arricchire, ma che questo non è lo scopo a cui tendono. (111)

Ed è ancora Aristotele a fornirci la più antica e compiuta descrizione della filosofia di Talete (Metafisica, 983 b 6-24):

La maggior parte dei filosofi più antichi ritenne che fossero principi di tutte le cose soltanto quelli che rientrano in una specie materiale. Infatti essi affermano che è elemento e principio delle cose esistenti appunto ciò di cui tutte quante le cose esistenti sono costituite e da cui primamente provengono e in cui alla fine vanno a corrompersi, anche perché la sostanza permane pur cangiando nelle sue affezioni, e per questo motivo essi sono dl parere che nulla nasca e nulla perisca […]
Non tutti, però, sono d’accordo sul numero e sulla natura specifica di tale principio, ma Talete, iniziatore di tale tipo di indagine filosofica, sostiene che esso è l’acqua (perciò egli asseriva che anche la terra galleggia sull’acqua, e forse questa sua opinione gli fu suggerita dall’osservazione che è umido ciò di cui ogni cosa si alimenta e che anche il caldo nasce dall’umidità e sopravvive per mezzo di essa […] (112)

Anassimandro, di poco più giovane di Talete, come si è detto è filosofo di maggior spessore, ma è anch’egli dedito ad attività pratiche, uomo di mondo che viaggia e che si occupa di politica cittadina. Geometra e geografo (avrebbe secondo Erastotene tentato di realizzare una prima carta della Terra (che poco più tardi Ecateo avrebbe perfezionato) acquisì fama specialmente come astronomo e naturalista, inventando (o almeno introducendo in Grecia) lo gnomone e altri strumenti per il calcolo del tempo.

Mentre Talete era stato piuttosto vago nelle sue teorizzazioni, Anassimandro cercò costantemente di definirne i termini, introducendo in modo più chiaro il concetto di arché, quale principio e causa prima del mondo visibile e percepibile soltanto nella sua pluralità che identificò nell’àpeiron, una sostanza materiale ma invisibile che precede la differenziazione in molteplici entità derivate (113).

Viene così posto da Anassimandro un concetto ante-litteram di materia elementare in senso moderno, quale sostrato ed origine del tutto (114). L’indeterminatezza dell’arché materiale ha dato luogo a svianti e arbitrarie interpretazioni, in senso metafisico e spiritualistico, del sostrato materiale anassimandreo, in aperto contrasto con tutte le testimonianze e interpretazioni antiche del pensiero del milesio.

L’àpeiron, in realtà, ha soprattutto caratteri spaziali, ed oltre che un principio è anche un “estensione”, che nella sua totalità abbraccia il mondo, lo regge e lo regola. Da ciò l’inferenza aristotelica che l’àpeiron di Anassimandro abbia buoni titoli per venir definito “divino”, ma sappiamo come lo Stagirita tenda ad adattare alla propria filosofia l’interpretazione del pensiero di quelli che lo hanno preceduto, quando lo ritiene (in qualche modo) conciliabile con le proprie teorie.

A partire dal principio cosmico che tutto comprende ed abbraccia gli enti, nella loro pluralità, secondo Anassimandro si generano per “separazione” di sotto-principi intermedi, come il caldo e il freddo, il secco e l’umido. Questa separazione genera un’infinità di mondi (concetto che verrà poi ripreso anche da Leucippo e dagli Atomisti successivi) e la realtà assume peraltro la configurazione di una rottura generativa di un’unità primordiale ed omogenea. Da ciò una sorta di fenomenologia circolare della materia, nella quale viene a determinarsi il processo nascita-morte degli essenti finiti (molteplici, differenti e contrastanti) come una loro uscita dall’origine ed un successivo ritorno ad essa.

Dagli elementi di cui sopra si evince come Anassimandro abbia potuto tuttalpiù fare propria l’intuizione di di Talete, ma nello stesso tempo scostarsene per un maggiore approfondimento del problema ontologico, da cui deriva una visione filosofica più specificamente teoretica. Egli capisce che l’acqua non può essere il principio primo del tutto, poiché la sua fisicità (sia pure nella forma di vapore) è troppo definita per poter costituire il principio di ogni altra sostanza della realtà; quindi immagina un principio più generale, che nei termini in cui è espresso potrebbe essere considerato (come già notato) una delle prime definizioni di “materia”. Sentiamo in proposito Diogene Laerzio:

Anassimandro, figlio di Prassiade, naque a Mileto. Egli affermava che principio e elemento è l’infinito, ma non lo definì né aria né acqua né altro; le sue parti sono mutabili, ma il tutto è immutabile; la terra giace nel mezzo, tiene il posto centrale ed ha la forma di sfera […] Per primo scoprì anche lo gnomone e lo pose in Sparta come un quadrante solare […] Egli per primo disegnò la circonferenza della terra e del mare ed inoltre costruì anche una sfera (115).

