Il concetto di "dio" nella filosofia greca

ATEISMO FILOSOFICO NEL MONDO ANTICO
Religione, naturalismo e scienza. La nascita della filosofia atea


II. Politeismo e monoteismo
2.3 Il concetto di "dio" nella filosofia greca

La nascita del “concetto di Dio” nella filosofia non va confuso col “senso del divino”, che è alla base del sentimento religioso, indipendentemente dal significato che ad esso si intenda dare. Il “senso del divino” nasce dalla non-conoscenza del reale e dal percepimento di forze e aspetti della natura che eccedono il controllo umano, i quali rivelano quei caratteri di “forza” e “potenza”, che sono i corrispettivi di ciò che viene posto come “divino” (77).

Un fenomeno reattivo irrazionale, quindi, ovvero il bisogno esistenziale di un approccio pre-cognitivo ad un ignoto “potente” e “incombente” con cui bisogna intrattenere un rapporto pragmatico. Potenze di cui (realisticamente o illusoriamente) si avverte o si percepisce la presenza (e ciò indipendentemente dal fatto che tale “senso” venga considerato innato o culturalmente indotto).

Il concetto di Dio nella filosofia (e sono numerose le assonanze tra cultura greca, indiana e cinese) è anch’esso un fatto reattivo, ma invece razionale, e non già di carattere intellettivo-pragmatico, bensì speculativo. In altre parole, se la nascita del senso del divino sta all’origine del pensiero religioso, in quanto effetto dell’esigenza psichica di rapportarsi sul terreno esistenziale ad una potenza ignota che si manifesta “qui ed ora” e con cui bisogna rapportarsi, la nascita del concetto di Dio nella filosofia è anch’esso l’effetto di una causa, ma non già di carattere pratico-esistenziale, bensì astratto-teoretico.

Questa causa sta principalmente nel disagio intellettuale di fronte ad aspetti casuali e caotici del reale, che si tratta di ricondurre all’ordine di un mondo che “deve” essere intelligibile, omogeneo ed unitario. In altre parole, il compito della filosofia tradizionale è quello di fornire spiegazioni razionali in presenza di realtà non-razionali e di pervenire a risposte metafisiche (ultra-fisiche) alle domande poste dal percepimento del “caos” in rapporto al pre-concetto di “ordine”.

In realtà il concetto di caos è quanto di più astratto di possa immaginare, almeno quanto quello di “ordine”. Entrambi i concetti paiono avere una base meramente psicologica, che genera una connotazione razionalistico-strumentale, utile nella lettura della realtà, ma a questa sostanzialmente estranea. Intendiamo dire che la realtà è caotica ed ordinata insieme a seconda del parametro assunto per definirla. Caos e ordine trapassano l’uno nell’altro e sono, nel contempo, pure determinazioni psicologiche e puri strumenti intellettivi coi quali interpretare, spiegare e classificare i vari aspetti dell’universo, che ci appaiono alternativamente ordinati o caotici, deterministi o indeterminati, necessitati o casuali.

E tuttavia sembra non improbabile che sia proprio a partire dall’ipostasi metafisica di caos che sia nato un principio metafisico che vi si opponga e l’annulli: quello di “ordine divino”. Dove l’ordine è l’essenza ideale di tutto ciò che è “perfezione del mondo” o “causa del mondo”, poiché il mondo e la realtà percepibile che ci fonda e ci concerne e in rapporto al quale noi “ci percepiamo” come entità reali inserite in un contesto di realtà più vasta che ci comprende.

Ma di questa realtà onnicomprensiva, che ci circonda e ci condiziona, e con cui dobbiamo quindi confrontarci in qualche modo (sia che la si ponga in termini irrazionali, religiosamente, o invece razionali, filosoficamente), non possiamo esimerci dall’elaborare una qualche spiegazione. Ciò che però generalmente ci sfugge è che quello di caos non è concetto unitario bensì bicipite, infatti la parola indica per un verso il nulla che precede un “tutto” (accezione più antica) e per altro verso un tutto pluralistico e disordinato (accezione moderna).

