ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
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V. Edonismo ed eudemonismo Passiamo ora ad occuparci di Tito Lucrezio Caro (98 ca – 54 ca a.C.), il poeta latino che nel De rerum natura tradurrà la filosofia di Epicuro in poesia, introducendovi un tormento esistenziale sconosciuto all’impassibile greco e rendendo famoso quel termine clinamen che, forse proprio grazie a lui, acquisterà una connotazione decisamente etica, quasi come sinonimo di “libertà”. Il poema didascalico De rerum natura (dedicato a Gaio Memmio) si compone di sei libri. Nel primo e nel secondo Lucrezio tratta della materia, dello spazio, della nascita e corruzione delle cose del mondo. Nel secondo e nel terzo l’attenzione si sposta sull’uomo. Negli ultimi due il tema è l’universo in generale e i fenomeni fisici. Ci sembra importante iniziare il nostro esame dell’opera di Lucrezio con la presentazione del suo eroe (I, versi 62-79):
Non manca di epicità questo elogio ad Epicuro (sì, che qualcuno vi ha colto un'eco dell’omerica Iliade) in cui viene sottolineata la sfida quasi prometeica che Il Greco ha mosso contro la religione. In realtà noi sappiamo che (stando alla lettera dei testi epicurei) le cose non stanno proprio così, ma è interessante cogliere qui come Lucrezio attribuisca ad Epicuro il “proprio” ateismo radicale per sottolinearne l’autorevolezza d’origine. Nel filosofo greco (invece assai prudente in fatto di religione), che egli ha eletto a padre spirituale, Lucrezio proietta il suo senso di rivolta verso la religione istituita e il suo deciso rifiuto di ogni spiegazione sacrale dell’universo. Un poco più avanti si rafforza questo atteggiamento antireligioso (I, versi 101-109):
Dunque le “favole” dei sacerdoti sconvolgono la vita delle persone, introducendo degli elementi estranei di timore infondato che turbano ogni possibile tentativo di sentirsi felici. E poco più avanti (I, versi 146-150 e 155-158):
Lucrezio prosegue nel suo sviluppo poetico della fisica epicurea fino al punto in cui confuta la tesi eraclitea del fuoco come origine di tutte le cose. È qui interessante notare come il poeta, senza mezzi termini, bolli il linguaggio filosofico poco chiaro (I, 635-644):
Dopo aver contestato Eraclito, viene il turno di Anassagora e delle sue omeomerìe per giungere alla conclusione del libro col discorso diretto a Memmio (I, versi 1114-1117):
Passiamo ora al Secondo Libro e andiamo direttamente al passaggio dove viene posto il clinamen degli atomi, per constatare come esso si traduca immediatamente (sotto forma di domanda retorica) in contenuto etico analogico, quale “libero arbitrio” dei viventi sempre volti alla ricerca di ogni possibile piacere (II, 243-262):
Il cupo pessimismo di Lucrezio (che morrà suicida) erompe verso la fine del libro con una sorta di profetico annuncio della corruzione e della morte del mondo “ormai stremato ed esausto” (II, versi 1139-1152):
La poesia visionaria lucreziana immagina il mondo come un immenso organismo “le cui vene non sopportano più quanto basti alla vita”. Ma sono specialmente “i corpuscoli martellanti dall’esterno” che “non cessano di stremar alcuna cosa e di vincerla ostili con gli urti”. Ma che cosa sono questi “corpuscoli”? Gli atomi stessi o le misteriose entità che urtando contro di essi ne declinano la caduta? Più che un teoria della “distruzione” forse un topos poetico dettato dalla depressione. Passiamo ora al Terzo Libro, nel quale ci è dato cogliere un passaggio concettuale molto importante, poiché si cerca di chiarire attraverso la differenza tra anima e animus ciò che in Epicuro era rimasto piuttosto indeterminato. Va tuttavia notato che nella lingua latina esiste tra i due termini una differenziazione che ricorda in qualche modo quella già esistente nella lingua greca tra psyché (anima) e noùs (intelletto). L’anima (come la psyché) è diffusa in tutto il corpo e costituisce il soffio vitale (ma per Epicuro “corpo nel corpo”) di esso. L’animus invece è qualcosa di più simile al noùs (III, versi 136-140):
Per Lucrezio animus e mens sono la stessa cosa e tale cosa ha sede nella zona centrale del petto, vale a dire in quella collocazione che ancora oggi nel linguaggio comune viene riferita al “cuore”, quale recettore delle emozioni e centro della sensibilità etica ed estetica. Ed infatti la mens latina (che non possiede la ratio) non corrisponde a ciò che indica la parola italiana “mente” (centro del pensiero) ma piuttosto sentimento, indole, carattere, coscienza, cuore. Lucrezio poi aggiunge (versi 141-146):