Però si badi, Anassimandro va oltre Talete nel non riconoscere nell’acqua l’arché, ma l’acqua rimane comunque la culla del vivente. Riferisce Aezio (III, 16, 1, Dox. 381) (116):

Anassimandro dice che il mare è il resto dell’umidità originaria di cui la maggior parte ha disseccato il fuoco, mentre la parte rimasta s’è mutata per l’ebollizione [in acqua salata]. (117)

E altrove aggiunge (V, 19, 4, Dox.430):

Anassimandro sostiene che i primi viventi furono generati nell’umido, avvolti in membrane spinose e che col passare del tempo approdarono all’asciutto e, spezzatasi la membrana, poco dopo mutarono genere di vita. (118)

Ma è Plutarco a renderci una testimonianza (che trae da Teofrasto) secondo la quale Anassimandro avrebbe imaginificamente anticipato di venticinque secoli la teoria darwiniana e tematizzato la neotenìa con un argomento non privo di rigore logico. Leggiamo infatti (Stromata, 2, Dox.579):

[…] Dice pure [Anassimandro] che da principio l’uomo fu generato da animali di altra specie perché, mentre gli altri viventi si nutrono subito da sé, solo l’uomo ha bisogno per molto tempo delle cure della nutrice: ora se all’inizio fosse stato tale [com’è adesso] non avrebbe potuto sopravvivere. (119)

Ma torniamo ancora all’àpeiron per rilevare che varie testimonianze relative a questo originario illimitato-infinito di Anassimandro che ci pervengono da autori più tardi (perlopiù commentatori di Aristotele), come Alessandro di Afrodisia, Temistio, Filopono e Simplicio, sembrano indicare il principio da lui posto come un “intermedio” tra due o più elementi materiali originari.

Va tuttavia osservato che in greco apeiron ha sì il significato di indefinitezza e caoticità, ma su esso prevale tuttavia quello, peraltro simile e per molti versi complementare, di infinitezza. Si comprende allora come l’infinitezza, attribuita ad un principio unico, possa prestarsi anche ad una forzatura interpretativa, con la quale si potrebbe ipotizzare che l’unità del principio degradi la molteplicità a pura forma, negandole ogni materialità. E’ questa un’interpretazione misticheggiante della filosofia di Anassimandro, affacciatasi nel XX secolo con Heidegger, che ha stravolto, e del tutto arbitrariamente, i termini reali della tesi ontologica anassimandrea.

L’autore di Essere e tempo opera una fantasiosa analisi testuale di un brevissimo frammento assai lacunoso, che sarebbe stato riferibile ad un supposto testo originale di Anassimandro scoperto da Teofrasto tre secoli dopo (nessuno risulta averne parlato prima) e ripreso da Simplicio (un neoplatonico del VI secolo) nove secoli più tardi. Vale la pena di riportarlo per rendersi conto di come la filosofia possa abdicare ad ogni obbiettività quando si tratta di produrre dell’ermeneutica mistica. Il frammento di Simplicio (Physica, 24, 13; A, 9), che è gravato, tra l’altro, da evidenti integrazioni, recita:

Anssimandro… diceva che inizio [arché] e elemento primordiale delle cose è l’illimitato….E donde viene agli esseri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità; poiché si pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo. (120)

Dedurre da un passo così scarno i segni di una presunta teoresi spiritualistica anassimandrea, e quindi anti-materialistica, stravolgendone pertanto l’autentico significato naturalistico originario (e farne un’espressione ontologico-mistica) è un evidente e pesante arbitrio. Ma si possono avanzare persino seri dubbi circa la sua aderenza ad un’affermazione originale di Teofrasto, così come potrebbe trattarsi di nulla più che una parafrasi in gran parte metaforica della tesi anassimandrea (121).

