ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
|
|
|
V. Edonismo ed eudemonismo Sul terreno gnoseologico Epicuro è il pensatore a cui toccherà, in un certo senso, risolvere quelle contraddizioni che la confusione Leucippo/Democrito trascinava con sé. Lo farà conferendo coerenza all’atomismo attraverso alcune importanti innovazioni. Egli, infatti: a) ridimensiona l’importanza della “figura” degli atomi, introducendo col “peso” (331) un elemento più materiale a fondamento del moto, b) sostituisce il movimento vorticoso degli atomi (casuale in Leucippo, necessario in Democrito) con la loro caduta sulla verticale, c) perfeziona il concetto di casualità ma nello stesso tempo anche quello di autonomia, introducendo una declinazione (κλίσις) nella caduta che favorisce lo scontro tra gli atomi, ma la cui causa può essere sia esogena e sia endogena, d) riduce i processi conoscitivi esclusivamente alla sensazione, eliminando la conoscenza razionale di Democrito. Sul terreno dell’etica Epicuro sviluppa quella democritea in termini più spiccatamente sensistici ed edonistici, riallacciandosi anche a quella cirenaica (332) (colla quale è stata spessa confusa in epoca cristiana), ma “intellettualizzandola” ed eliminandone alcune rozzezze. Il piacere si radicalizza come principio eudemonistico unico del vivere (non senza derivarne qualche aspetto anche anche all’Etica Nicomachea di Aristotele) ma è un piacere assai più della mente che del corpo. Un piacere fisico-psichico temperato di intellettualità, realizzabile soprattutto attraverso l’eliminazione dello spiacevole e del turbativo, piuttosto che nella pura ricerca del godimento. Epicuro (come già Democrito) rifiuta il piacere smodato e intenso, considerato negativo in quanto transitorio, instabile e turbativo, mentre consiglia quello misurato ed equilibrato, in quanto foriero di uno stato in cui il corpo, la mente e la sensibilità personale contribuiscono ad una condizione di rilassata tranquillità, ideale per l’attività filosofica. Per comprendere adeguatamente l’evoluzione dell’ateismo antico e il suo sfociare nella teoresi epicurea occorre tenere conto del salto temporale che separa Democrito da Epicuro. Tra i due c’è quasi un secolo, e in mezzo le scuole post-socratiche, il pensiero di Platone e soprattutto quello di Aristotele, l’edonismo cirenaico, la matematica dei post-pitagorici, la medicina di Ippocrate, le ricerche naturalistiche di Teofrasto, la storiografia di Erodoto, Tucidite e Senofonte. Ma in meno di un secolo è soprattutto cambiato lo scenario politico; il mondo classico della polis è stato messo in crisi dall’espansionismo di Filippo il Macedone e suo figlio Alessandro sta per conquistare ed unificare il mondo antico verso Oriente. L’uomo greco perde via via la sua identità di cittadino integrato nella ristretta comunità della polis, diventando libero suddito di un grande impero, dove tradizioni ed usanze si diluiscono in un più vasto orizzonte. In tale clima anche la cultura filosofica assume una nuova configurazione, che rende più attuale l’atteggiamento cosmopolita e individualista che era stato di Democrito, il quale aveva in tal senso certamente precorso i tempi. La cooptazione di divinità extraelleniche allenta i legami della religione tradizionale con lo stato e si fa strada un pluralismo culturale prima sconosciuto, in cui anche l’ateismo ha modo di prendere piede. La dimensione individualistica che si va instaurando non può che allontanare le persone dalla sfera pubblica, conducendole verso la loro sfera privata; l’etica si sgancia così dalla politica, perdono validità le virtù civiche e si accentua la riflessione sulla singolarità individuale e sui problemi dell’esistenza. Tutto questo favorisce il grande successo della filosofia epicurea, che pure si sviluppa nella riservatezza della comunità chiusa del Giardino. Essa diverrà nota come una razionale e pragmatica lettura materialistica del cosmo e della natura e come base per l’instaurazione di un etica senza dèi. Essi vengono infatti trasferiti in un luogo del cosmo lontano dagli uomini e dai loro problemi, in una sorta di dorato ghetto di indifferenza e di beata apatia (333). Un operazione per certi versi quasi più blasfema dell’aperto ateismo di un Leucippo e di un Democrito, poiché degli dèi qui non si nega l’esistenza, ma li si rende inutili, antropologicamente privi di alcun significato. L’aggettivo “divino”, che Democrito usava per qualificare gli atomi sferici (più “nobili”) del fuoco e dell’anima, viene assunto dal linguaggio filosofico epicureo per qualificare