Dunque l’animo e l’anima sono connessi, ma questa dipende da quello. L’animus-mens infatti “prende per sé conoscenza” e “per sé gioisce”. Noi abbiamo pertanto un concetto di animo che si avvicina a quello moderno di anima, come centro delle emozioni e della sensibilità. Lucrezio anticipa così, attraverso una duplicazione del “mens sana in corpore sano” in un “corpus sanum a mente sana”, il concetto moderno di stato psico-somatico, dove lo stato della psiche determina il benessere o il disagio corporeo attraverso il sistema nervoso simpatico. Infatti (versi 152-162):
Prosegue Lucrezio spiegandoci che l’animo è costituito da atomi ancora più sottili di quelli dell’anima, ma che si deve pensare a qualche cosa d’altro di ancora più originario e costituito da atomi ancora più piccoli e mobili (i principia ab origine, gli elementi primordiali o particelle basilari) per spiegare “i moti sensitivi” e “il pensiero” ed essi sovrintendono al “senso” (389) basilare del corpo che vive (III, versi 241-246 e 258-265):
“Secondo le sue forze” Lucrezio tenta di spiegarci che questi elementi primordiali agiscono in modo coordinato e che da essi dipende tutta la nostra esistenza: dal movimento, alle emozioni, ai sentimenti. Ma essi sono anche alla base “della violenta forza dei leoni”, “della fredda mente dei cervi” e “della natura più placida dei buoi” dai quali l’uomo non differisce più di tanto, poiché in fondo esso resta pur sempre un animale (versi 307-318):
Dunque se l’anima rende vivo il corpo e l’animo determina i moti sensitivi e il pensiero, a determinare la profonda “differenza” tra uomo e uomo sono i corpuscoli primordiali che conferiscono il “senso”. Infatti (III, versi 331-336 e 350-353):
Ma l’animo si può ammalare né più ne meno del corpo e la “morte dell’animo” non è meno terribile delle morte del corpo (versi 461-466):
Lucrezio si lancia in una lunga esposizione in cui rivela una conoscenza dell’animo umano e dei suoi problemi da far invidia a uno psicologo moderno; si sofferma poi a dimostrare (seguendo da vicino Epicuro) come pensare l’anima come qualcosa di immortale sia un’assurdità e che lo stesso valga per la natura dell’animo che “non può nascere sola, priva del corpo, né esistere separata dai nervi e dal sangue (versi 788 e 789) per arrivare all’epicureo “Nulla è la morte per noi” che sviluppa sino alla fine del capitolo, in un crescendo che pone in evidenza una pesante inevitabilità della morte che ha poco a vedere con la leggerezza epicurea di una morte “quasi felice”. Nel Quarto Libro Lucrezio tratta delle sensazioni in termini sostanzialmente fedeli ad Epicuro, ma amplia poi il discorso su tutto ciò che risulta ingannevole per l’uomo: le illusioni, i miraggi e i sogni. Ma verso la fine introduce l’argomento relativo alla peggiore e dolorosa tra queste esperienze fallaci: quella dell’amore. Vediamone qualche passo (IV, 1058-1072):
Lucrezio delinea in pochi ed efficacissimi versi lo strazio dell’amore deluso, con tratti espressionistici nei quali è dato cogliere il segno di una bruciante esperienza personale. Poi egli descrive l’amplesso con crudo realismo, fino al momento culminante dell’orgasmo seguito da un altrettanto breve momento di pausa, dopo di ché il desiderio si riaccende e gli amanti «vorrebbero sapere» che cosa esso sia veramente per poter lenire quella “piaga segreta”(IV, versi 1113-1120):
Lasciamo il Quarto Libro, dove Lucrezio ci ha dato alcuni tra i luoghi più alti della sua poesia, e veniamo al Quinto, nel quale viene ripreso il tema dell’inarrestabile declino del mondo e dell’assenza di ogni provvidenza divina che possa rimediare ai suoi mali, poiché (V, versi 198 e 199) «non per volere divino è stata per noi generata la natura del mondo, segnata da pecche sì gravi». Lucrezio pone così, diciassette secoli in anticipo, il problema di un’impossibile teodicea. Con un taglio esistenzialistico ante litteram (a cui sarà sensibile Giacomo Leopardi) il poeta descrive la condizione umana “gettata” in un mondo pieno d’angosce, al quale forse sarebbe stato meglio non essere mai nati, poiché (V, versi 222-227):