Va precisato che l’interpretazione a cui abbiamo accennato è quella dello Heidegger post-kehre (1946) e che egli si rifà alla traduzione del frammento di Simplicio datane da Nietzsche per cogliervi un’enunciazione ante litteram della propria tesi dell’apparire della verità in quanto “non-nascondimento” dell’essere. Ma vediamo come emergerebbe tale straordinario (ed occulto-occultato) segno dell’alétheia pevenutoci da un Anassimandro “in estasi”. Dice Heidegger:

In ogni caso, se vogliamo pensare il detto di Anassimandro, è necessario, prima di tutto e sempre di nuovo, compiere quel semplice passo in virtù del quale ci traduciamo in ciò che dice la parola ovunque inespressa έόν, έόντα, εϊναι. Essa sta a dire: esser-presente nel non esser nascosto. Nel che si cela: l’esser-presente stesso porta con sé il non-esser-nascosto. Il non-esser-nascosto stesso è esser-presente. (122)

Ci asterremo da ogni commento del passo heideggeriano, ma non possiamo esimerci dal rilevare che né in Aristotele, né in Teofrasto né in Simplicio vi è assolutamente nulla che possa far pensare a un annuncio mistico della “verità originaria e nascosta”, come pensa Heidegger, e che, anzi, le testimonianze (comprese quelle di Simplicio, che è un neoplatonico) sembrano escludere tassativamente l’attribuzione di un senso spiritualistico al frammento stesso.

Vediamo però che cosa dice Aristotele dell’infinito (Fisica, 202 b 36):

Ma un segno che la considerazione dell’infinito è propria della scienza della natura è il fatto che tutti quelli che sembrano aver trattato tale filosofia in modo degno hanno preso in esame l’infinito e tutti lo hanno posto come principio delle cose; gli uni come i Pitagorici e Platone, in sé e per sé, non come predicato di un’altra cosa, ma l’infinito come sostanza…Tutti quanti i fisici, invece, danno sempre come sostrato all’infinito un’altra natura, prendendola dai cosiddetti elementi, come l’acqua, l’aria o qualcosa di mezzo tra i due. […] (123)

Qui Aristotele, con l’espressione “in modo degno”, manifesta chiaramente la sua malcelata ascendenza idealistica, e nello stesso tempo enuncia chiaramente quello che pensa dell’infinito posto dalla categoria di pensatori a cui appartiene Anassimandro (i “fisici”). Altrove (124) lo Stagirita, entrando più nel dettaglio, ci fa notare che l’infinito di Anassimandro è la “mescolanza” e non la “pluralità delle cose in atto dell’unità originaria (poiché come tale sarebbe una sorta di infinito spurio).

E a nostro parere proprio qui sta il nocciolo della questione; se l’infinito di Anassimandro è principio e nel contempo mescolanza (o “insieme”) di elementi fisici esso è materia “fisica”, ma se viene considerato “unità originaria” (e quindi aristotelicamente precedente la pluralità in atto) se ne fa un’entità primaria ed originaria che potrebbe teoricamente avere denotazioni immaterialistiche. Va rilevato tuttavia che il neoplatonico Simplicio (Physica, 24, 13) sembra mantenersi abbastanza neutrale sull’argomento, senza che vi siano forzature in senso spiritualistico. Infatti l’àpeiron non è principio immobile, bensì “mobile” e quindi implicitamente materiale:

Tra quelli che pongono un unico principio mobile e illimitato, Anassimandro di Mileto, figlio di Prassiade, successore e discepolo di Talete, affermava che principio e elemento primordiale delle cose è l’illimitato, introducendo per primo il termine di “principio”. (125)

E proseguendo ci precisa:

e diceva che esso non era né l’acqua né un’altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita da cui provengono tutti quanti i cieli e i cosmi che sono in essi.
[…] Evidentemente Anassimandro, avendo osservato la trasformazione dei quattro elementi l’uno nell’altro, non volle porre uno di essi come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi . (126)

Anche a voler pensare che Simplicio abbia in mente l’Uno-Tutto plotiniano ci sembra veramente difficile affermare che Simplicio con “altra natura infinita” e “oltre questi” possa alludere a qualche cosa di spirituale nell’àpeiron anassimandreo.

Appare dunque inevitabile e quasi d’obbligo opporsi nettamente all’interpretazione di Heidegger ed assumere per certa la sostanziale materialità del principio cosmico anassimandreo, sottraendolo così ad ogni arbitrario suo stravolgimento attraverso l’interpretazione arbitraria di un testo di per sé ambiguo. Ciò anche perché, verosimilmente, quel “detto” di Anassimandro riferito da Simplicio dodici secoli dopo la sua enunciazione può essere stato ampiamente corrotto dalla reiterata trasmissione verbale.