dei “modelli” di felicità e non per indicare essenze dalle quali attendersi qualcosa, sia nel male che nel bene. Epicuro nasce nel 342 a. C. in un zona periferica dell’Ellade; assimila attraverso buoni maestri indirizzi filosofici differenti e per alcuni versi antitetici (il platonismo e l’atomismo), a 32 anni incomincia a insegnare la “sua” filosofia, che è uno sviluppo di quella di Democrito. Vi è qualche apporto dei Cinici sul piano dell'“autarchia” individuale, ma dove la provocatoria “naturalezza” di un Diogene, liberata dai bisogni imposti dalle convenzioni sociali (ed in quanto tale “contro” la società) viene fusa con l’edonismo cirenaico dando luogo a una ricerca del piacere intimo, che non si oppone alla società ma le diventa estraneo. La vita pubblica, con le sue tensioni e le sue polemiche, viene espunta dalla sfera individuale, venendo invece privilegiata la ricerca e la riflessione, col fine ultimo di conseguire l’aponìa, poiché l’assenza di dolore è già in se stessa la miglior forma di piacere stabile. La sfera del “pubblico” diventa così una realtà da evitare per i suoi effetti perniciosi sulla riflessione filosofica e quale impedimento peril raggiungimento della felicità. Quando Epicuro giunge ad Atene prende dimora in un sobborgo di periferia, in una casa circondata da un grande orto e prossima all’aperta campagna e questa casa in mezzo al verde diventerà il Giardino, un luogo silenzioso e confortevole, dove il maestro coi suoi allievi (in realtà un gruppo di amici) si incontra per rilassarsi, per riflettere e per conversare. L’epicureismo gode verso la fine del IV secolo a.C. di un contesto sociologico e culturale indubbiamente favorevole; la filosofia di Epicuro si diffonderà in seguito soprattutto verso Occidente, permeando (insieme allo stoicismo) la cultura romana; ciò fino all’irrompere del Cristianesimo e al suo successivo instaurarsi quale religione di stato. E tuttavia esso non verrà mai annullato, arrivando a lambire persino la trionfante teologia cristiana e ad insinuarsi tra le sue pieghe, e non sempre soltanto come esempio biasimevole di perversione e sregolatezza (334), vi sono anzi giudizi decisamente favorevoli (335). I frequentatori del giardino sono una sorta di aristocrazia intellettuale e nello stesso tempo un esempio estremo di democrazia d’estrazione; esso infatti è aperto anche alle donne e agli schiavi, due categorie che per ragioni diverse erano state escluse dalla cultura classica. Ma Epicuro non era personaggio esente da pecche: dalle discussioni del giardino (336) era esclusa ogni altra filosofia che non fosse la sua; pur dovendo molto a Democrito egli negava di aver ripreso il suo pensiero (parrebbe arrivando persino a definirlo “giudice di chiacchiere”), instaurando infine tra i suoi allievi un vero e proprio culto della personalità. Diogene Laerzio ci rende una biografia di Epicuro sostanzialmente encomiastica, ma nella quale (per dovere di cronaca) riporta una serie piuttosto lunga di maldicenze e diffamazioni sul suo conto. Il suo carattere (pareva facile all’insulto e alla derisione) non risulterebbe tale da essersi attirato molta simpatia, ad eccezione di quella dei suoi discepoli, che rasentava spesso la devozione. Sembrerebbero però, queste diffamazioni, perlopiù dovute ad un sostanziale fraintendimento della sua filosofia, che presentandosi come fondata sul piacere non poteva che generare diffidenza, soprattutto tra i postplatonici e gli stoici. Vale la pena comunque di citare qualcuno di questi fenomeni diffamatori, perché potrebbero essere all’origine, o almeno concause, di atteggiamenti e scritti di Epicuro il cui contenuto è volto soprattutto a difendersi dagli attacchi al suo pensiero e alla sua vita privata (337). Scrive Diogene:
Per precisare subito:
Fino ad una piuttosto improbabile religiosità unita all’amor di patria: (340)
E ad un’invece più probabile sobrietà e frugalità unita ad amicale socievolezza:
E relativamente alla sua formazione culturale:
Quella di negare sistematicamente ogni debito verso i pensatori precedenti è una vera e propria strategia di Epicuro, che in ogni occasione tende a valorizzare se stesso e a sottolineare l’originalità del suo pensiero. In questa prospettiva (a meno che si tratti di pura disinformazione) va anche posta la negazione dell’esistenza di Leucippo. Infatti, pur ammettendo di malavoglia “qualche” debito verso Democrito, egli potrebbe aver cercato di “eliminare” letteralmente Leucippo (da cui Democrito ha tratto praticamente quasi tutta la sua fisica) e “giocarsela” soltanto con l’Abderita sull’attribuzione dell’originalità delle proposte atomistiche. Diogene Laerzio ci ha anche tramandato, fortunatamente, alcuni documenti originali di Epicuro che ci permettono di accedere direttamente al suo pensiero: tre Epistole, le Massime capitali e il Testamento (344). Cominceremo con l’Epistola ad Erodoto, una sorta di compendio della fisica di Epicuro, destinato a coloro che non hanno la possibilità di studiarne a fondo la dottrina della natura. Ne riporteremo i passaggi principali, ovvero quelli che presentano delle varianti significative rispetto all’atomismo di Democrito, accompagnandoli con un breve commento o una nota a piè di pagina quando opportuno:
Come avevamo anticipato, nel riprendere Democrito, Epicuro pone in sottordine la conoscenza basata sul ragionamento (secondaria) e si affida a quella fornita dai sensi (primaria). E precisa appunto che la sensazione è il “necessario punto di partenza” di ogni inferenza della ragione. In ciò si coglie il pragmatismo e l’empirismo di Epicuro, che vuole eliminare ogni fonte di equivoco relativamente alle nostre possibilità cognitive. Ma questa sua posizione riprende anche quella dei Cirenaici, che consideravano le sensazioni le uniche fonti di conoscenza. Epicuro passa poi ad alcune precisazioni che riprendono l’atomismo di Democrito nel sottolineare che gli atomi rimangono immutati nella dissoluzione dei loro composti. Essi, infatti, si muovono incessantemente ed eternamente nel vuoto e non vengono percepiti dai nostri sensi che sono attivi soltanto nei confronti delle sostanze composte. Dopo averci detto che i mondi sono infiniti (ma già lo sosteneva Leucippo) Epicuro riprende la teoria degli èidola democritei, con qualche interessante precisazione:
Viene poi introdotta la “vibrazione” all’interno dell’atomo, grazie alla quale gli èidola che partono dall’oggetto ne conservano l’esatta forma:
L’èidolon dice sempre il “vero” dell’oggetto da cui parte, ma è la nostra mente che può distorcere i contenuti del messaggio:
Si ha qui l’impressione che Epicuro, dopo aver messo fuori dalla porta la conoscenza razionale (o autentica) di Democrito, la faccia poi rientrare dalla finestra, poiché ci pare che possa essere solo la ragione a farci evitare quel “movimento” improprio che distorce l’immagine e che per contro può effettuare la “conferma” del messaggio che ci è pervenuto dagli èidola. Per quanto riguarda l’udito e l’olfatto sono sempre i flussi eidolici a determinare la sensazione, ed essi viaggiano come suoni e come odori. Occupiamoci ora delle proprietà degli atomi e facciamo un passo indietro al paragrafo (43) dove Epicuro, certamente a conoscenza della Metafisica di Aristotele nella quale veniva rimproverato agli Atomisti di non aver chiarito la natura del moto degli atomi, prova a perfezionare la teorizzazione leucippeo-democritea. Troviamo così l’introduzione del concetto di un declinazione (in greco κλισις, tradotto poi da Lucrezio con clinamen) nella traiettoria degli atomi:
Epicuro ci dice che alcuni atomi “declinano” spontaneamente, ma alcuni paragrafi più in là riprende l’argomento introducendo invece un elemento accidentale ed esterno, che chiama prima “ostacolo” e poi solamente “intoppo”:
Nel vuoto il moto verticale degli atomi è completamente libero; che cos’è dunque che può produrre resistenza o impedimento sì da “deviare” tale moto? Epicuro non lo precisa. Ciò che se ne deduce è che la caduta in verticale degli atomi può, a causa di “qualcosa” di indefinito, subire una deviazione di traiettoria. Ma a mutare la traiettoria non può essere che un elemento “casuale” presente nel vuoto, che viene a trovarsi o che si pone sulla traiettoria dell’atomo. All’urto segue un “rimbalzo”, contro cui il peso dell’atomo farebbe opposizione. L’urto avviene quindi con un oggetto esterno e casuale, ma pare che ad esso segua una sorta di “opposizione” interna; se ne deduce che: la declinazione avviene a) spontaneamente, oppure b) perché la traiettoria è deviata da un ostacolo incontrato nella caduta, ma in questo caso il peso dell’atomo “si oppone alla deviazione”. Abbiamo quindi due cause del clinamen, la seconda, esogena e casuale, a cui si oppone il peso dell’atomo e la prima in cui l’atomo “spontaneamente” devia dalla propria traiettoria. Ma questo farebbe pensare che l’atomo possegga una specie di libertà di deviare il proprio percorso, concetto peraltro non esplicitato, ma che farebbe pensare a quanto già Democrito aveva espresso come “automatismo” interno all’atomo (però non libero ma necessitato). Il concetto di questa supposta libertà verrà ripreso e tematizzato da Lucrezio nel De rerum natura (II, 252) trasferendo poeticamente il comportamento dell’atomo a quello dell’uomo, con un’operazione analogica di sicuro effetto lirico, ma di cui non può sfuggire l’arbitrarietà. L’epistola ad Erodoto prosegue trattando dell’anima e sostanzialmente ancora sulla linea di Democrito, ma con la preoccupazione di legarla indissolubilmente al corpo e fugare quindi ogni ipotesi sulla sua trascendenza rispetto ad esso:
Le sensazioni sono pertanto la fonte di ogni conoscenza e possono darsi all’uomo solo grazie all’anima, che è anche all’origine delle emozioni e dei sentimenti. Ma essa è fatta di materia ed è tutt’uno col corpo, in una sorta di sinergia per cui le sue funzioni vivificano il corpo e nello stesso tempo ne sono dipendenti, infatti:
Quindi non è l’anima che vivifica il corpo, ma è il corpo che vivendo rende possibile il funzionamento dell’anima. Per Epicuro non solo l’anima non è immortale (come pensava Platone), ma non è neppure principio e fonte di vita per il corpo. D’altra parte, nulla di incorporeo esiste, se non il vuoto:
Da qui il giudizio inappellabile sui seguaci di Platone:
Come l’anima non esiste senza un corpo di riferimento, così le qualità essenziali di un corpo (forma, colore, dimensione, peso, ecc.) sono pensabili soltanto come inerenti ad esso (355), pur esistendo anche altre qualità puramente contingenti e definite per convenzione. Come pure è convenzionale la nozione di “tempo” in quanto mezzo “di misura”:
I mondi hanno origine nell’infinito e sono di forma diversa, così come diverse, ma non infinite, sono le forme delle cose che li costituiscono. Ma ogni mondo possiede una forma determinata, come determinata è la “natura” che genera gli esseri viventi e che si evolve “apprendendo” dalle circostanze. Così è accaduto che una sua parte, la ragione dell’uomo, abbia in seguito appreso e sviluppato le conoscenze primarie. Infatti:
Questa integrazione dell’uomo nella natura da cui deriva è estremamente importante, perché determina una definizione della genesi del linguaggio a partire dalla natura stessa:
Mentre Democrito privilegiava l’aspetto “convenzionale” del linguaggio Epicuro ne accentua invece l’origine “naturale”, integrando, sia il linguaggio sia l’animale che lo ha creato e lo utilizza, con la natura stessa. Secondo Epicuro un “qualcuno” (Dio o Primo Motore) che regolasse i movimenti degli astri ne sarebbe in qualche modo dipendente e ciò non si accorderebbe con la beatitudine che conviene a un dio, perciò il modo d’essere e di muoversi di essi dipende esclusivamente “dal modo in cui essi si originarono”. Ma neppure essi stessi sono dèi, proprio in quanto il loro movimento contrasterebbe col loro status divino. Opponendo così a una spiegazione causale di tipo teologico una spiegazione naturale e razionale il Nostro fissa un criterio estremamente importante rispetto al monismo di una causa divina o ad una divinità degli astri stessi, quello della pluralità delle cause naturali:
Quindi l’approccio pluralistico alla realtà garantisce non soltanto la correttezza delle tesi cosmologiche, ma anche la condizione etica della tranquillità di chi sa di esser nel giusto. Infatti:
L’epistola ad Erodoto si chiude con una esortazione ad attenersi sempre alla sensazione, quale principio conoscitivo fondamentale, nei termini seguenti:
L’Epistola a Pitocle inizia con una ripresa del principio della pluralità delle cause, ma essa tratta poi quasi esclusivamente dei fenomeni del cielo e dell’atmosfera considerati sotto i loro molteplici aspetti (astri, nuvole, tuoni, lampi, terremoti, ecc.) e quindi non riveste particolare interesse per la nostra ricerca. Riporteremo tuttavia la chiusa, nella quale Epicuro muove l’esortazione che segue:
Passiamo ora all’Epistola a Meneceo, in cui Epicuro ci consegna il nucleo centrale della sua etica, quella che, secondo un termine ormai in uso, delinea il “quadrifarmaco”, ovvero quella sorta di terapia contro il male di vivere, contro i dolori e i turbamenti irrazionali, che permette il raggiungimento del piacere di vivere e della felicità spirituale. Questo eudemonismo radicale si esprime in quattro punti principali: a) Liberazione dal timore degli dèi, che per la loro natura non si occupano degli uomini, b) Liberazione dalla paura della morte, c) Acquisizione della consapevolezza che la felicità è facilmente raggiungibile, d) Apprendimento del modo corretto di sopportare il dolore, che è quasi sempre passeggero e comunque meno temibile di quanto si pensi. (365) Essa si apre così.