Non un dio benevolo quindi, ma una natura matrigna getta l’uomo “sulle prode della vita”, per poi abbandonarlo al suo destino di sofferenza e solitudine. Un mondo casuale e caotico, creato da nessuno, senza ragion d’essere e nato da una materia informe ci accoglie e ci accompagna (V, versi 416-423):
Gli stessi atomi e lo stesso mondo da essi formato, che per Epicuro configuravano una realtà nella quale fioriva la vita e in cui vi potevano essere dolori sopportabili e piaceri da scegliere, nella quale era possibile realizzare una stabile e pacata felicità, delineano invece per Lucrezio un contesto senza scopo e senza finalità, in cui l’uomo è gettato alla provvisorietà e alla sofferenza. La morte, che per Epicuro era il compimento significativo di un esistenza regolata da un saggio eudemonismo, diventa in Lucrezio un assurdo pozzo di non-senso che tutto risucchia. Ma non è tutto, poiché l’uomo volontariamente si è legato mani e piedi alla credenza del divino. E il poeta si avvia a dare la spiegazione di questo legame (V, versi 1161-11689):
La causa di tutto è l’ignoranza. Fin dai tempi più remoti gli uomini hanno fantasticato degli dèi, immaginandoseli grandi e potenti, assegnando loro l’eternità e la beatitudine e ad essi connettendo i fenomeni celesti e naturali come se questi obbedissero alla loro volontà (V, versi 1183-1193):
Gli uomini non si rendono conto di quanto quell’errata interpretazione della realtà abbia funestato la loro esistenza (versi 1194-1197):
Il Sesto ed ultimo libro concerne i fenomeni naturali in ogni loro aspetto, che non vanno attribuiti ad alcuna potenza divina, ma a forze inconoscibili e imprevedibili legate al caso e al caos che pervadono tutta la realtà, fino al caso estremo dell’epidemia di peste che Atene ha dovuto sopportare (401). Uno scenario di morte, che chiude significativamente un poema didascalico con un grido di dolore senza speranza. Uno sforzo poetico che ha al suo centro l’esistenza dell’uomo, le sue illusioni, i suoi fraintendimenti, il suo autolesionismo e le sue inevitabili sofferenze. Finora abbiamo seguito passo passo il testo lucreziano, dobbiamo adesso tentare una sintesi del suo pensiero in relazione ai contenuti e alla forma poetica che li riveste. Nell’ermeneutica lucreziana si delineano due flussi poetico-descrittivi, un primo che potremmo chiamare “espressionistico” e un secondo che definiremo “razionalistico”. L’interpretazione espressionistica di Lucrezio si fonda sugli evidenti caratteri pessimistici, fino ad estremi nichilistici (e fin quasi alla celebrazione del “trionfo della morte”), della sua poesia. Una poesia che progetta l’apologia di una filosofia rasserenatrice, ma ne realizza il suo opposto nell’angoscia delle cupe e disperanti atmosfere descrittive, che punteggiano il poema e che lo concludono (la peste di Atene chiude il Sesto Libro). L’interpretazione razionalistica presuppone invece il distacco concettuale dell’autore e la sua entusiastica adesione all’epicureismo, proprio allo scopo di proporre “didascalicamente” una via razionalistica per il superamento dell’ignoranza, dell’angoscia e della sofferenza, delle l’uomo soffre anche (o forse soprattutto) per aver tolto alla natura la sua autonomia causale, riponendo in presunti voleri divini i fenomeni che l’uomo percepisce e patisce. Ciò coinciderebbe con la riappropriazione di un rapporto naturale con la natura, madre e matrigna, ma comunque “vera” rispetto alle “false” ipostasi divine. Noi pensiamo che entrambe siano attendibili e che il loro connettersi e sovrapporsi costituisca l’aspetto più affascinante e problematico de La natura delle cose. Emerge anche in Lucrezio un sentimento nostalgico nei confronti di una primitiva “naturalità” umana che l’avvento delle religioni avrebbe pervertito, precipitandola così in un coacervo di false illusioni e di falsi timori che condizionano l’esistenza e la coscienza, impedendo all’uomo di scoprire una via naturale alla felicità. D’altra parte, innegabilmente in lui vi è anche una sorta di millenarismo fatalista, che vede in un’imminente rovina del mondo la conclusione ultima di un progressivo esaurimento della sua vitalità. In questo clima la necessità e la casualità si intersecano in una matassa a due fili della quale è difficile trovare i capi e il