Ma l’interpretazione heideggeriana del frammento di Simplicio ci induce anche ad un’ulteriore considerazione, che va oltre le conclusioni che abbiamo appena tratto. Il fatto che l’interpretazione sopra citata abbia potuto essere posta e accettata da larghi strati della critica filosofica dimostra come in filosofia sia possibile stravolgere i significati dei testi frammentari o poco chiari in direzioni del tutto impensabili, soprattutto quando si parte da posizioni che sono estranee a quelle che si intende interpretare.

Infatti, il caso considerato nasce dall’interpretazione idealistico-mistica di un pensiero che è, all’opposto, naturalistico-materialistico e che non può essere, pertanto, che fondamentalmente anti-idealistico e anti-mistico. È quindi a partire dalla consapevolezza che il dominio della filosofia idealistica, in tutte le sue varie forme e derivazioni, ha permeato a tal punto (e permea tutt'oggi) la cultura occidentale dal V sec. a.C. in poi che dobbiamo assumere il sospetto come nostro pre-criterio interpretativo quando ci accostiamo alla filosofia antica. Soltanto una “rilettura” di essa che riparta quindi da zero ci può mettere al riparo sia dalle manipolazioni teologiche, sia dalle interpretazioni mistiche e non meno da quelle idealistiche.

Per una rilettura della storia della filosofia con criteri di neutralità extra-idealistica risulta quindi indispensabile mettere dei punti fermi per salvaguardarci dai molteplici equivoci che circondano il termine “materia”. Perciò ci concederemo qui una digressione, proponendo un ulteriore passo avanti nelle nostre riflessioni che esula dal tema della filosofia antica. E lo faremo al fine di assumere un criterio guida, che a noi pare indispensabile, qualora si persegua il tentativo di delineare una teoresi atea moderna che sia in grado di evitare equivoci ontologici e ogni (sempre incombente) deriva metafisica.

Infatti, se noi attribuiamo alla materia una sostanziale e intrinseca pluralità conserveremo la “materialità” nella sua autenticità, ma se noi cederemo alla tentazione di teorizzare una materia “unitaria”, come potevano fare i pensatori del passato (ma non certo noi che disponiamo delle nozioni acquisite dalla fisica teorica sub-atomica) non soltanto negheremo la pluralità ontologica di essa, ma ne faremo un puro e monistico principio astratto, passibile di ogni interpretazione metafisico-mistica. Per evitare esiziali ambiguità di questo tipo l’ateismo teoretico non può quindi esimersi dallo stare alla larga da ogni unitario “principio” materiale, come originario rispetto al dispiegarsi della pluralità reale fenomenica ed anche evidenziare, ove si verifichi, questo esiziale errore teorico.

Il pensiero ontologico di Talete ed Anassimandro quindi, in base al criterio testé esposto, parrebbe non poter essere considerato quale antecedente di un’ontologia atea moderna e tuttavia i due milesii debbono essere considerati i veri precursori dell’ateismo, per il solo fatto di aver posto un principio materiale a base dell’universo; e ciò in aperto contrasto con ogni precedente interpretazione dell’origine e della sostanza del mondo. Per contro non possiamo considerare ateo Eraclito, il quale fa sì riferimento ad un elemento materiale, il fuoco, ma per assegnargli connotazioni puramente metaforiche e farlo coincidere con un logos divino che è netta ipostasi mistica.

Completiamo ora la triade dei naturalisti milesii con Anassimene, il quale, forse allievo di Anassimandro e almeno di trent’anni più giovane, non condivide l’indeterminazione dell’àpeiron e identifica decisamente l’arché con l’aria (127). Tale definizione gli consente di teorizzare il formarsi e l’estinguersi degli enti come un processo alternato di “rarefazione” e di “condensazione” del principio materiale originario. Entra così in gioco la pluralità degli “elementi” (su cui Empedocle fonderà la sua teoria), ma solo come “stati” provvisori del sostrato primario unico. Ci informa su di lui il già citato Diogene Laerzio:

Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu uditore di Anassimandro; secondo altri fu anche uditore di Parmenide. Ammise come principio l’aria e l’infinito; gli astri si muovono non sotto terra, ma intorno ad essa. […] (128)

Più interessanti elementi teorici ci offre Simplicio quantunque si tratti di un interprete di tre secoli più tardo di Diogene (Physica, 24, 26):

[…] Essa si differenzia nelle varie circostanze a seconda del grado di rarefazione e di condensazione: e così dilatandosi dà origine al fuoco, mentre condensandosi dà origine al vento e poi alla nube; ad un grado maggiore di densità forma l’acqua, poi la terra e quindi le pietre; le altre cose derivano poi da queste. Anche Anassimene ammette l’eternità del movimento, per opera del quale avviene la trasformazione. (129)