Il concetto filosofico di Dio è pertanto chiamato ad assumere ad un tempo una doppia funzione: quella di creare un mondo e quella di conferirgli ordine. Funzioni le quali, unite o separate, sono riscontrabili in tutta la speculazione filosofica di ogni tempo e di ogni luogo del mondo antico, ma anche nei miti di un mondo contemporaneo arcaico pre-filosofico o a-filosofico (e che ancora oggi si offre alla nostra indagine), dove la religione divora sul nascere ogni filosofia e ogni scienza, annullandole o rendendole inutili.

Se pure nel mondo greco, tra il VII e il VI secolo a.C., vi sono stati tentativi, con Talete, Anassimandro, Anassimene ed Eraclito, di trovare nel mondo materiale (ma nel caso di Eraclito con caratteri metafisico-mistici) un metonimico principio primo del tutto, come parte generatrice dell’insieme, è con Senofane che si delinea in modo netto lo spostamento del principio unico verso il divino. Il concetto di un Dio unico e astratto, che Senofane (oppositore del politeismo antropomorfo) introduce nel pensiero greco, è un’entità metafisica unica e totalizzante, ingenerata, perfetta e immutabile, principio e causa del tutto. La ben nota polemica di Senofane contro la pluralità degli dèi (78) costituisce il nucleo primario di tutti i concetti di divinità unica e trascendentale fioriti nella posteriore filosofia occidentale.

Pressappoco nella stessa epoca, in India, le Upanishad proponevano una visione del mondo panenteistica che poneva il brahman come unità e totalità dell’essere del mondo, più o meno coincidente con l’ātman, inteso come anima del mondo. Queste concezioni sfoceranno più tardi, intorno al 300.a.C., nel sistema Vedānta, col quale l’identità brahman-ātman verrà sancita in modo definitivo. Il brahman-ātman della filosofia vedantica verrà nell’VIII secolo radicalizzato col monismo acosmistico di Shankāra (79) (e ripreso più tardi in senso monoteistico dal vishnuita Rāmānuja) (80).

Va comunque notato che il concetto di brahman era già presente, sia pure come concetto vago, fin dall’epoca vedica (e quindi precedente la nascita della filosofia greca). È solo più tardi però che esso viene via via affermandosi fino a diventare elemento assolutamente dominante di tutta la filosofia indiana (essendo in seguito, nell’Induismo più recente, assorbito nelle personificazioni di Shiva e di Vishnu). Il brāhman-ātman (l“uno-tutto” vedāntico) presenta anche qualche analogia con l’essere parmenideo, come pure una decisa assonanza col Dio neoplatonico, nonché, molto più tardi, una certa corrispondenza in una filosofia panteistica come quella di Spinoza.

Con Senofane la divinità perde le connotazioni presenti nei vari rappresentanti del pantheon olimpico e si afferma definitivamente come trascendente tutti gli aspetti materiali del mondo nella loro percepibilità e nella relazione empirica che con essi l’uomo possa instaurare. Il Dio di Senofane, come l’essere di Parmenide (di cui sarebbe stato maestro) e i più tardi Demiurgo-Bene di Platone e Uno-Tutto di Plotino, si caricano pertanto di un essenza immateriale che si estrinseca come puri intelletto o ragione, esenti da ogni scoria materialistica, come anche da ogni elemento antropico che mal si concili con tale essenza.

Il Dio di Platone però va ben oltre quello di Senofane, in quanto ne accentua sia il carattere intellettuale sia quello morale, assumendo i caratteri del bene razionale assoluto, conferendo quindi legittimità metafisica a quello che Socrate aveva soltanto posto come “virtù”, quale principio positivo comportamentale e pragmatico. Ma Platone, per caricare Dio di significato etico, è costretto a delegittimarlo come principio fisico; perciò il Dio di Platone è unificatore, ordinatore e principio significante del cosmo, ma non suo creatore.

Platone opera una scissione che sarà gravida di conseguenze nella definizione del concetto di Dio in tutta la filosofia occidentale successiva (contemperate soltanto dal panteismo stoico prima e più tardi da quello spinoziano), operando una netta dicotomia tra ciò che è intellettuale-spirituale, eterno ed immutabile, e ciò è corporeo-materiale, contingente e mutevole.