L’esortazione determina un rapporto indissolubile tra filosofia e felicità; questa va conseguita in ogni fase dell’esistenza e quindi non esiste un’età privilegiata per filosofare. Per il giovane filosofare significa maturare ed allontanare ogni timore per il suo futuro, per il vecchio significa mantenersi giovane ed essere soddisfatto di aver vissuto. Poiché solo la filosofia procura felicità, che è il massimo bene a cui aspira l’uomo. La frase successiva precisa:
Il passo si presenta come una grande metafora filosofica, nella quale è dato cogliere i principi fondamentali dell’etica epicurea attraverso i vari passaggi che la compongono. Nella prima frase citata si afferma che la divinità va considerata “come” un essere vivente, immortale e felice, in accordo con la “nozione” che la natura ha “impresso”, soprattutto “non attribuendole” niente di discordante con l’immortalità e la beatitudine. Ma l’immortalità è degli atomi, che sono alla base di tutto ciò che esiste, mentre la beatitudine è l’apice della felicità a cui ogni uomo idealmente tende; quindi queste entità divine sono dei “modelli” filosofici ed assiologici di riferimento e non essenze dotate di divinità “reale”; per di più esse risultano comunque estranee all’uomo nel loro status di immortalità e isolata beatitudine. La frase «Perché gli dèi esistono: evidente è infatti la loro conoscenza.» acquista infatti un senso compiuto soltanto se l’“evidenza” viene riferita alla pregnanza dei principi etici di cui gli dèi sono investiti e dei quali sono soltanto “forma” linguistica. Epicuro è infatti consapevole che “immortalità” e “beatitudine”, in quanto principi astratti e fuori della portata dell’uomo (ma nello stesso tempo immaginati come reali) debbono ricevere un’investitura reale, ancorché puramente simbolica. Gli dèi sono pertanto “simboli” di un’umanità ideale a cui tendere attraverso la filosofia, tale da determinare un’altrettanto simbolica “assenza di morte” nell’orizzonte dell’uomo. Sul piano reale del vissuto vi corrisponde l’aponìa, che predispone alla meditazione filosofica e rende possibile la felicità che ne è suo compimento. Il fatto che gli dèi non esistano nella forma in cui “li concepisce il volgo” conferma questa tesi, poiché gli dèi ufficiali della mitologia greca per loro natura sono eminentemente “come li concepisce il volgo”, vale a dire coinvolti nell’umanità che non si dà la pena di pensarli ”filosoficamente”. Allora essi diventano come li si vuole, differendo solo per rango dall’uomo comune e presentandosi come entità che possono esser blandite con devozione ed offerte, al fine di ottenere da essi favore o protezione. Infatti «i giudizi del volgo a proposito degli dèi non dono prenozioni ma false supposizioni. Perciò a causa di esse si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefici.» E’ difficile scorgere condanna più radicale di tutta la religione greca dopo quella di Senofane, ma Epicuro è riuscito a porla in modo da non incorrere in una censura troppo severa, avendo egli asserito preliminarmente e con forza la “realtà” degli dèi. Ma non solo gli dèi “del volgo”, ovvero quelli della tradizione, sono “fuori” dalle prenozioni (dalle prolessi) che anticipano la conoscenza vera, che è quella conseguibile con la filosofia, perciò la frase finale corona emblematicamente (ed anche astutamente) la tesi soggiacente a tutto il periodo. Infatti, non avendo gli dèi che “intimità con le proprie virtù” (con le quali si identificano) essi possono “accogliere” soltanto l’attenzione dei loro simili (ovvero di quelli che filosofano), considerando estraneo chi non è conforme alla loro natura (cioè quelli che considerano gli dèi essenze “realmente” interessate agli uomini e alle loro vicende). Questa frase perderebbe ovviamente ogni senso qualora non la si connettesse alla premessa epicurea che gli dèi sono estranei alla vita degli uomini e che sono collocati in un intermondo privo di alcun rapporto col mondo umano. (367) Epicuro passa poi a parlare della morte, un altro elemento topico della sua filosofia, affermando che “niente è per noi la morte”, infatti:
Infatti immortali sono soltanto gli atomi che ci costituiscono e che costituiscono la natura di cui facciamo parte, la quale, attraverso le prolessi, ci permette di intuire le cose del mondo e i principi gnoseologici ed etici che lo concernono. Chiude questo passo la frase famosa:
Si noti che, qui come altrove, il termine “volgo” va contrapposto a “saggio” e non riferito all’estrazione sociale (che come sappiamo per Epicuro era priva d’importanza), ma piuttosto alla categoria di coloro che non perseguono la saggezza, ovvero non coltivano la filosofia (per questa ragione altre traduzioni sostituiscono il termine con la perifrasi “la maggior parte”). (370) Segue un rimprovero verso coloro che non amano la vita e si rammaricano di essere nati, ai quali chiede per quale ragione, coerentemente, non si suicidino. Occorre poi sapere che il nostro futuro non dipende dalla nostra volontà, ma nello stesso tempo non ci è del tutto indipendente: in altre parole (come traduce il Bignone) “non è né nostro né interamente non nostro”. (371) Viene poi affrontato il problema del desiderio, assolutamente centrale nell’etica di Epicuro, e che è espresso in modo straordinario nella sua lapidarietà da una frase a lui attribuita riportata da Giovanni Stobeo (Florilegium, III, 17, 23, p. 495 Hense): «Se vuoi far ricco qualcuno, non aggiungere niente ai suoi beni, ma detrai qualcosa ai suoi desideri». Poiché i desideri sono solo in parte naturali e perlopiù invece vani (e quindi negativi), essi vanno scelti o rifiutati in base ad una previa valutazione della loro natura:
Non si può non cogliere un interessante rapporto della filosofia epicurea col Buddhismo. Qui come là (ma in modo più radicale in questo) viene incriminato il desiderio vano, come sicura fonte di sofferenza, che allontana l’uomo dall’aponia (e in definitiva dall’eudaimonia) per Epicuro e dal nirvana per il Buddha. Dopo aver poi ribadito che «il piacere è principio e fine della felicità», ma che «non tutti i piaceri sono da ricercarsi, così come non ogni dolore è da rifuggirsi» Epicuro ci dice che bisogna sempre valutare attentamente “vantaggi e svantaggi”. Segue allora un altro aspetto fondamentale della sua etica, cioè l’autosufficienza (di derivazione cinica e cirenaica), che è fondamentalmente l’indipendenza dai desideri e dai beni non indispensabili:
Ritorna il concetto di “naturalezza”, di sintonia con la natura: che è insieme frugalità e “misura”. Con ciò Epicuro coglie l’occasione per fugare le maldicenze che avvolgono il suo pensiero:
Da ciò l’elogio della phrónesis (saggezza e prudenza), che è addirittura più importante (in quanto più basilare) della filosofia, in quanto da essa derivano tutte le altre virtù. Epicuro riassume poi i punti principali della sua esposizione (l’atteggiamento verso gli dèi, quello di fronte alla morte, quello delle aspirazioni “secondo natura”, quello del perseguimento della felicità) per stigmatizzare coloro che ritengono che tutto accada “per necessità” ed è evidente con ciò che si riferisce principalmente agli Stoici, ma non meno a Democrito, che come abbiamo visto aveva indebolito la “casualità” leucippea a favore di un maggior necessitarismo nel moto degli atomi, come si evince dalla frase seguente (375):
Epicuro è così preoccupato di difendere la libertà, e con essa la speranza di poter incidere sul proprio destino, che non esita a preferire al necessitarismo persino quella “religione del volgo” contro la quale si era scagliato in precedenza. Prima della frase di esortazione finale e commiato perciò egli fa da ultimo l’elogio della ragione, che sempre deve guidare i nostri atti, contro l’affidamento alla fortuna, della quale il saggio non deve mai tenere conto:
A completamento di questa esposizione dell’etica epicurea riporteremo alcune delle 40 Massime Capitali e qualche altra del Gnomologio Vaticano (81 in tutto, ma parecchie corrispondono a Massime capitali); si tratta di quelle che ci pare aggiungano qualcosa o completino i temi trattati dall’Epistola a Meneceo. Cominciamo con le prime (378):
Ed ora alcune massime dal Gnomologio Vaticano:
La preoccupazione che il Giardino continui a vivere come scuola di filosofia e di vita è in queste poche parole del suo Testamento:
(331) Si ricordi che già Leucippo aveva teorizzato il peso come causa di stratificazione nel vuoto degli atomi, non però come causa del movimento. (torna su) (332) Epicuro riprende certamente l’etica di Aristippo di Cirene nell’assunzione del piacere come fine ultimo della vita. Ne differisce in quanto l’edonismo cirenaico era di tipo dinamico, mentre Epicuro teorizza un piacere di tipo statico. Per Epicuro il fatto stesso dell’assenza di dolore (aponia) è già una condizione di piacere. A questa si affianca l’assenza di turbamento, l’atarassia, che nell’epicureismo successivo acquisterà sempre più importanza, diventando prevalente rispetto all’aponia. (torna su) (333) Vittorio Enzo Alfieri ha messo a confronto Democrito ed Epicuro sul problema della divinità, rilevando che mentre il primo adotta un punto di partenza gnoseologico il secondo si baserebbe su esigenze logico-metafisiche relative al suo ideale etico (Il concetto del divino in Democrito ed Epicuro in Studi di filosofia greca a cura di V. E. Alfieri e M. Untersteiner, Laterza 1950, pp. 87-120). (torna su) (334) Nota il Bignone: «Chi passi dalla lettura di alcuni frammenti, pur così scarni, delle lettere di Epicuro alle Confessioni di S. Agostino, o alle epistole e ai trattati di S. Giovanni Crisostomo, di S. Basilio o di Gregorio Nisseno, s’accorge che l’epicureismo fu il tramite, per cui l’antichità mosse a condizioni di spirito che il Cristianesimo sembra aver tratte dal proprio fondo.» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol. II, p. 223) e più avanti:«Quando S. Agostino, negli anni più agitati della sua giovinezza, meditava di ritirarsi dal mondo coi suoi amici, in un asilo lontano, ove vivere tra la campagna e gli studi […] non faceva che rinnovare l’ideale stato del saggio epicureo […] (Confess., VI, 26)». (Ivi p. 235) (torna su) (335) Lattanzio (Divinae Institutiones, III, 7, 7) nota: «Epicuro ritiene che il sommo bene consista nel piacere dell’animo, Aristippo in quello del corpo.» (in G. Giannantoni, I Cirenaici, Sansoni 1958, p. 324). (torna su) (336) Scrive a questo proposito Howard Jones: «La scuola aveva un’organizzazione di tipo gerarchico, dove il ruolo di guida (hegemon) aspettava a Epicuro, il solo a fregiarsi del titolo di “sapiente”. Ci si sottometteva alla sua autorità prestando solenne giuramento. Gli altri membri, chiamati philosophoi, potevano ricoprire le cariche di maestro (kathergemon) come Metrodoro, sostituto di Epicuro, e Polieno; di precettori (kathegetes) come Ermaco, il primo successore di Epicuro; e di discepoli (kataskeuazomenoi).» (in La tradizione epicurea, ECIG 1999, p. 32. (torna su) (337) È quanto sostenuto da Ettore Bignone (uno dei maggiori studiosi di Epicuro) il quale vede, a cominciare dalla precipitosa e drammatica fuga da Mitilene (accusato di corrompere i giovani), un calvario esistenziale costellato da accuse di empietà e di dissolutezza che avrebbe portato il Nostro a una costante difesa del suo pensiero attraverso chiarimenti o vere e proprie sistemazioni concettuali. Secondo questo studioso Epicuro avrebbe impiegato buona parte del suo tempo e delle sue energie intellettuali per mettersi al riparo, per quanto possibile, dai problemi provocati dagli attacchi dei suoi detrattori (soprattutto i seguaci di Platone e Aristotele, e più tardi gli Stoici) che mettevano in difficoltà la stessa permanenza della sua scuola. Ciò spiegherebbe anche, in qualche fase, le sue esortazioni agli allievi a rispettare gli dèi proprio per allontanare da sé l’accusa di ateismo. (torna su) (338) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza 1983, vol. II, pp. 401-402 passim. (torna su) (340) Nota il Bignone: «[…] Timocrate, come vedremo, accusava Epicuro anche di ateismo. […] Non bisogna infatti dimenticare quanto fosse pericoloso per un filosofo in quel tempo cadere sotto un accusa di empietà» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol. I., pp. 475-476). (torna su) (341) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza 1983, vol. II, p. 403. (torna su) (344) A questi documenti va aggiunto il Gnomologio Vaticano (o Sentenze Vaticane). Questo gruppo di massime coincide in parte con le Massime Capitali e sono relative ad un manoscritto scoperto nel 1888 nella Biblioteca Vaticana da H. Wotke e H. Usener. A completamento del quadro complessivo della documentazione su Epicuro va precisato che esistono anche meno importanti frammenti di lettere e di passi di opere perdute. A questi vanno aggiunti gli scritti, le note e i giudizi di autori romani come Cicerone, Plinio, Plutarco, Sesto Empirico, ecc. (torna su) (345) Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L. Giancola), Armando 1998, pp. 78-79. (torna su) (346) Ivi pp. 81-83 passim. (torna su) (348) Epicuro, Opere (a cura di E. Bignone), Laterza 1984, p. 45. (torna su) (350) Impossibile non cogliere qui un forte elemento di polemica nei confronti di Platone, il quale, nel Fedro (245 c e seguenti) aveva esplicitamente affermato: «L’anima è immortale; perché ciò che sempre si muove è immortale. Ora, ciò che provoca movimento in altro ed è mosso esso stesso da qualcos’altro [il corpo], se subisce un arresto di movimento, smette di vivere. Solo dunque ciò che muove se stesso, in quanto non può abbandonare se stesso, mai cessa di essere in moto, anzi è scaturigine e principio di moto di tutte le cose che sono mosse. Ora, il principio non è generato perché, mentre ogni cosa che nasce deve per forza nascere da un principio, questo invece non deve esser generato da niente: se altrimenti il principio procedesse da qualcosa, cesserebbe di esser ancora il principio». (torna su) (351) Epicuro, Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L. Giancola), Armando Editore 