Dunque, rarefacendosi o condensandosi, l’aria dà sostanza ai vari elementi del mondo. Ma il vero motore di tutte le sue metamorfosi è l’eterno movimento. Poiché è la connessione tra esso e la sostanza che più di ogni altra si presta ad essere soggetta a movimento in ogni direzione ontica, l’aria appunto, che si generano i vari aspetti del cosmo. Come nota infatti ancora Simplicio (De caelo, 273 b 45):

Anassimene … diceva che il principio era l’aria, pensando che la facilità alle variazioni propria dell’aria la rendesse adatta al cambiamento. (130)

I sotto-principi che Anassimandro aveva già identificato nelle coppie del caldo-freddo e dell’umido-secco soggiacevano anch’essi all’eterno divenire del processo rarefattivo-condensativo, ma è proprio con Anassimene che tale tesi trova una sua evoluzione attraverso il concetto di moto, il quale risulterà fondamentale per la nascita della teoria atomistica di Leucippo. Una particolare ed originale spiegazione dell’arcobaleno avanzata da Anassimene ci viene riferita da Aezio (III, 5, 10) ed essa rivela, tra l’altro, le sue eccellenti capacità di osservazione, poiché la definizione di “nube spessa” non è poi così lontana da quella di una massa di gocce d’acqua che per un processo di rifrazione-riflessione della luce solare dà luogo al fenomeno:

Anassimene sostiene che l’arcobaleno è prodotto dal riflesso del sole su una nube spessa, densa e scura, poiché i suoi raggi, posatisi su di essa, non possono traversarla.

L’originalità di alcune teorizzazioni di Anassimene è fuori discussione e gli va riconosciuta specialmente la capacità di osservazione ed indagine che lo porta ad operare una riduzione delle differenze apparentemente qualitative del reale fenomenico a differenze quantitative, in quanto ciò che muta la sostanza del reale è soltanto il grado di rarefazione-condensazione. E tuttavia, anche se la filosofia anassimenea consiste in un acuto approfondimento delle tesi di Anassimandro, non vi è in essa la portata rivoluzionaria del pensiero del suo precedessore-maestro. Da esso Anassimene desume anche la concezione di un divenire ciclico del mondo, con un suo periodico dissolversi nel principio originario e un suo successivo rigenerarsi a partire da esso. Una teoria palingenetica che verrà più tardi ripresa dagli Stoici.

Un ultimo accenno ad un personaggio del mondo ionico vissuto nella prima metà del V sec. a.C., il quale, in base alle testimonianze, si è richiamato in modo esplicito al naturalismo milesio (e specialmente a Talete) e che da parte di molti suoi contemporanei veniva giudicato ateo. Si tratta di Ippone, filosofo e medico di Samo (o di Crotone) che viene considerato uno dei più importanti esponenti della cosiddetta “seconda filosofia ionica”.

Uno degli aspetti notevoli della filosofia di Ippone deriva dalla sua attività osservativa, imposta anche dalla sua professione di medico e naturalista, che lo conduce a teorizzare come fondamento del vivente un “principio vitale freddo” presente nell’umidità e in tutto ciò che ha come base costitutiva l’acqua. Ciò in netta contrapposizione ad Eraclito, il quale, come è noto, sulla base del fuoco-logos come origine e generazione del tutto, aveva sostenuto essere il fondamento del mondo un divino “principio vitale caldo” insito nel fuoco.

A questo proposito non sarà peregrino notare come, già a metà del primo millennio a.C., il mondo ellenico rivelasse in filosofia una netta contrapposizione tra i sostenitori di una filosofia metafisico-mistica del tutto astratta e coloro che, attraverso l’osservazione della natura e la riflessione su di essa, pervenivano a delle definizioni le quali, per quanto ancora lontane dalla scientificità più tarda, mostravano già una netta intuizione dei termini oggettivi in cui si pone la realtà fisica e biologica.