La dicotomia asettica che in Parmenide si estrinsecava in un essere stabile e reale e in un divenire apparente e irreale, diventa in Platone la dicotomia tra il vero e il falso, tra ciò che “innalza” e ciò che “abbassa”, tra ciò che va perseguito e ciò che va evitato, prefigurando così la dicotomia etica bene/male (Dio/Satana nel Cristianesimo, Allah/Iblìs nell’Islam) che dominerà la cultura europea e mediorientale almeno fino al XVII secolo.

L’antinomia vero/falso si sposta così in Platone in una seconda dicotomia parallela, che ha come termini di riferimento non più il bene e il male morali, bensì le idee e loro degradate realtà materiali, che si offrono ai nostri sensi corporei allontanandoci dalla verità.

Platone risulta essere pertanto un filosofo determinante per tutti gli ulteriori sviluppi della filosofia occidentale nei quali venga operata una distinzione metafisica tra ciò che è “originale” e immutabile ciò che è “copia” precaria, rivitalizzando altresì, nel suo idealismo, la coppia ontologico-esistenziale arcaica sacro/profano. Infatti, oltre che anticipatore di ogni spiritualismo etico-religioso (neoplatonismo ed agostinismo cristiano), lo è del realismo dicotomico cartesiano (res cogitans/res extensa), del criticismo kantiano (noumeno/fenomeno) e anche dell’idealismo hegeliano, che di questo costituisce il superamento attraverso l’ipostasi dello spirito assoluto (una specie di noumeno globale) che si manifesta storicamente nella realtà dell’universo (come totalità dei fenomeni).

Ma il Dio platonico non è creatore del cosmo, poiché, se pure gli conferisce ordine (il bene) allontanandolo dal disordine (il male), non è onnipotente e non può agire sulla realtà materiale, che esiste indipendentemente da lui. Il Dio di Platone risulta essere pertanto una sorta di rappresentante unitario e ideale delle idee eterne, che trascende le loro copie costituenti la realtà materiale e ne rimane estraneo.

Con Aristotele si afferma un nuovo “modo” di filosofare (ma non per questo una nuova filosofia), dove si sostituisce all’intuizione intellettuale e al mito (a cui fa ancora largamente riferimento Platone) l’analisi della realtà sensibile e la scienza della natura. Conseguentemente anche l’idea di Dio, che nella filosofia platonica era di carattere spiritualistico e morale, assume in Aristotele le connotazione di una “causa prima” a cui far risalire tutta una serie di aspetti ed effetti del mondo reale, soprattutto evidenti sul piano fisico-cosmologico.

Anche il Dio di Aristotele non è creatore, ma anziché essere un “ideale” e metaforico ordinatore e conservatore dell’universo nel suo unitario e perfetto “essere” ne diventa un “reale“ primo motore che lo determina e lo ordina dinamicamente. Intelletto puro e modello di perfezione, che regola il “muoversi” delle sfere celesti e il divenire dell’universo, esso è, in quanto intelletto divino, accessibile (nella sua intelligibilità) all’intelletto umano che da esso deriva. E tuttavia anche il Dio aristotelico risulta trascendente rispetto al mondo, rinnovando così un dualismo ontologico (se pure non oppositivo come in Platone) tra forma trascendente (Dio) e materia immanente (universo).

La prima esplicita forma di panteismo, dove Dio è l’unità attiva che tutto comprende, che è in continua trasformazione e che tutto ricrea periodicamente in una totale rigenerazione si ha nella cosmologia stoica. In essa, alla fine di ogni ”anno cosmico”, il mondo si distrugge e riparte un nuovo ciclo generativo, assolutamente identico a quello precedente. Il monismo stoico pone pertanto un Dio-Cosmo, dove la mente di Dio è nello stesso tempo anima e principio generatore, mentre il suo corpo è la materia dell’universo.

Ma la mente-anima si determina solo facendosi corpo (materia) e quindi si crea un legame necessitaristico in cui la provvidenza divina genera il mondo, ma il mondo la retro-determina in quanto ne diventa sostanza necessaria. In questo quadro di determinismo assoluto l’ammissione del libero arbitrio umano è una pura enunciazione di principio fortemente contraddittoria; infatti, siccome tutto è già predeterminato, la divinazione è per la filosofia stoica un’attività veridica, la quale non fa altro che anticipare, come pre-conoscenza, ciò che avverrà necessariamente.

