STORIA MODERNA
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IL SEICENTO
Non fu certamente un caso che in Europa la crisi del Seicento colpì soprattutto le nazioni che non erano diventate capitalistiche (Spagna, Portogallo e Italia, quest'ultima ancora divisa in tanti principati) o che, pur essendo divenute protestanti, erano rimaste sostanzialmente feudali, come la Germania, anch'essa divisa in vari länder. Un indice inequivocabile della crisi socioeconomica è il calo demografico che, nella prima metà del Seicento, è nettissimo (dall'8 al 12%) nel Sacro romano-germanico impero, nei domini degli Asburgo d'Austria, nella penisola iberica e in Italia. Inutile cercare delle responsabilità di ciò in fenomeni che, al massimo, possono essere considerati delle concause o addirittura degli effetti collaterali alla più generale crisi socioeconomica. Ci riferiamo alle ricorrenti carestie dovute al peggioramento del clima (come se il clima, in un'area relativamente circoscritta come l'Europa occidentale, potesse colpire solo alcuni territori e non altri), o alle epidemie di pestilenza (come se queste non fossero trasversali a tutte le nazioni), o alla guerra dei Trent'anni (che coinvolse buona parte dell'Europa), o al peso fiscale che derivò da tutto questo. Prendiamo ad es. il tema delle epidemie di peste. Questo flagello è esistito anche nel Cinquecento, ma in nessuna parte d'Europa ha prodotto risultati così sconvolgenti come nel Seicento. Devono quindi esserci state cause concomitanti. Si è parlato di mutazioni climatiche, di insufficienti rese agricole, dovute anche a uno scarso sviluppo della tecnologia, di guerra dei Trent'anni, di eccessiva pressione fiscale, di numerose rivolte contadine... Ma casi analoghi, seppur in forme e modi diversi, erano accaduti anche nel Cinquecento. La cosa che meno si spiega è il motivo per cui, mentre la peste del Trecento coinvolse l'Europa intera, paralizzandola quasi completamente, la peste del Seicento non va affatto a compromettere lo sviluppo capitalistico di Olanda, Francia e Inghilterra, tant'è che in questi paesi non si registra alcun decremento demografico, salvo l'eccezione dell'Inghilterra, che passa da 5,4 milioni di abitanti nel 1650-60 a 5,3 milioni nel 1700-10, ma ciò fu dovuto alla guerra civile che portò alla rivoluzione. Cioè nel peggiore dei casi la popolazione di quei tre paesi borghesi rimase stazionaria. Per tutto il Cinquecento Londra registrò casi di peste in 58 anni (nel 1563 aveva addirittura 200 morti ogni 1000 abitanti), eppure la sua popolazione passò da 50.000 a 200.000 abitanti. Nello stesso periodo a Parigi, che pur conobbe la peste in 29 anni, la popolazione raddoppiò. Lo stesso nel secolo successivo: nonostante le epidemie del 1602-48, la popolazione londinese arrivò nel 1660 a 380.000 abitanti. La popolazione francese dal 1590 al 1710 fu quella che crebbe, in termini assoluti e relativi, più di qualunque altra europea, passando da 18,5 milioni a 21 milioni. Gli ultimi casi di peste si registrano proprio a Londra, Parigi e Amsterdam (1665-68), eppure questo non va a incidere minimamente sul loro sviluppo economico. Viceversa, se si prendono in esame le 10 maggiori città dell'Italia centro-settentrionale, si noterà che dopo il 1630-31 la popolazione, rispetto al periodo precedente, era complessivamente diminuita del 40%. Ciò poteva significare soltanto una cosa: le attività economiche presenti nelle città avevano smesso di attirare manodopera dalle campagne. Gli effetti di ondate ricorrenti di pestilenza su una nazione che vuole emergere a tutti i costi, superando i suoi retaggi feudali, sono molto diversi da quelli che si verificano su una nazione rassegnata a vivere nella precarietà o addirittura nella miseria, disillusa dalle promesse non mantenute di una generale emancipazione sociale. È significativo che un paese come l'Olanda, che alla fine del Cinquecento aveva solo 1,5 milioni di abitanti, riuscisse a tener testa e addirittura a sottrarre postazioni coloniali a Spagna e Portogallo, che, nello stesso periodo, avevano, rispettivamente, 7 e 2 milioni di abitanti e che, guarda caso, continueranno ad avere gli stessi abitanti fino al 1710. Il Cinquecento, cioè il periodo che va, grosso modo, dal 1480 al 1570 viene considerato, unanimemente, un periodo molto più roseo di quello successivo, relativo agli anni 1570-1660. Ma di quel periodo fortunato non seppero avvalersi né le nazioni feudali che avevano inaugurato il colonialismo oltreoceano, né quella grande penisola borghese mediterranea, chiamata Italia, che non fu capace di unificarsi politicamente. E il secondo periodo, che fu caratterizzato non solo da ripetute pestilenze ma anche da gravi carestie, da una devastante guerra europea e da innumerevoli rivolte contadine, rappresentò, in un certo senso, il battesimo di fuoco per le nuove potenze borghesi e la campana a morte per tutte le altre. Questo per dire che la forte crisi che colpì nel Seicento soprattutto i paesi feudali e/o cattolici non può essere spiegata come una casualità. Il fatto è che quando si è confinanti con nazioni che diventano capitalistiche e che, con le loro merci, vogliono penetrare nei mercati di quelle che non lo sono, queste ultime inevitabilmente s'impoveriscono. Semplicemente vengono rovinate dalla concorrenza di prodotti meno costosi e, non per questo, di qualità scadente. Le corporazioni italiane tendenzialmente ostacolavano il ricorso a nuovi metodi di lavoro o l'introduzione di tecnologie in grado di modernizzare i vari settori manifatturieri, ed evitavano il trasferimento della