Partiamo con una dichiarazione di Simplicio (Phis., 23, 22) in cui Ippone viene associato a Talete e dove si fa cenno del suo presunto ateismo:

[A proposito dei veri “fisici” per i quali il principio è uno e mobile] così Talete… e Ippone, il quale sembra sia stato anche ateo, dicevano che il principio è l’acqua, spinti a tale conclusione dall’esame sensoriale di fenomeni, etc. (131)

Tramite Clemente Alessandrino (Protr., 2, 24) apprendiamo che un certo Philoponus, in una sua Aristotelis de generatione animalium (88, 239 , avrebbe dichiarato:

Costui fu denominato ateo per questo motivo, che la causa di tutto a nient’altro riportò se non all’acqua. (132)

Conferma di ciò ci viene da Alessandro di Afrodisia, che nel suo Metaphysica (462, 29) afferma:

Ippone dapprima fu detto l’ateo, perché riteneva che non ci fosse niente oltre le cose dei sensi. (133)

Ed è ancora il cristiano Clemente (Protr. 2, 55) che nota, tra il serio e il faceto, in riferimento ai “falsi” dèi pagani:

E non è giusto prendersela neppure con Ippone che immortala la sua morte. Egli fece incidere sul suo monumento questo distico: «È questa la tomba di Ippone che dopo la morte pari agli dèi immortali rese la Moira.» (134)

Per chiudere questo paragrafo dedicato al naturalismo ionio dobbiamo ancora soffermarci un istante a definire le ragioni del “perché a Mileto”, e in quel preciso momento storico, abbia avuto nascita un percorso filosofico che darà luogo più tardi, in epoca ellenistica, alla nascita del pensiero scientifico (ponendo implicitamente le premesse per la nascita di una concezione ateistica del mondo). Occorrerà allora sottolineare che si è trattato di una particolare e felice situazione storica, che ha potuto determinare il fondamentale accadimento filosofico di cui Talete, Anassimandro ed Anassimene sono stati protagonisti, ma che ha dato luogo, più in generale, ad un clima culturale nel quale si inseriscono personaggi collaterali (come Ecateo [135]) che hanno alimentato una ricerca su base razionale e critica che era stata del tutto assente nelle epoche precedenti.

Mileto era infatti, all’epoca, la culla del pensiero filosofico, delle scienze naturali, degli studi geografici e storiografici (136), nonché luogo di raccolta di varie tradizioni culturali presenti nell’area circum-mediterranea. E d’altra parte, era anche stato in area ionica che l’epica omerica aveva reso, in termini di grande poesia, un primo e definito compendio della multiforme mitologia precedente, fornendo così un primo esauriente quadro fenomenologico delle divinità della religione greca. Religione che (come si è visto), in maggior misura di altre religioni antiche, si caratterizzava per una molteplicità di entità super-umane che coprivano, a vari livelli gerarchici, tutti gli aspetti e tutte le forze della natura.

La pluralità delle ipostasi divine che ne era derivata, insieme coi caratteri antropomorfi o antropo-zoomorfi ad esse attribuiti, si inseriva nella rappresentazione mitica di una vicenda storica più o meno recente e con essa veniva creato un palcoscenico di situazioni e personaggi, i quali, nel bene e nel male, rappresentavano lo scenario poetizzato di una umanità polimorfa e complessa. Ed è ancora al contesto ionico che appartengono due dei capostipiti della poesia lirica greca, Alceo e Saffo, che sono contemporanei dei filosofi naturalisti di cui ci siamo occupati.

Ma se le città sulle coste della Ionia, e le isole che vi si affacciavano, erano in quel momento il crogiolo della cultura ellenica vi era anche una ragione extra-culturale, identificabile col felice momento economico che l’area viveva, in un fervore di attività commerciali ed artigiane basate specialmente sulla navigazione. La contiguità territoriale colla potente e ricca Lidia, essendo in quegli anni regnante il famoso e ormai mitico Creso, determinava una situazione economica particolarmente favorevole (sia pure con qualche elemento di dipendenza politica) agli sviluppi della cultura in tutte le direzioni.

Mileto era infatti un tramite indispensabile per i rapporti che quel regno intratteneva con tutte le altre civiltà contemporanee del mediterraneo. Dalle quali, la Ionia, dopo averne raccolto gli apporti conoscitivi e tecnologici, si avviava ora a irradiare un nuovo tipo di cultura, basata essenzialmente su una razionalità che non mortificava l’immaginazione e che nello stesso tempo metteva in ombra la religiosità del mito e con essa la sacralità che aveva permeato le società dei secoli precedenti (137).

L’area ionica, e in particolare la polis di Mileto, almeno fino al disastro militare che seguì la sua sfortunata rivolta contro lo strapotere dell’impero persiano (nel 494 a.C.), per mezzo del commercio e delle comunicazioni aveva aperto i propri orizzonti in ogni direzione e si era avviata a prendere la guida culturale di tutto il mondo antico. Attraverso un coacervo di conoscenze pre-scientifiche e di capacità tecniche, di internazionalismo e di nuovi rapporti sociali, si gettavano nel contempo le basi di una società urbana mediamente agiata e culturalmente aperta.