Una forma un po’ differente di panteismo la troviamo nel neoplatonismo di Plotino, per il quale il mondo materiale è un “emanazione” di Dio che la comprende senza tuttavia esserne compreso (81). Il Dio neoplatonico è il puro essere che contiene tutto l’esser possibile e addirittura possiede una “sovrabbondanza d’essere”, quella che genera la materia allo stesso modo con cui la luce crea la visibilità o il calore scalda. In tal senso Dio (l’Uno) è un’unità assoluta e perfetta in se stessa, al di fuori della quale nulla è, ma è nello stesso tempo la molteplicità del tutto che viene ricompresa nell’unità. Dio è infatti un tutto unitario che genera il tutto e lo riassume in sé, attraverso un processo di “andata e ritorno” che procede per gradi.

Al vertice e all’origine del processo stanno le tre ipostasi divine, l’Uno, l’Intelletto e l’Anima; dal primo si genera il secondo, dal secondo la terza e dalla terza per stadi discendenti successivi tutto il resto. Ci troviamo pertanto di fronte a una trinità che per molti versi ricorda quella cristiana, ma Plotino (che opera semmai in senso anticristiano) pone un Dio che opera con l’intelletto e non già con la volontà; esso quindi opera quasi “logicamente” per il “meglio” e in altro senso, possedendo l’essere, non può fare a meno di produrlo e di trasmetterlo.

Ne deriva che l’Uno non può esimersi dal creare un “altro” da sé da ricomprendere poi in sé; quindi la molteplicità, che è pur sempre un aspetto del suo essere, predetermina l’unità (come in un processo di retroazione) a realizzarsi anche attraverso la molteplicità stessa. Ma questo rapporto necessario tra emanante e emanato (non privo di contraddizioni interne) viene negato da Plotino: infatti Dio, essendo già perfezione unitaria realizzata, non è affatto necessitato a ri-realizzarsi attraverso la propria emanazione, essendo già realizzato e perfetto in se stesso e indipendentemente da essa. L’identità dell’Uno è pertanto compiuta e immutabile; quindi ogni sua emanazione è un’estrinsecazione e nel contempo un ritorno a se stessa.

Strettamente connessa all’idea di Dio è nella filosofia antica quella di “anima”, che tuttavia (forse con la sola eccezione di Plotino) non è mai riferibile al principio divino in quanto presente in ogni singolo uomo, ma piuttosto come principio vitale, o “soffio” della vita, come d’altra parte etimologicamente significano sia i termini greci ánemos, pněuma e psyché, sia il latino spiritus, con un significato simile a quello dei biblici rŭach e nèfesh.

Il concetto di anima in senso cristiano, in quanto elemento divino calato nell’uomo, va ricercato piuttosto nel Pitagorismo e nell’Orfismo, nei quali peraltro non risulta definita un’entità divina unitaria e trascendente. L’anima, nella concezione cristiana, è pertanto una specificità concettuale solo vagamente implicata nella filosofia greca, i cui concetti giudicati “utili” sono stati piuttosto utilizzati a posteriori per giustificare “anche” razionalmente tale concezione.

Abbiamo esposto in sintesi le varie forme in cui nella filosofia occidentale è stato affrontato il problema di Dio, poiché, in varia misura e in modo più o meno esplicito, esse si ritrovano nelle formulazioni teologiche, ufficiali e non, del Cristianesimo. Per quanto la divinità della filosofia venga definita come un “Dio” unitario e razionale (e più o meno trascendente la materia), in opposizione alle divinità antropomorfiche espresse nel politeismo della mitologia, tuttavia esso, in quanto intelletto puro, non è mai assimilabile al Dio-persona giudaico-cristiano, che opera secondo la propria volontà, sia che essa si presenti come insindacabilmente arbitraria e sia che si presenti come affettuosamente amorevole.

E tuttavia, se non nella formulazione canonica (espressa dalla teologia ufficiale determinata dai vari concili), le varie formulazione del dio filosofico sono echeggiate nelle varie correnti della filosofia cristiana patristica e scolastica, creando spesso equivoci che persistono anche in molta filosofia moderna.