lavorazione manifatturiera nelle campagne, ove i costi della manodopera sarebbero stati minori, né mai riuscirono a realizzare grandi opifici in grado di attirare significative masse contadine. Anzi, la crisi portò a una riconversione al negativo dell'industria, che passò dalla produzione di panni di lana a quella di seta grezza e filati. Semmai è stato nell'agricoltura che, per cercare di affrontare il terribile momento, si scoprono o si rivalutano vocazioni riguardanti i vini, i formaggi, il riso, il lino e la canapa. Nel XVI e XVII secolo paesi come Olanda, Francia e Inghilterra fecero la parte del leone (soprattutto la prima) e non solo in Europa, ma in buona parte del mondo allora conosciuto. La Compagnia delle Indie orientali delle Province Unite, appena liberatesi dall'oppressione spagnola, era in grado di controllare l'intero arcipelago indonesiano, l'isola di Ceylon (per commerciare con l'India), il Sudafrica (per controllare lo scalo principale per le navi in transito sulla rotta tra Europa e Asia), Formosa (per commerciare con la Cina e, in via esclusiva, dopo il 1639, col Giappone), e questo non senza sottomettere le forze lusitane e rivaleggiare con quelle inglesi, che pur, a partire dal 1670, cominceranno ad avere la meglio. L'Olanda aveva un tonnellaggio navale pari alla metà di quello di tutte le nazioni europee. Riuscì persino a fondare insediamenti coloniali per la tratta degli schiavi nelle piccole Antille, nella Guyana e nel Nord del Brasile. Insomma, è evidente che quando si afferma il capitalismo in determinate nazioni, è impossibile restare feudali o tornare al feudalesimo, come fece l'Italia borghese, incapace di unificarsi e di accettare la Riforma: si finisce con l'assumere il ruolo di "colonia altrui", se non politicamente, certo economicamente. Tutta l'Europa divenne importatrice di spezie, zucchero, cotone indiano, ecc., che fecero arricchire soltanto Francia, Inghilterra e Olanda, cioè le nazioni più forti sul piano navale, quelle che non temevano alcuna concorrenza da parte delle nazioni cattoliche e semi-feudali. Il colonialismo ispanico-lusitano, praticato in Africa e in America, non era riuscito a far decollare i paesi mediterranei in chiave capitalistica, per cui il loro destino pareva segnato. Quando gli inglesi e gli olandesi, con il loro tessile a buon mercato, entrarono nei mercati italiani, passando per il porto di Livorno, l'industria della lana e della seta di Firenze, Milano, Genova, Venezia subì un colpo mortale, da cui non si riprenderà più sino all'unificazione. Economicamente all'Italia non mancava nulla per diventare una potente nazione capitalistica. Mancava solo un unico mercato interno, che avrebbe potuto essere realizzato da una forte volontà politica. Non è forse significativo che mentre alla fine del Cinquecento la metà dei telai funzionanti in Europa erano italiani, già nei primi decenni del Seicento si erano invece dimezzati? Il rigido ordinamento delle corporazioni impediva di fatto uno sviluppo capitalistico, in senso individuale, del tessile. È singolare p. es. il fatto che la tessitura della seta, in una città come Lione, dove nel 1536 era stata importata dagli italiani, verso la metà del Seicento, grazie ad una tecnologia d'avanguardia, aveva acquisito un ruolo dominante in Europa. Non può certo apparire casuale che in uno dei due Stati italiani ad essere più autonomi dagli spagnoli, e cioè quello sabaudo, si fu in grado, verso la seconda metà del Seicento, di favorire un innovativo sistema di produzione tessile basato sull'utilizzo del mulino da seta circolare a ruota idraulica e sulla concentrazione dell'intero ciclo produttivo in un unico grande edificio: in pochi decenni il Piemonte diventò il maggior produttore di tessuti in Italia. Era la forza dell'industria che si stava imponendo in maniera irreversibile. Ecco perché il XVI e soprattutto il XVII secolo sono stati decisivi come punto di non ritorno, al cospetto del quale l'area cattolica dell'Europa non poteva fare altro che constatare la propria arretratezza. La fortuna che avevano avuto la Spagna e il Portogallo di inaugurare per prime il colonialismo mondiale, avrebbe presto esaurito tutte le sue risorse. La debolezza della borghesia italiana, abituata a privilegiare il proprio particolare, simile, in questo, agli egoismi della curia pontificia, era così grande che non si riuscì neppure a trovare una linea comune per cacciare l'oppressore straniero, sostenendo p. es. una rivolta popolare come quella di Masaniello. Con questo non si vuole affatto sostenere che l'Europa, per potersi liberare dal feudalesimo, avesse come unica strada da percorrere quella del capitalismo. Le rivolte contadine, tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, furono praticamente ininterrotte in tutta Europa. Spesso si intersecavano con motivazioni religioso-riformistiche, ma erano perlopiù contro le vessazioni fiscali delle monarchie e i soprusi della nobiltà terriera, senza un vero progetto politico alternativo al sistema dominante. La borghesia non arrivò mai a difendere queste lotte per promuovere una riforma agraria. Al massimo i contadini vennero strumentalizzati da una borghesia intenzionata a liberarsi del peso di tradizioni vetero-feudali divenute insopportabili. Ma la borghesia era la prima a chiedere ordine da parte dello Stato. Quanto ai contadini, l'unico modo che avevano per emanciparsi economicamente era quello di trasformarsi in capitalisti agrari, oppure di trasferirsi in città a fare gli operai manifatturieri. Fonti
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