1998, p. 89. (torna su) (355) Nota Domenico Pesce nel suo Epicuro (Laterza 1980, p. 43): «Per ottenere il suo scopo [garantire la validità oggettiva della sensazione] Epicuro si vale della dottrina delle categorie (ad Her 68-71) in cui di solito si ravvisa l’influsso di Aristotele ma che risulta, nella sua costituzione, lontanissima da Aristotele. Punto di partenza (ad Her 39-40) è l’affermazione veramente capitale che il tutto è costituito di corpi e di vuoto e che su questo stesso livello ontologico, che noi diremmo aristotelicamente della sostanza, ma che Epicuro designa come quello delle “nature compiute”, nient’altro è non soltanto esistente ma addirittura concepibile.» (torna su) (356) Il concetto di anticipazione o prolessi (πρόληψις) è comune anche alla logica stoica. Le anticipazioni sono quei concetti generali presenti nella mente mediante il quale vengono anticipati i dati dell’esperienza. (torna su) (357) Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L. Giancola), Armando Editore 1998, p. 92. (torna su) (362) Ivi pp. 95-96. (torna su) (363) Secondo Domenico Pesce (Introduzione a Epicuro, Laterza 1981, pp. 62-63) nell’Epistola ad Erodoto e nell’Epistola a Pitocle vi è da parte di Epicuro la messa a punto di una dottrina dei principi che si articola in sette punti: 1) Non c’è nascita dal niente né morte nel niente; donde segue che tutto è immutabile. 2) Il tutto è costituito di corpi e di vuoto. 3) I corpi sono o composti o semplici; questi ultimi sono gli atomi. 4) Il tutto è infinito; infinito è il numero degli atomi ed infinita è l’estensione del vuoto. 5) Le figure atomiche sono di numero inconcepibile, ma non infinito. 6) Il movimento degli atomi è eterno, essendo causato dal peso e dal vuoto. 7) Gli atomi differiscono per grandezza, figura e peso. (torna su) (364) Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L. Giancola), Armando Editore 1998, p. 108. (torna su) (365) Del quadrifarmaco questo è certamente il punto meno convincente, ma va detto che Epicuro lo ha sempre difeso (vedi la IV massima capitale) e che Diogene Laerzio ricorda le seguenti su affermazioni in una lettera scritta ad Idomeneo in punto di morte: «Volgeva per me il giorno supremo e pur felice della mia vita, quando questo ti scrivevo. Tali erano i miei mali dei visceri e della vescica, che non comportavano eccesso di violenza. Pure ad essi tutti s’adeguava sempre la gioia dell’animo, nel ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici.» (Epicuro, Opere (a cura di E. Bignone), Laterza 1984, pp. 122-123). (torna su) (367) Va tuttavia rilevato che questa nostra lettura, aderente al giudizio prevalente sulla filosofia epicurea, non è condiviso da alcuni. Ad esempio, Domenico Pesce scrive: « […] a dispetto della stretta connessione che una mente moderna è portata a porre tra materialismo ed ateismo, nessuno dubita più della genuinità del sentimento religioso di Epicuro e della serietà del suo pensiero teologico. Vero è che questo sentimento e questo pensiero, proprio perché non debbono contrastare con le premesse del sistema, riescono alquanto singolare l’uno e paradossale l’altro, di modo che la teologia epicurea costituisce un unicum nella storia della filosofia.» (D. Pesce (Introduzione a Epicuro, Laterza 1981, pp. 87-88). Opinione che a noi pare un po’ contorta, poiché, se la filosofia epicurea è un innegabile struttura di grande coerenza filosofica, non si vede per quale ragione dovrebbe diventare un unicum di incoerenza per difendere una supposta “serietà del suo pensiero teologico”. (torna su) (368) Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L. Giancola), Armando 1998, p. 110. (torna su) (369) Ivi pp. 110-111. (torna su) (370) È questo il caso della prestigiosa traduzione del Bignone (Epicuro, Opere, Laterza 1984, p. 32). (torna su) (372) Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro, Armando Editore 1998, p. 111. (torna su) (374) Ivi. pp. 112-113 (torna su) (375) Molti hanno visto in questa frase il motivo di fondo per l’introduzione della klisis (= latino clinamen) e cioè quello di difendere (analogicamente) la libertà dell’uomo nel determinare la propria vita. Secondo questa tesi, non solo Lucrezio avrebbe interpretato correttamente il pensiero di Epicuro, ma la klisis assumerebbe proprio una valenza etica e non fisica, come parrebbe logico pensare. Vedi anche il saggio La dottrina epicurea del “clinamen” di Ettore Bignone in L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol. II, La Nuova Italia 1973, pp. 409-456. (torna su) (376) Ivi pp. 113-114. (torna su) (378) Ivi pp. 115-123 passim. (torna su) (379) Epicuro, Opere (a cura di E. Bignone), Laterza 1984, p. 79. (torna su) |