Il Dio di Platone risulta pertanto presente, attraverso il neoplatonismo di Plotino e di Porfirio, sia in San’Agostino (82) sia in tutte le correnti teologiche che si esprimeranno nel misticismo di Bonaventura da Bagnoregio e, più in generale, nel francescanesimo, fino a risultare determinante nell’atteggiamento teologico assunto da Lutero nel propugnare la sua Riforma. Per altro verso il pensiero aristotelico è risultato fondamentale per la formazione della filosofia di Alberto Magno, di Tommaso d’Aquino e di Ruggero Bacone.

Ma va ricordato che anche nella teologia islamica, parallelamente a quella cristiana, le filosofie di Platone e di Aristotele sono risultate determinanti per la formazione, da un lato, del pensiero di Avicenna, e dall’altro, del pensiero di Averroè, peraltro rifluiti (e per alcuni versi veri veicoli della filosofia greca) nella Scolastica cristiana. Va tuttavia notato che il Cristianesimo (attraverso lo Jahvé biblico), con la sua ipostasi del Dio-persona, reintroduce nella concezione della divinità gli attributi di ogni singolarità divina antropomorfa. La volontà e l’arbitrio, che i filosofi greci seguaci di Senofane avevano cercato di espungere, proprio perché presenti in ogni concezione antropomorfica e quindi volgare della divinità, risulta rintracciabile, all’ennesima potenza, nel Dio dell’Ebraismo e in quello del Cristianesimo.


(77) Cfr. § 1.1 (il luminoso nell’interpretazione della religione di Rudolf Otto). (torna su)

(78) Numerose sono le testimonianze sull’argomento. Clemente Alessandrino riferisce le seguenti affermazioni di Senofane: «Ma se i bovi i cavalli e i leoni avessero le mani o potessero disegnare con le mani, e far opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro.» (Stromata,V, 110). E ancora: «Gli etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi.» (Ivi VII, 22). Da parte sua Sesto Empirico riporta la seguente rampogna: «Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto ciò che per gli uomini è onta e biasimo: e rubare e fare adulterio e ingannarsi a vicenda.» (Adversus mathematicos, IX, 193). (torna su)

(79) Šankāra (VIII sec.) sarà il primo teorizzatore del monismo assoluto nel sistema vedānta, largamente ispirato ai testi delle Upanişad. Per Šankara l’unica realtà è il brahman (il principio cosmico da cui tutto deriva e che il tutto pervade) che si identifica con l’ātman (l’anima generale del cosmo). (torna su)

(80) Rāmānuja (1017 ca –1137) si oppose all’acosmismo di Šankāra ed elabora una dottrina vedānta in senso monoteista, con Vishnu quale divinità reale di riferimento. (torna su)

(81) Questo tipo di concezione viene definita panteismo acosmistico e anche come panenteismo. Si tratta di una concezione filosofica che realizza una sorta di saldatura tra la filosofia occidentale e quella orientale, poiché il rapporto che il brahman-atman vedāntico intrattiene col mondo percepibile (attraverso la maya che ne è potere creativo) un rapporto col mondo percepibile che è lo stesso esistente tra il Dio neoplatonico e il mondo materiale. (torna su)

(82) Traiamo da La città di Dio (Rusconi 1984) di Sant’Agostino qualche riferimento a Platone: (VIII, 4, p. 386) « Perciò Platone ha la gloria di aver portato la filosofia alla perfezione […]», (VIII, 5, p. 387: «[…] Platone, che è di gran lunga e meritatamente superiore a tutti gli altri filosofi gentili […] » (Ibidem): «Se dunque Platone ha detto che sapiente è chi imita, conosce, ama questo Dio e trova la felicità partecipando alla sua vita, che bisogno c’è di passare in rassegna altri filosofi? Nessuno è più vicino a noi dei platonici.» (VIII, 11, p. 397) «Alcuni, che la grazia di Cristo unisce a noi, si sorprendono quando sentono o leggono che Platone ha avuto intorno a Dio idee riconosciute in armonia con la verità della nostra religione ». (torna su)


Web Homolaicus

Testo di Carlo Tamagnone
Foto di Paolo Mulazzani

Il saggio è pubblicato dall'Editrice Clinamen di Firenze (304 pp., Euro 24,70) nella Collana "Il Diforàno"
ed è acquistabile nelle librerie o direttamente al sito: www.clinamen.it


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo antico
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Aggiornamento: 06/09/2013