È al centro di tale contesto che una comunità sociale ben organizzata, costituita principalmente da artigiani e da commercianti, poteva vedere la fioritura dell’architettura e della medicina, dell’astronomia e della geografia, della poesia epica e lirica, ed infine (per ciò che concerne la nostra ricerca) di un’ontologia laica e post-mitologica che avrebbe aperto i nuovi orizzonti della filosofia.


(104) Occorre aggiungere che la filosofia idealistica non ha soltanto prevalso nel mondo antico, fornendo un apporto importante all’evoluzione dl Cristianesimo, ma permea tuttora e profondamente tutta la cultura occidentale. Whitehead ha affermato che tutta la filosofia dell’Occidente, in fondo, non è altro che una lunga parafrasi del pensiero di Platone. (torna su)

(105) Notava il Gomperz, relativamente al contesto in cui Talete si trovò ad operare, quanto segue (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p. 69): «Fu dunque, per il progresso spirituale del popolo greco, un caso straordinariamente benefico quello per cui, mentre i popoli che lo precedettero nell’incivilimento ebbero un ceto sacerdotale, esso, da parte sua, ne fu invece sempre mancante. Così il futuro promotore dell’avanzamento scientifico dell’umanità godé insieme di tutti i vantaggi e fu sottratto a tutti gli svantaggi che derivano dall’esistenza di un dotto ceto sacerdotale». (torna su)

(106) Georges Minois, Storia dell’ateismo, Editori Riuniti 2000, pp. 37-38. (torna su)

(107) Come è noto, secondo l’aneddoto, Talete sarebbe stato il tipico filosofo alle prese con le speculazioni e con scarsa attenzione alla realtà. Avrebbe infatti, un giorno, suscitato l’ilarità e l’irrisione di una servetta e di altri astanti poiché, passeggiando con la testa rivolta al cielo, sarebbe caduto in un pozzo. (torna su)

(108) Secondo il Farrington (La scienza nell’antichità, Longanesi 1978, p. 22) Talete avrebbe tratto spunto per la sua tesi da una tradizione egiziana, che considerava l’universo come un’enorme massa d’acqua all’interno della quale il nostro mondo era una bolla. Un po’ diversa e più precisa è la versione del mito che ci rende il Gomperz (Th. Gomperz Pensatori greci, vol. I, La Nuova Italia 1950, pp. 1144-145) dove la bollasi presenta come l’uovo primordiale (presente anche in altre culture): «In principio non c’era né il cielo né la terra; circondata da spesse tenebre, riempiva il tutto un’acqua primordiale illimitata (che gli egiziani chiamavano Nun), la quale racchiudeva nel suo seno i germi maschili e femminili, ovvero i principi del mondo futuro. Lo spirito divino primordiale, inseparabile dalla materia dell’acqua originaria, sentì il desiderio dell’attività creatrice, e la sua parola chiamò il mondo alla vita…Il primo atto creativo s’iniziò con la formazione di un uovo che fu ricavato dall’acqua primordiale, e dal quale uscì la Luce del Giorno (Râ), causa immediata della vita nell’ambito del mondo terrestre». (torna su)

(109) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, vol. I, Laterza 1983, p. 10. (torna su)

(110) Ivi p. 11. (torna su)

(111) I Presocratici (cura A. Pasquinelli), Einaudi 1980, p. 15. (torna su)

(112) Aristotele, OpereMetafisica – Laterza 1973, p. 12-13. (torna su)

(113) Pone il Gomperz la domanda retorica (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, pp. 82-83): «Ma quale era questa materia originaria estendentesi all’infinito? Non era nessuna delle sostanze da noi conosciute. Poiché queste sostanze, che incessantemente trapassano l’una nell’altra e si originano l’una dall’altra, appariscono ad Anassimandro elementi, in certa guisa, tutti dello stesso valore e dello stesso grado, almeno dal punto di vista del non sembrare nessuna di esse materia tale da poter pretendere al titolo di progenitrice di tutte le altre». (torna su)

(114) Ricordiamo che, in realtà, in base alle più recenti acquisizioni della fisica teorica, se si dovesse stabilire una nuova arché del cosmo conosciuto, occorrerebbe precisare che essa non è per nulla unitaria, bensì plurale, per l’esattezza esadecimale, in quanto costituita da sedici componenti-base. I “mattoncini” elementari dell’universo sono infatti dodici (sei quark, tre neutrini, il muone, il tauone e l’elettrone) ed i “cementi” che li assemblano e li tengono assieme (le forze) sono quattro (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare debole e nucleare forte). Parlare di materia in senso unitario è una convenzione linguistica discorsivamente utile, ma concettualmente impropria (cfr. Necessità e libertà, pp. 18-24). (torna su)