loro razionale e opportunistico svolgimento. La natura domina il poema lucreziano nella duplice veste della minaccia di dolore e morte e della promessa di rinascita e vita. Visioni idilliche piene di speranza vitalistica si alternano a scene cruente di disperante e nichilistica rovina. In tale contesto l’uomo è solo, senza alcun dio che lo possa aiutare a risolvere i suoi problemi, e la sua solitudine è la causa di una impropria evoluzione basata che ha condotto all’affermarsi dei feticci della religione. L’operazione soteriologica che Lucrezio vuole avviare, sulle orme di Epicuro, è quella di liberare l’uomo dalla schiavitù e dalla deferenza verso il “divino”, per poter ritornare all’immanente natura che lo ha generato e l’avvolge. Ed infatti egli oppone il mondo animale, sereno e vitale, al mondo umano pervaso di angoscia e di doloroso pathos. La realizzazione dell’atarassia sembra allora prevedere un implicito ritorno ad una condizione perduta, dare recuperare attraverso il rifiuto del “sacro”. Ma su tutto insiste l’insufficienza dell’uomo a penetrare quei misteri che ciò che è a lui “esterno” racchiude: ovvero la totalità dell’universo, il nulla che incombe, un passato da decifrare e un futuro da gestire. Il De rerum natura si offre così come un’immensa impresa didascalica e nello steso tempo come un affettuoso e disperato affresco di un’umanità sensibile e sofferente, che non riesce a trovare la strada per realizzare compiutamente la propria più autentica essenza all’interno della natura, la quale a volte si presenta come una madre accogliente e a volte come una terribile minaccia. Con Lucrezio abbiamo concluso questo quinto capitolo del nostro lavoro e con lui possiamo giungere alla conclusione che l’epicureismo è l’unica dottrina atea antica che presenta un assetto teoretico compiuto. Essa dovrà competere nei secoli successivi all’affermarsi del Cristianesimo con un dominante Aristotelismo (sotto forma di Tomismo), con una resistente tradizione neoplatonica (da Agostino alla Scuola di Chartres) e con lo Stoicismo, ad esso antitetico col suo necessitarismo. In questa tradizione epicurea, minoritaria nel panorama filosofico post-antico, si andranno delineando due correnti principali: una prima che avrà denotazioni “teoretiche”, concernendo una visione atea del mondo e della vita, ed una seconda che si caratterizzerà per la tendenza a privilegiare gli aspetti edonistici ed eudemonistici della filosofia di Epicuro (e non necessariamente in senso ateistico). In questo contesto la poesia lucreziana, che sarà il principale veicolo dell’epicureismo nell’Europa Occidentale si collocherà in posizione neutra; ciò grazie alla fondamentale contraddizione interna che la pervade: l’aderenza ad una filosofia che intende essere rasserenante e tranquillizzante e nello stesso tempo il suo inserimento in un contesto pessimistico, che sembra rivelare il fallimento proprio di ciò che è elemento principale della filosofia epicurea, vale a dire la sua etica eudemonistica. Infatti, Lucrezio intendere fare l’apologia dell’eudemonismo epicureo, ma il suo intento appare diffusamente compromesso da un espressionistico senso dell’ignoranza dell’uomo e della sofferenza che lo investe, nonché dal soffuso nichilismo mortifero che pesa sull’atmosfera poetica dell’opera, almeno dal Terzo all’ultimo capitolo del poema. Vedremo, tuttavia, come la tradizione epicurea, in modo per lo più sotterraneo rispetto al dominio della dottrina cristiana, giungerà vitalissima al XVII secolo, per vivificare una corrente ateistica del naturalismo, che concorrerà a creare le premesse per l’avvento dell’Illuminismo razionalistico e scientistico. (380) Lucrezio, La natura delle cose, Rizzoli 2000, p. 77. (torna su) (384) Ivi pp. 175-177. (torna su) (389) In latino sensus significa sia ciò che concerne le sensazioni relative alla sensibilità corporea (i cinque sensi) sia la capacità di comprendere, la coscienza e l’origine dei sentimenti. (torna su) (391) Ivi pp. 271-273. (torna su) (393) Ivi pp. 407-409. (torna su) (396) Ivi pp. 455-457. (torna su) (397) Ivi pp. 509-511. (torna su) (398) Vedi nota 114 (Par. 2.4) su Giambattista Vico. (torna su) (401) Lucrezio si riferisce al morbo che ha colpito Atene dal 430 al 425 a.C., durante le guerre del Peloponneso poi descritte da Tucidite. (torna su) |