(115) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, vol. I, Laterza 1983, p. 48. (torna su)

(116) Aezio è un dossografo peripatetico-eclettico del I sec. i cui testi sono di fondamentale importanza quali documenti, a volte unici, sul pensiero dei filosofi antichi e specialmente presocratici. (torna su)

(117) I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo primo, Laterza 2004, p. 105. (torna su)

(118) Ivi, p. 106. (torna su)

(119) Ivi, p. 99. (torna su)

(120) I presocratici (a cura di A. Pasquinelli), Einaudi 1980, p. 44. (torna su)

(121) Ivi, Nota 19, p. 320-323. (torna su)

(122) Martin Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia 1986, pp. 345-346. (torna su)

(123) Ivi, p. 29-30. (torna su)

(124 Aristotele, OpereMetafisica, XII, (Λ), 1069 b 20, Laterza 1973, p. 343. (torna su)

(125) I presocratici. Frammenti e testimonianze, vol. I (a cura di Angelo Pasquinelli), Einaudi 1958, p. 27. (torna su)

(126) Ivi p. 28. (torna su)

(127) Nota Theodor Gomperz a proposito della scelta dell’aria come arché: «E poiché la materia, secondo la dottrina che tutti e tre questi pensatori – i cosiddetti fisici jonici – hanno in comune, porta in se stessa la ragione del proprio movimento, che cosa di più naturale dell’attribuire la parte preminente alla parte più nobile di essa, e proprio a quella che, in rapporto agli esseri organici, era considerata come l’elemento vitale stesso, come (si consideri che “Psiche” non significa che “respiro”) l’elemento dell’anima? Il nostro filosofo, infatti, ha paragonato quel soffio vitale che si supponeva essere il principio di esistenza e di coordinazione funzionale nei corpi degli animali e degli uomini a quell’aria che, circondando il mondo, lo compone in un tutto unico.» (Th. Gomperz Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p. 89). (torna su)

(128) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, vol. I, Laterza 1983, p. 49. (torna su)

(129) Ivi, p. 46. (torna su)

(130) Ibidem. (torna su)

(131) I Presocratici, tomo primo, Laterza 2004, pp. 435-436. (torna su)

(132) Ivi, p. 436. (torna su)

(133) Ibidem. (torna su)

(134) Ibidem. (torna su)

(135) Ecateo di Mileto è il più importante storico e geografo greco del VI secolo a.C. Come cartografo egli si muove sulle orme di Anassimandro e come storico assume un atteggiamento critico nei confronti del mito che ha fatto pensare ad un suo atteggiamento tendenzialmente ateo. (torna su)

(136) Si noti ancora che verso la fine del V sec. a.C. l’alfabeto del dialetto ionico diventa comune a tutta la lingua greca. (torna su)

(137) Così si esprime lo storico della scienza Benjamin Farrrington sull’argomento: «Fu proprio nell’epoca dei grandi poeti lirici (Talete era contemporaneo di Saffo) che ebbe inizio la scienza greca, nella quale si trova la stessa audacia di concezione e indipendenza di pensiero. La scienza è la creazione di un particolare tipo d’uomo e di un particolare tipo di società: non zampilla nel vuoto. La scienza greca sembrerà meno miracolosa se si considerano il tempo e il luogo della sua origine. Sorse nella città di Mileto, sulla striscia costiera greca dell’Asia minore. Questa città era in diretto contatto con le più antiche civiltà dell’Oriente; rientrava linguisticamente in quella cultura che vantava già una brillante letteratura poetica, epica e lirica; ed era al centro d’una larga attività mercantile e colonizzatrice. Quindi la scienza greca fu il prodotto di un ricco umanesimo, di una cultura cosmopolita e di un intraprendente movimento d’affari.» (B. Farrington, La scienza nell’antichità, Longanesi 1978, pp. 21-22). (torna su)


Web Homolaicus

Testo di Carlo Tamagnone
Foto di Paolo Mulazzani

Il saggio è pubblicato dall'Editrice Clinamen di Firenze (304 pp., Euro 24,70) nella Collana "Il Diforàno"
ed è acquistabile nelle librerie o direttamente al sito: www.clinamen.it


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo antico
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Aggiornamento: 06/09/2013